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domenica 8 novembre 2009

Augusto Ciarrocchi

 

INFERMI E PELLEGRINI: GLI OSPEDALI DI CIVITA CASTELLANA NELLA GESTIONE DELLA CONFRATERNITA DI S. GIOVANNI DECOLLATO DAL XVI AL XIX SECOLO.

da: Civita Castellana Studi / 1. - Civita Castellana: Edizioni Biblioteca Comunale, 1995. Collana Ninfeo Rosa.
                                                                                                     alla memoria di Giorgio e di Roberto


INTRODUZIONE
La presente ricerca prende in esame le vicende degli ospedali di Civita Castellana nel periodo che va dalla fine del XVI alla fine del XIX secolo, nonché quelle degli altri servizi gestiti dalla Confraternita di S. Giovanni
Decollato a favore della comunità. Il lavoro si basa eslusivamente sullo spoglio di tre registri della Confraternita
che mi sono stati messi a disposizione dall’architetto Luciano Soldateschi, al quale vanno i miei più sentiti ringraziamenti. I pochi ritagli di tempo che posso dedicare alla ricerca storica non mihanno consentito di ampliare e completare il presente scritto che, tra momenti di fervore e di stanca, è pronto per la pubblicazione dopo oltre tre annidall’ inizio dei lavori.
Trattandosi di documentazione inedita, è doveroso premettere che i verbali  e gli atti contenuti nei tre volumi non riportano esclusivamente notizie sugli ospedali, ma trattano diversi argomenti relativi alla vita della pia istituzione durante il periodo indicato.Dagli stessi si possono desumere dati e notizie  sulla toponomastica  della città
e del suo territorio, sull’agricoltura in genere, sulle persone e sulle famiglieresidenti, sulle modalità di trasmissione dei beni, ecc. La possibilità di sfruttare i tre manoscritti per altre  eventuali ricerche, mi spinge a chiedere pubblicamente all’Arch. Soldateschi, che reputo esser persona di cultura e di buona sensibilità storica, di volerli donare ad una pubblica istituzione, la biblioteca comunale ad esempio , al fine di permettere la facile consultazione a quanti volessero farlo.
   
Descrizione dei manoscritti
 Il primo volume ha le dimensioni di 34 x24 cm. ed è composto da 225 fogli numerati da1 a 225. Il numero è scritto in alto a destra dal recto del foglio. Sono in bianco i fogli da 21 recto a 38 recto, da 57 recto a 59 verso,
da 120 verso a 129 recto, da 168 v a 179r (che sono sbarrati),da 185r a 191v, da 222r a 225v, nonché il foglio 140 recto e verso.
La coperta è di cartone molto duro rivestito di pelle marrone con tre legature orizzontali. Il tempo, l’umidità e i topi hanno ridotto la coperta in cattive condizioni mentre i fogli sono in buona parte integri. All’interno del volume si trovano allegati alcuni fogli, per lo più si tratta di richieste indirizzate alla Compagnia.
Un‘etichetta sulla prima pagina di copertina presenta la scritta, in parte a stampa e in parte manoscritta,: ”Confraternita di S. Giovanni Decollato. Deliberazioni dal 29 agosto 1622 al 27 settembre 1846”.
Nel recto del primo foglio si trova la vera intitolazione del manoscritto che è: “3° Libro delli Consigli et resolutioni da farse dalla Confrati della V. Compagnia di S. Gio. Decollato detta la Misericordia di Civita Castellana”. La prima riunione verbalizzata risale al 29 agosto 1628 (non il 29 agosto 1622) e l’ultima al 27 settembre 1846.
Il secondo volume ha le dimensioni di 26,5 x 20 cm. ed è composto da 299 fogli numerati, come il primo volume, da 1 a  299. Sono stati lasciati in bianco i fogli  da 48v a 49v, da 167v a 207v. La coperta è di pergamena con rinforzi in cuoio. Dopo il foglio 299 ci sono trentuno pagine allegate, numerate da 1 a 31,
che contengono i disegni e le mappe a colori dei beni posseduti dalla Confraternita. All’interno del volume si trovano allegate alcune lettere contenenti istanze rivolte alla Compagnia. Nel libro sono trascritti gli atti, soprattutto testamenti, donazioni e contratti, nel periodo che va dalla fine del ‘500 alla metà del ‘700.
Questo volume si trova in buono stato, le pagine - eccetto qualche lacuna provocata dalla corrosione dell’inchiostro - sono tutte leggibili. L’intitolazione del manoscritto è la seguente: “Hic est liber in quo descibentur omnia et singula instrumenta spectantia ad Venerabilem Confraternitatem S. Joannis Bapte Decollati (…) della Misericordia Civitatis Castellana (…)”.
Il terzo volume, formato da 196 fogli non numerati, ha le seguenti dimensioni: 27 x 18,5 cm. La copertina è di cartone spesso con rinforzo in pergamena. Sulla prima pagina di copertina compare un’etichetta con fondo rosso e cornice a caratteri in oro con la seguente scritta: “Amministrazione della Compagnia di S. Giovanni Decollato di Civita Castellana”. Sempre nella stessa facciata si trova un’altra etichetta con la dicitura: “S. Giovanni Decollato – Deliberazioni della Congregazione dal 12 Ottobre 1848 al 29 agosto 1902”.
Nel primo foglio viene riportata l’esatta intitolazione del volume: “Libro delle Congregazioni della Ven.le Confraternita di S. Giovanni Decollato, e Misericordia di Civita Castellana – Rinnovate nel mese di Settembre 1848”. Il manoscritto si trova in buone condizioni e presenta soltanto una lacuna nella parte della rilegatura dovuta all’umidità.

CAPITOLO 1 
LA CONFRATERNITA

Compiti e finalità della compagnia
 Spettando alla Confraternita di S. Giovanni Battista la gestione degli ospedali, reputo opportuno fornire alcune notizie sulla sua struttura e sul suo funzionamento. Nelle intitolazioni ufficiali la Confraternita era indicata con il nome di Venerabile Confraternita di S. Giovanni Battista Decollato della Misericordia di Civita Castellana e spesso in sostituzione del sostantivo confraternita veniva usato quello di Compagnia, attestandone così il medesimo significato. La Confraternita di Civita Castellana era aggregata alla “Compagnia della Misericordia di Roma”[1] e tale aggregazione era particolarmente sentita anche dai singoli confratelli[2]. Non abbiamo nessuna notizia certa circa la data di costituzione della Confraternita, sappiamo soltanto che, nel 1848, si fa risalire l’istituzione “al principio del Decimoquarto Secolo”[3]. Comunque, il termine ante quem che abbiamo a disposizione è quello del 6 marzo 1586, giorno in cui si registra la concessione di un immobile da parte della Comunità di Civita Castellana [4]. Le finalità che si prefiggeva la Confraternita sono chiaramente esposte in una testimonianza resa il 20 giugno 1616 dal canonico Geronimo Giuliani, nella quale si dice che “Il carico di questa compagnia è di seppellire i morti, che si trovano nel territorio, condur l’infermi al suo Hospitale, et a quelli soministrar li medicamenti, et il vitto loro, soviene anco alcun povero della Città di elemosine secrete, visita anco li poveri carcerati, et galeotti, et quelli li governa secondo li è ordinato dalla Camera Apostolica, copre alcune volte qualche poverello di qualche vestimento usato”[5]. In un’altra testimonianza resa dal canonico Pietro Paradisi, ai carichi menzionati si aggiunge anche quello di “confortar li condannati alla morte”[6].
Si tratta di compiti che debbono ricondursi sia ad una funzione prettamente caritativa e di pietà cristiana, come nel caso del seppellimento dei morti, della cura degli infermi, del conforto ai condannati a morte, delle elemosine e dell’aiuto ai poveri, e sia ad una incombenza di pubblico servizio, quando si deve governare i carcerati.
Se per quest’ultimo servizio la Compagnia riceve un corrispettivo dalla Camera Apostolica, per i servizi umanitari le spese relative sono a suo carico, salvo qualche modesta eccezione.
E’ interessante notare che il seppellimento dei morti avveniva soltanto per quelli che erano rinvenuti fuori della città, più esattamente per quelli “che si trovano per la campagna”[7]. Per quanto riguarda, invece, le elemosine che si elargivano ai poveri della città, la segretezza si rendeva necessaria per rispettare la dignità del “povero vergognoso”[8]. Dalla prima testimonianza ricaviamo la notizia che “li compagni di essa (Confraternita), che sono li primi della Città vesteno di sacco negro”[9]. I confratelli durante le manifestazioni ufficiali – in primo luogo la processione del Venerdì Santo e quella del 29 agosto giorno della festività di S. Giovanni Battista – indossavano il sacco nero[10]. Chi erano “li primi della Città”? Si trattava dei residenti più in vista e benestanti dell’epoca. Scorrendo gli elenchi dei confratelli nei secoli presi in esame, ci si rende immediatamente conto che quella affermazione corrisponde al vero.
I cognomi che vi compaiono – che hanno lasciato dei segni nella memoria cittadina – sono i seguenti: Pechinoli, Petroni, Mazzocchi, Fantibassi, Ciotti, Calisti, Gai, Spenditori, Guglielmi – Paglia, Paolelli, Anzellini, Morelli, Paradisi, Boccapesce, Antona, Midossi, Luzi, Coluzzi, Lepori, Ercolani, Giuliani, Forlani, Sacchi, Andosilla, Antonisi – Rosa[11].
 
La Chiesa di S. Giovanni Decollato
Le riunioni formali dei confratelli avvenivano almeno una volta l’anno nell’oratorio della chiesa di S. Giovanni Battista. La chiesa, attualmente in servizio, è sede della parrocchia di S. Benedetto[12]. Nell’elenco dei beni della Confraternita viene riportata la raffigurazione della chiesa che risale al XVII secolo (tav.I.). Il disegno ci mostra un edificio non tanto grande con tetto a doppio spiovente coperto di tegole. La facciata – senza intonaco ma con conci di tufo a vista – è caratterizzata da un portale ad arco costruito con mattoni e da un grande oculus circolare anch’esso in mattoni. Il portone d’ingresso – al quale si accedeva salendo due scalini – è ornato da un paio di volti umani così come il timpano soprastante. Tali raffigurazioni debbono presumibilmente riferirsi alla testa del santo titolare della chiesa dopo la decollazione. Sul lato destro della costruzione, intonacato e tinteggiato di rosso, compare una porta d’ingresso secondaria ad arco; a lato di questa c’è una piccola finestra a livello della strada che ci segnala l’esistenza di un locale seminterrato. Dietro la chiesa si trova uno spazio verde delimitato da un muro di cinta formato da cinque fila di conci di tufo. La chiesa, così com’è stata descritta resiste fino alla metà dell’800 quando iniziano i restauri che ne modificheranno la struttura e che la fanno apparire cosi com’è oggi (tav.II). Nel 1864 viene deliberato di dare il via al “piano di esecuzione per restauri da farsi nella nostra chiesa di S. Giovanni redatto dall’Ingegnere Bertazzi portante la somma di scudi 633.89,9/10”[13]. Nei due anni seguenti, però, sorge il problema sia della posa in opera della volta – che richiede la costruzione di tre pilastri – e sia della stabilità della paretedestra che fronteggia l’ospedale – “che minaccia rovina essendo senza fondamenti”[14]. I lavori relativi alla volta ed al ripristino della stabilità del muro “importano la somma di scudi 200 circa, oltre altre spese indispensabili di Falegname per la porta d’ingresso della Chiesa stessa (…) inservibile, dello Scarpellino per li gradini dell’Altare Maggiore, che ancor questa lavorazione andrebbe a montare senza meno alla somma di scudi 100 e che questi scudi aggiuntivi al primitivo contratto che importava scudi 600 per la costruzione della volta, Pilastri, Mattonato, Cornicione, e nuova travatura del tetto, si ha una spesa totale di scudi 900 circa”[15]. Tra la confraternita e l’esecutore dei lavori, il mastro muratore Domenico Paolelli, le cose non andarono nel verso giusto dato che, nel 1867, si giunse ad una transazione a chiusura dei lavori per il complessivo importo di 1060 scudi[16]. A distanza di 30 anni “la volta della Chiesa di S. Gio. Decollato minaccia rovina” e pertanto occorrono 323,75 lire per le necessarie riparazioni[17].
 
Le riunioni
 La Confraternita si radunava sempre il 29 agosto di ogni anno “nel giorno della Decollazione di S. Giovanni Battista”[18]. Sono poche le riunioni che risultano essere verbalizzate al di fuori di questa data. Nel giorno della festività del patrono si procedeva alla elezione delle cariche, si discuteva e si deliberava sui problemi e sulle istanze che erano pervenute alla Compagnia. Non è facile stabilire con precisione quali erano le cariche della
Confraternita poiché variano e si modificano con il passare degli anni. Ad eccezione della carica di priore, che compare sempre, si trovano le seguenti figure: sotto-priore, cappellano, depositario, camerlengo, priora, cancellerie, sindaco, governatore, nonché quelle relative agli ospedali: sovrastante e visitatore. Soltanto nel 1848 viene specificato che “Gli officiali di questa Congregazione, si scelgono in ogni anno, (…) sull’adunanza solita a tenersi nel giorno 29 Agosto, Festa titolare della Confraternita, e sono i seguenti Priore = Un anno Ecclesiastico, e l’altro Secolare Sindaci = Uno Ecclesiastico, e uno Secolare L’amministratore Il Segretario
Due Derettori della Processione del Cristo Morto Quattro deputati alla Direzine dell’Ospedale Il Sacrestano della Chiesa” [19]. La Congregazione Economica era costituita da nove ecclesiastici e da nove “Nobili Signori” [20]. Viene confermata così a distanza di oltre due secoli l’impronta elitaria della Confraternita che era composta dai “Canonici della Cattedrale” e dai laici più ricchi [21]. Le votazioni, sia per le elezioni che per le varie deliberazioni, erano a scrutinio segreto e fino al 1698 il voto veniva espresso nel seguente modo: “ Chi vorrà accettarlo dia la palla tonda favorevole, e chi non vorrà accettarlo la dia quadra negativa”[22]. Nella riunione del 1704 viene adottato per la prima volta un nuovo modo di esprimere il voto, le palle diventano bianche per il voto  favorevole e nere per quello contrario[23]. La segretezza del voto non veniva rispettata solo in particolari occasioni, quando cioè la decisione era già in partenza univoca e data per scontata. In questo caso la Compagnia decideva “a viva voce”[24]. Con il sinodo del 1756 il vescovo Sante Lanucci ribadiva il principio della segretezza delle votazioni e proibiva però la risoluzione “fatta colla viva voce”[25]. Veniva altresì vietato di votare ai confratelli al di sotto dei 21 anni ed era previsto che gli ufficiali della Confraternita “non siano parenti tra di loro di primo, e secondo, grado, né siano debitori della stessa (Compagnia), né di alcun altro Luogo Pio”, e che l’avvenuta elezione in dispregio di tali principi “sia nulla ipso facto”[26]. Si voleva garantire l’imparzialità del voto attraverso l’eliminazione dei fattori che potevano influenzarla.
  
I beni
 La Compagnia traeva i mezzi finanziari necessari alla sua attività dai beni che possedeva. Si trattava soprattutto di terreni e fabbricati che gli pervenivano dalle ricorrenti donazioni, solitamente a carattere testamentario. Non esisteva però una netta demarcazione tra i beni della Confraternita e quelli dell’ospedale della Misericordia. Difatti anche nel primo inventario dei beni che, in ordine cronologico, compare nel Liber Instrumenta non si distingue con esattezza l’ente intestatario ma i beni vengono tutti elencati sotto il titolo di “Decriptio bonor. Ven. Confr, Misericordie, et illius Hospitalis” [27].
Prima del 1616 la Confraternita non possedeva molti beni, soltanto 2 case (una casa con cantina e una con orto e cortile), un cellaro, 4 terreni, una grotta [28]. Soltanto dopo aver incamerato i beni dell’ospedale della comunità diverrà titolare di un cospicuo patrimonio immobiliare. Patrimonio che verrà poi concesso in affitto e in locazione o maggiormente in enfiteusi. Riguardo ai beni non concessi la Compagnia cercava in tutti i modi di poterci ricavare qualche utilità, così come avvenne il 1° novembre 1635 quando in presenza del vescovo Gozzadini e del priore della Confraternita Orazio Antona “Fu accesa la Candela nel Portico di Santa Maria (…) per la vendita della legna della Selva della nostra Campagnia della Misericordia in contrada Messano”[29].
  
La scuola
 Oltre ai compiti di cui si è parlato, la Compagnia sul finire del XVIII secolo interviene anche in campo scolastico. Nella riunione del 29 agosto 1785 si decide di togliere l’assegnamento di 10 scudi annui “che fin dall’Anno della passata Carestia furono assegnati alle Maestre Pie”[30]. A causa della carestia le famiglie non potevano permettersi di pagare le lezioni alle maestre così che “le Ragazze non andavano più alla Scuola, e birbantavano per la città”. Intervenne la Compagnia pagando per conto delle famiglie “colla condizione però, che (le maestre) non dovessero esigere la norma dalle Scolare”[31]. Non avendo osservato questa condizione ed anzi “esigendo da dette la norma” la Confraternita deliberò la revoca dell’assegnamento. Nel 1795 la confraternita della Morte ed Orazione venne aggregata alla Compagnia con bolla “ottenuta da N.S. Papa Pio VI li, 2 agosto 1795”[32]. Nel 1844 il vescovo Fortunato Maria Ercolani[33] metteva al corrente i confratelli di S. Giovanni Decollato del suo proposito di portare a Civita Castellana un gruppo di religiosi Domenicani dando loro per sede la soppressa chiesa di S. Benedetto, riparata di recente a sue spese[34]. Era intenzione del vescovo di assegnare ai religiosi “i beni sia Urbani, che Rustici della chiesta di S. Giovanni Decollato” aggregandoli “ alla Parrocchia di S. Benedetto e questa affidare al surriferito Ordine, coll’obbligo di assumere i pesi inerenti alli detti Beni tanto di soddisfazione di Messe, quanto all’adempimento della Processione del Venerdì Santo, col decoro attuale e senza punto ledere i diritti, che ha nella Chiesa di S. Giovanni questo Reverendissimo Capitolo” [35]. I noti avvenimenti che portarono all’unità d’Italia incidono anche sulla vita della Confraternita. Dal registro dei verbali delle adunanze traspare chiaramente una sospensione dell’attività.
Difatti esiste un arco di tempo, che va dalla fine del 1867 alla fine del 1873, durante il quale la Compagnia, almeno formalmente, non si riunisce. Soltanto nel dicembre del 1873, “essendo cessate le cause eccezionali che indussero la Santità di N.S. Papa Pio IX a dichiarare sospesa la Congregazione di S. Giovanni”, dal Pontefice proviene l’autorizzazione a che “siano riabilitate le due Deputazioni di S. Giovanni,e della Pia Eredità Andosilla nei loro primitivi diritti, ed ora in avanti vengano nuovamente immesse nell’Amministrazione dei beni spettanti ai detti Pii Istituti e nella direzione interna dell’ospedale” [36]. L’inizio del XX secolo vede ancora in attività la Compagnia di S. Giovanni Battista Decollato.

CAPITOLO 2
L’OSPEDALE DEI PELLEGRINI

L’ospedale di S. Croce
Al tempo di “Leonis divina providentia Papa decimi anno eius tertio Die vero 29. mesi Decembris” (29 dicembre 1515) risale  l’inventario dei beni immobili dell’ospedale di S. Croce redatto dai “Providi Viri Franciscus Magnacasa, et Angelus Sionius atq. Angelus Antonij Calisti de Civitate Castellana Factores, et Procuratores Hospitalis Sancte Crucis”[37]. L’inventario, “originali scritpo in carta pergamena recondito in capsula Sigilli”, conservato nella cancelleria della Comunità[38], viene reso pubblico nel 1617 dal notaio “Levinius Vespasianus de Bassanello Ortana Diocesis”[39] e trascritto nei registri della Confraternita di S. Giovanni Decollato.L’inventario riporta – tra gli altri beni – anche la “Venerabilis Ecclesia S. Crucis posita in Civita Castellana in la contrada vie macinis” nonché “la casa dell’Hospedale con la Pontica di Nanti”[40].
Apprendiamo così che già nel 1515 la città era dotata di un ospedale con relativa chiesa situato dentro l’abitato, nella contrada denominata “vie macinis cioè Pusterla”[41]. La zona del centro storico è quella attualmente riconosciuta come via di porta Posterula, dal nome della porta medievale, ancora esistente, che si trova quasi a metà costa del lato esposto a nord del pianoro tufaceo su cui sorge la città. L’ospedale si affacciava sulla “viam vicinalem, qua itur ad ripas”, era cioè situato sulla strada che scendeva e portava alla ripa[42]. La denominazione “vie macinis” è giustificata dalla presenza di alcuni mulini e macine ad acqua che erano disposti lungo il sottostante Rio Maggiore e che erano ancora funzionanti fino a qualche decennio fa. Non sappiamo nulla circa la consistenza e le funzioni dell’ospedale di S. Croce, nell’inventario viene detto soltanto che è dislocato su due livelli, “stantie alto, et basso”[43]. Se nel 1515 l’ospedale di S. Croce possiede 2 case, 19 terreni, una grotta, 8 orti, un pozzo da grano, 4 vigne, 3 oliveti ed una canapina, è lecito pensare che la sua fondazione debba ricondursi a qualche anno prima, soprattutto in considerazione del fatto che i suddetti beni – come accadeva solitamente – erano probabilmente pervenuti alla pia istituzione tramite disposizioni testamentarie dei benefattori. Bisogna dire però che, nonostante l’intitolazione, l’ospedale verso la metà del ‘500 non era più amministrato dalla compagnia di S. Croce. L’amministrazione era passata già da qualche anno nelle mani della Comunità come si può rilevare dallo statuto comunale, nel quale veniva previsto che il nuovo podestà doveva giurare di prestare le sue cure allo “hospitale sa(n)ta Cruce”[44]. Il Pechinoli ci riferisce che nel 1566 il priore della compagnia di S. Croce, tal Ludovico Monreale, aveva invano promosso una causa al fine di riottenerne la diretta amministrazione a scapito dei santesi della Comunità[45]. Successivamente l’ospedale viene chiuso e la Comunità incamera tutti i beni per passarli alla gestione del suo ospedale. Tanto è vero che nel 1616 gli stessi beni si trovano riportati nell’inventario dell’ospedale della Comunità situato “extra dicte Civitatem in Suburbio prope Viniale”[46]. La chiesa, però, rimase in uso alla confraternita di S. Croce mentre lo stabile del vecchio ospedale venne concesso in locazione[47]. A margine dell’inventario compare una annotazione che successivamente attesta la restituzione definitiva della chiesa ai confratelli di S. Croce i quali,  a loro volta, - ma non sappiamo quando – la affittano ad uso di granaio[48].

L’ospedale della comunità
 Non si conosce con esattezza il momento dell’avvenuta cessazione dalle funzioni dell’ospedale di S.Croce e il successivo passaggio dei suoi beni all’ospedale della Comunità. Il 9 novembre 1589, però, il passaggio è già avvenuto. Lo prova il fatto che “Laurentius Petronius et Nicolaus Rutilus” stipulano, nelle vesti di “Economi Venerabilis Hospitalis Civitatis Castellana”, un contratto di affitto con Francesco Buttarelli per un terreno chiamato il “Bastione” posto “in contrada Valsiarosa”, già facente parte dei beni dell’ospedale di S. Croce[49].
Nel 1603 Mercurio Fantibassi in qualità di santese stipula un contratto di locazione di un immobile di proprietà dell’ospedale della “Communitatis dicte Civitatis sub invocatione Sancte Crucis” sito in Vignale[50]. Il passaggio dei beni dall’ospedale di S. Croce a quello della Comunità ha comportato anche, in un certo qual modo, il passaggio della dedicazione, come è comprovato dall’inciso “sub invocatione Sancte Crucis”.
Circa le origini dell’ospedale della Comunità sappiamo soltanto quello che ci viene riferito dal Pechinoli e cioè che gli amministratori della città “per Albergo d’Infermi, e de Pellegrini dotorono, et edificorono fuori della Città l’Ospedale”[51]. L’ospedale era “costructum et fabricatum in Suburbio in Viniale” [52], “extra et prope menia”[53]. La fabbrica dell’ospedale era situata alle pendici del pianoro di Vignale, fuori ma vicino alle mure della città. Dato che la stessa località viene indicata anche come il “Borgo di sopra”, dobbiamo pensare che l’ospedale non era isolato fuori dalla città ma era collocato in un suburbio abitato[54]. Nella mappa dei beni della Confraternita di S. Giovanni Decollato, riportava nel Liber Instrumenta, c’è la raffigurazione dell’ospedale, composto da tre distinti corpi di fabbrica, posto nel luogo dove attualmente esiste una costruzione ad uso abitativo (tav. III). Un confronto tra l’edificio attuale e quello raffigurato nel disegno ci porta ad escluderne la corrispondenza; è doveroso però constatare che al di sotto dell’attuale costruzione è visibile, dalla parte della strada, una complessa stratificazione muraria che lascia presumere una discreta attività edilizia. Oltre al disegno possediamo anche una discrezione del complesso ospedaliero: “domus pro albergandis, et ibi contiguam habet domus pro servitio Hospedalerior cum horto retro, et vinea canneto, stabulo”[55]. Il corpo di fabbrica più grande era sicuramente destinato al ricovero degli ospiti, mentre quello ad esso appoggiato si potrebbe individuare come la casa di servizio dell’ospedaliero (tav. IV). Il terzo fabbricato, per le sue ridotte dimensioni, ha sicuramente i connotati dello “stabulo” di cui sopra. L’ospedale era dotato anche di un orto e di una vigna con canneto.

Pellegrini e mendicanti
 L’ospedale che viene sempre indicato come Ospedale della Comunità, nel 1616 per la prima volta è chiamato con il nome di “Hospedale de Pellegrini”[56]. L’albergo degli infermi e dei pellegrini richiamato dal Pechinoli mezzo secolo prima aveva maggiormente rivolto le sue cure a favore di quest’ultima categoria di bisognosi.
Il pellegrinaggio dei fedeli che si recavano a Roma era andato con il passar del tempo pian piano scemando, restava comunque un discreto transito di persone che provenivano o si recavano nell’Urbe seguendo la vecchia consolare Flaminia che passava originariamente a 4 Km. dalla città. L’ubicazione dell’ospedale alle pendici di Vignale deve ritenersi frutto della casualità o di una scelta ponderata? Non disponendo di alcun elemento certo a favore dell’una o dell’altra ipotesi, in via analogica propendiamo per l’intenzionalità della scelta per il fatto che nei “secoli del Medioevo tutta una folla (…) di pellegrini, popolava gli ospizi situati (…) fuori dalle porte Romane della città e lungo le strade Romee per chi era diretto a Roma”[57]. Come per la generalità dei casi, anche il nostro ospedale era situato a poche decine di metri dalla porta medievale – demolita nel 1854 – e a pochi metri dall’antiporta rinascimentale fatta costruire dal cardinale Rodrigo Borgia, futuro Papa Alessandro VI, nel periodo in cui era stato governatore della città[58]. Nel disegno a nostra disposizione l’ospedale è posizionato proprio nell’angolo formato dalla “strada romana delle Carrozze” e dalla “strada Romana de mulattieri”[59]. La Flaminia difatti dal 1609 fu deviata e fatta passare sotto la città per volere di Papa Paolo V [60]. Questo evento provocò indubbiamente un maggior transito di gente nella città. Il passare dei secoli aveva visto però modificate le motivazioni che muovevano questa massa di persone. Se prima era l’ardore della fede, dopo fu l’estrema povertà che portava a girovagare alla ricerca di qualche provvidenza. Tale mutamento ci viene confermato in parte dalla funzione all’epoca attribuita all’ospedale, il quale serviva “pro albergandis pauperibus et mendicantibus Pellegrinis”[61]. Ciò è indice del fatto che le cose erano cambiate, con la prevalenza del fattore miseria e povertà sul fattore fede. Una riprova in tal senso ci viene offerta dalla testimonianza di Mercurio Fantibassi, per il quale “il carico di detto Hospitale è di dare à dormire a Poveri paesagieri mendicanti una notte, o due al più, e tre quando è occorso, secondo li tempi, e le conditioni loro, et in evento d’infermità si suole mandarli via a cavallo secondo il loro camino e dove vogliano andare, e mentre stanno in detto Hospidale amalati, che non possono andar via, per qualche causa all’hora se gli da il vitto”[62].
Il servizio più importante prestato dall’ospedale era quello di dare alloggio ai poveri mendicanti di passaggio per tre giorni al massimo. I fattori che eccezionalmente facevano protrarre l’ospitalità al terzo giorno non sono indicati con molta chiarezza. La spiegazione più plausibile dell’inciso “secondo li tempi, e le conditioni loro” sembra essere quella riferita alle cattive condizioni meteorologiche, per un verso, ed alla non buona condizione fisica dell’individuo, per un altro[63]. Il vitto veniva offerto esclusivamente in caso d’infermità quando i malati non potevano essere trasportati altrove. Sappiamo che solitamente i poveri che si ammalavano venivano trasportati a cavallo a Rignano o ad Otricoli[64]. Ne deduciamo pertanto che l’ospedale dei Pellegrini, agli inizi del XVII secolo, non è più un luogo di cura, bensì un ospizio caritatevole per povera gente di passaggio.
Perché i malati erano trasportati in altri ospedali e non venivano ricoverati in quelli civitonici? La città ne era sprovvista? A quest’ultimo interrogativo possiamo rispondere che in città almeno un ospedale c’era, dato che nello stesso anno 1616 la confraternita di S. Giovanni Decollato aveva anche il compito di “condur l’infermi nell’Hospitale di detta Compagnia”[65].Una volta stabilito che almeno un ospedale esisteva, possiamo cercare di rispondere al primo interrogativo dicendo che presumibilmente la recettività non era adeguata alle esigenze della cittadinanza e quei pochi posti letto a disposizione dovevano essere riservati ai residenti.
A formalizzare l’avvenuto mutamento delle funzioni dell’ospedale interviene la modificazione del nome, non più ospedale dei Pellegrini ma “Hospitale di S.to Antonio per li Mendicanti” come si legge nella didascalia al disegno riportato nella mappa dei possedimenti della Compagnia[66]. Non siamo in grado di datare con precisione questa variazione ma possiamo indicativamente collocarla intorno alla metà del ‘600[67].
E’ altresì importante rilevare che all’ospedale è stata data una nuova protezione spirituale, passando dalla “sub invocatione Sancte Crucis” dei primi anni del secolo a quella di S. Antonio. Non si conoscono le motivazioni che portarono a questo cambiamento e neanche possiamo indicare l’esatta figura del santo. Presumibilmente si trattava di S. Antonio Abate a cui era dedicata anche la piccola chiesa situata proprio al culmine della salita che dall’ospedale portava dentro la città[68].

La gestione della confraternita
 Nel 1616 l’ospedale dei Pellegrini viene dato in gestione alla Confraternita di S. Giovanni Decollato.
Il 20 giugno dello stesso anno il notaio Pietro Paolo Pechinoli registra cinque testimonianze riguardanti lo stato dell’ospedale. Ostilio Mazzocchi, Mercurio Fantibassi, Macario Calisti, Geronimo Giuliani e Pietro Paradisi – i primi tre come santesi dell’ospedale e gli altri due come canonici della cattedrale di S. Maria Maggiore – ci relazionano dettagliatamente su due aspetti riguardanti l’ospedale. Il primo concerne l’esaltazione dei compiti e dei meriti della Compagnia di S. Giovanni Decollato, il secondo riguarda invece l’aspetto economico e finanziario dell’ospedale. In merito a quest’ultimo, sappiamo che le entrate dell’ospedale dei Pellegrini, che “non ascendono più di cinquanta scudi in circa un anno per l’altro”, risultano adeguate a coprire le spese che consistono in scudi “dieci otto l’anno all’Hospedaliero per suo salario et del restante se ne fanno matarazzi, pagliaricci, coperte, et lenzole, et se ne paga anco la conduttura a cavallo di detti poveri” [69].
Da quanto procede si capisce che l’ospedale dei Pellegrini possiede i mezzi finanziari sufficienti a coprire la gestione ordinaria nonché quelli necessari al continuo rinnovo dei beni. Esattamente opposta è la condizione della Confraternita di S. Giovanni Decollato dove le entrate non sono sufficienti a coprire le spese.
Le entrate della Compagnia sono le seguenti: ”per servitio delli poveri scudi vinti doi, et giulii octo in circa, che li tira, et cava, cioè scudi quindici (…) dalle risposte di doi horti un anno per l’altro; scudi cinque dalla pegione di una casa; giulii dodici (…) dalla pegione di un tinello, giulii sedici (…) dalli frutti di un censo di vinti di sorte generale, et con queste entrate non può sufficientemente mantenere quest’opera et spesso resta debitrice la Compagnia delli ufficiali, che spendeno del loro per servitio dell’Hospedale”[70]. Come risulta chiaramente le casse della Confraternita sono oltremodo gravate soprattutto dalla gestione del nuovo ospedale da poco costruito. In ultima analisi perciò il canonico Pietro Paradisi fa queste considerazioni: “giudico impossibile, poter resistere alla spesa che fa, (…) perché li legati, che se gli fanno, sono di tanta poca considerazione, che poco possono giovare alla spesa; si che dico che all’uscita avanza sempre alla spesa entrata” [71].
La florida situazione economica dell’ospedale dei Pellegrini accostata alla bontà dei servizi offerti alla collettività dalla Compagnia di S. Giovanni Decollato – riguardo soprattutto alla situazione del nuovo ospedale degli infermi – possono aver indotto la Sacra Congregazione dei Vescovi a concedere in amministrazione ai santesi della Confraternita le entrate dell’ospedale dei Pellegrini, che andranno così a coprire il disavanzo di gestione della pia istituzione. La notizia della concessione da parte della Sacra Congregazione dei Vescovi viene comunicata, con lettera datata 29 luglio 1616, dal cardinale Gallo al vescovo di Civita Castellana, frate Ippolito Fabrani[72], il quale, il 15 agosto successivo, notifica l’evento alla Compagnia[73]. La concessione, originariamente di durata quinquennale, viene successivamente data in perpetuo, tanto è vero che, fino alla sua chiusura, l’ospedale verrà sempre gestito dalla Confraternita. La lettera di concessione evidenzia che l’operazione aveva avuto “il consenso dell’istessa Città” e che i santesi dell’ospedale della Misericordia erano obbligati a “sopportar tutti li carichi soliti dello sudetto Hospedale”[74]. Il giorno seguente il priore della Compagnia, capitano Simone Petroni, e il santese dell’ospedale di S. Giovanni Decollato, capitano Francesco Petroni, si obbligano e promettono di sopportare il governo dell’ospedale dei Pellegrini [75]. A distanza di 24 ore i due funzionari provvedono alla “veram, realem, et corporalem possessionem Hospitalis (…) Communitatis dicte Civitatis extra Civitatem in Burgo, illud intrando et spatiando cameras, et stantias  perambulando, purtas, et fenestras apesiendo, et claudendo”[76]. Si trattò di una presa di possesso reale dove, dopo essere entrati, i due girarono tutte le stanze e le camere, aprendo e chiudendo porte e finestre. Riguardo alla gestione, possiamo dire che l’ospedale dei Pellegrini agli inizi del ‘600 era gestito da funzionari chiamati “santesi” che venivano nominati dalla Comunità e che avevano soprattutto compiti amministrativi come è chiaramente dimostrato dall’inciso “Santenses seu Administratores”[77]. Uno di questi – Macario Calisti – nel 1616 dichiarava: “son stato alle volte santese di detto Hospedale, deputato dalla Comunità et ho manegiato dette entrate, et aministrato detti beni”[78]. La conduzione materiale dell’ospedale era invece affidata ad un “Hospedaliero” che, come si è detto sopra, alloggiava nell’ospedale e percepiva “dieciotto scudi di salario”[79]. Nel 1628 la Compagnia retribuisce sempre con 18 scudi annui “Giovanni Cavalieri per la cura dell’ospedale di sotto”[80]. Intorno alla metà del XVII secolo l’ospedale dei Pellegrini perde decisamente di importanza. Nel libro delle adunanze della Confraternita le deliberazioni relative alla copertura delle cariche dell’ospedale giungono sino alla riunione che riguarda gli anni 1644 e 1645, nella quale risultano essere nominati come “Soprastanti dell’Hospidale dentro e fuori” i signori Ostilio Mazzocchi e Maurizio Guglielmi, e come “Priore dell’Hospidale di Fuora” il signor Battista Evangelisti[81].

Decadenza dell’ospedale
 A distanza di due decenni, nel 1665, si parla soltanto di un ospedale, ciò in occasione della elezione alla carica di “Visitatori dell’Hospidale” dei canonici Belardino Buttarelli e Giuseppe Rutilio[82].
Nel 1686 si verificò un fatto dal quale si deduce che l’ospedale non era più in funzione. A seguito della richiesta del vescovo Sillani Leoncilli[83], la Compagnia gli concede “una campanella” situata “nell’ospidali di fora  quale non serve a cosa alcuna”[84]. Dopo alcuni anni, nel 1717, la Confraternita – ritrovandosi “una Chiesa antica di già secolarizzata, e che serve ad uso profano posta nella contrada di Vignale, che era la Chiesa dell’ospedale vecchio, la quale  minaccia di ruina”- conferisce l’incarico a “Mastro Francesco Bartoletti, e Mastro Costanzo da Angelis muratori” di stabilire “in che stato si ritrovi, e che spesa ci possa occorrere per riparare il tetto, e le muraglie Laterali”[85]. Lo stato di degrado dell’edificio sacro, privo di tetto e lesionato nei muri laterali, è conseguenza inequivocabile di un abbandono protrattosi per un lungo periodo. La situazione in cui si trova la chiesa avvalora ancor più l’ipotesi della cessazione dalle funzioni da parte dell’ospedale dei Pellegrini negli anni precedenti il 1686. Nel 1725, “Essendo stato risarcito l’Ospedale di Borgo”[86], il canonico Felice Forlani chiede alla Compagnia di permutarlo con un pezzo di terra di sua proprietà[87]. La Confraternita nomina i periti per la stima degli immobili ma purtroppo, a causa della mancata verbalizzazione delle riunioni tenutesi nei cinque anni successivi, non sappiamo se la permuta si sia perfezionata. Se l’ospedale, nonostante la ristrutturazione settecentesca (non sappiamo se poi seguita da altre), è ben riconoscibile nella sua posizione, per quando riguarda la chiesa nella sappiamo circa la sua individuazione. Il ciclo vitale della pia istituzione poteva dirsi concluso. Sorto per alloggiare infermi e pellegrini, l’ospedale si era cosi trasformato in ospizio per poveri e mendicanti ed infine aveva cessato l’attività. Quali furono le cause che provocarono questo declino?
La versione ufficiale è quella che risulta in una memoria che la Congregazione nel 1848 inoltra al Ministero delle Finanze Pontificie ove si dice che “per la insalubrità dell’Aria ove era situato fuori della Città non poteva Esso sussistere”[88]. Non mi sento di accogliere in pieno la versione ufficiale poiché dai documenti esaminati risulta più probabile che la fine dell’ospedale dei Pellegrini vada imputata alla sempre maggior attenzione prestata dalla Compagnia alle esigenze dell’ospedale degli Infermi.
La gestione ordinaria di quest’ultimo richiedeva sempre maggiori risorse così da non poter lasciar più spazio all’esercizio della funzione caritatevole svolta dall’ospedale dei Pellegrini[89].

CAPITOLO 3
L’OSPEDALE DEGLI INFERMI

L’ospedaletto
 La Confraternita di S. Giovanni Battista Decollato detta la Misericordia “fin dalla sua istituzione (…) istituì un piccolo Ospedale per gli infermi Fratelli Poveri”[90].
Dalla notizia che precede – risalente alla metà dell’800 – apprendiamo che originariamente la Compagnia gestiva un piccolo ospedale adibito esclusivamente alla cura dei confratelli meno abbienti.
Successivamente, il 6 marzo 1586, la Comunità di Civita Castellaa concedeva alla Confraternita una “Domus seu Turris pro Infirmaria Infirmorum” [91].
Dando per scontato che la notizia ottocentesca sia puntuale e che non sia frutto di confusione (provocata da oltre tre secoli di distanza dagli avvenimenti), possiamo affermare che con il 1586 la Compagnia di S. Giovanni Decollato compie un importante salto in avanti, passando cioè a gestire una struttura ospedaliera rivolta non soltanto ai confratelli, ma alla cura di tutti i poveri della città. Questo momento di transizione è evidenziato dalla concessione fatta dalla Comunità che certo non si spiegherebbe se non in funzione di un interesse collettivo e generale come quello della cura di tutti i cittadini. La casa-torre ad uso infermeria era posta nella parrocchia di S. Benedetto e veniva chiamata l’Ospedaletto[92]. La precisa individuazione del luogo rimane difficile, sappiamo soltanto che l’edificio si affacciava sulla pubblica via[93], denominata “via macini”[94].
Le dimensioni e le funzioni dell’Ospedaletto ci vengono decritte dal canonico Geronimo Giuliani quando dice: “Haveva prima detta Compagnia il suo Hospitale in una casa che si diceva l’Hospidaletto, nel quale solo doi letti teneva, et pochi infermi teneva”[95]. L’angustia del luogo, una piccola stanza dentro una casa-torre, non consentiva di avere una maggiore disponibilità di posti letto. Il canonico Pietro Paradisi ci riferisce anche che l’Ospedaletto riceveva gli infermi “senza sovenirli d’altro”[96]. Dalle due testimonianze si deduce che il luogo di cura era una via di mezzo tra la “Infirmaria” e l’ospedale, ambedue intesi nel senso in cui oggi li intendiamo. Era più di una semplice infermeria perché i malati venivano ospitati ed era meno di un ospedale perché agli stessi non veniva dato il vitto. Nel 1616 l’Ospedaletto aveva già cessato di funzionare.
  
L’ospedale della misericordia
Prima del 1616 si verifica che la Compagnia, “essendo cresciuta la carità, e la diligenza delli Compagni, per quanto si può, ha eretto, a sue spese, un Hospitale capace, per l’amalati”, il quale “ha sempre in ordine sette letti bonissimi, delli quali in occasione di bisogno, se ne possono far altri e tanti” [97]. La testimonianza del canonico Paradisi risulta essere estremamente puntuale;  anzitutto ci dice che la costruzione del nuovo ospedale si deve essenzialmente alla carità ed alla diligenza dei confratelli. Si tratta perciò di una contribuzione fatta dai singoli compagni per un obiettivo ben preciso: un nuovo ospedale per gli infermi. La ragione che aveva spinto la Confraternita ad affrontare un tale sforzo economico andava certamente ricondotta, al fatto che, “per non haver detta Compagnia luogo capace”, “spessi morivano per le strade”[98]. Si trattava quindi, alla luce di quella tragica situazione, di un’opera indispensabile la cui realizzazione non poteva essere rimandata. Da quanto si è detto, sembra di capire che la città non aveva altri luoghi di cura che potevano accogliere i malati ad eccezione dell’Ospedaletto[99]. Il nuovo ospedale della Misericordia alla data del 20 giugno 1616 risultava “eretto”. Sappiamo anche, dai Capitoli degli Ospedali, che nel settembre dello stesso anno non era ancora ultimato e ciò risulta chiaramente quando si dice che se qualche “persona devota voglia far qualche legato Pio alli detti Hospitali” essi dovevamo servire “per fenir la fabrica dell’Hospidale della Misericordia”[100]. Il nuovo ospedale era molto più capace del vecchio Ospedaletto, difatti si passava da appena due a ben sette posti letto con la possibilità di averne il doppio. Nella raffigurazione riportata dal Liber Instrumenta l’ospedale è posto a lato della chiesa di S. Giovanni dove ora si trova la struttura ottocentesca dell’ospedale S. Giovanni Decollato – Andosilla. Il fabbricato era strutturato su tre piani, un piano terra e due piani sopraelevati con tetto ricoperto di tegole, ed era compreso – per una buona parte – entro un muro di cinta che, all’angolo tra il fonte strada (attuale via Ferretti) e la via chiusa a lato della chiesa, era merlato ed alto fino al primo piano e proseguiva sul retro abbassandosi di quota. Sono evidenziati due portoni di accesso, il primo che immette in un cortile interno scoperto da cui – attraverso una rampa di scale coperta da una tettoia rivestita di tegole – si accedeva ai piani superiori. Con il secondo, invece, si entrava direttamente all’interno del fabbricato. Le pareti esterne dell’ospedale sono in parte costruite con conci regolari di tufo a vista e in parte rivestite di intonaco di color rossastro, mentre il muro di cinta è intonacato di bianco nella parte anteriore e a faccia a vista nella parte che circonda il retro dell’ospedale. Appoggiato al corpo di fabbrica principale si trova una struttura di minore importanza, con piano terra e primo piano, con una finestra e due porte che viene indicato come “Cantina dell’Hospidale”[101]. L’intenzione della Confraternita di dotare la città di un vero ospedale si scontrava con l’esiguità delle risorse finanziarie a disposizione. Già nella testimonianza che ci riferisce della contribuzione dei singoli confratelli compare – in un certo qual modo – un limite alle loro possibilità economiche, segnalato dall’inciso “per quanto si può”[102]. Lo sforzo economico dei confratelli non riuscì a coprire interamente il costo dell’opera. Ciò si rileva dagli stessi Capitoli degli Ospedali, i quali prevedevano la possibilità di impiegare gli eventuali lasciti pervenuti per l’ultimazione della fabbrica dell’Ospedale. Necessariamente, perciò, si dovevano trovare nuove entrate sia per il completamento del nosocomio e sia per far fronte ai maggiori oneri derivanti dalla gestione ordinaria di un siffatto ospedale. La soluzione del problema si raggiunse con la concessione, da parte della Sacra Congregazione dei Vescovi, della gestione dei beni dell’ospedale dei Pellegrini. Nei decenni successivi la situazione economica è senz’altro stabile ed anzi nel 1676 si legge che la Confraternita “si ritrova denari avanzati dall’entrate”[103]. Ciò sta a significare che per la Compagnia di S. Giovanni Decollato l’operazione andata a buon fine 60 anni prima si era rilevata molto proficua.

I capitoli degli ospedali
 Per meglio gestire i due ospedali la Confraternita in data 21 settembre 1616 approvava la stesura definitiva dei “Capituli et Ordini da osservarsi per il buon Governo delli Hospidali dell’Illustre Co(mun)ita di Civita Castellana et della Compagnia della Misericordia di detta Città”[104].I capitoli erano espressamente messi a disposizione dei santesi degli ospedali “acciò essi Santesi possino con Leggi e modo governarsi”[105]. Venne anzitutto istituita una “Congregazione di sei persone”- composta dal priore della Compagnia, dai santesi dei due ospedali, dal depositario degli ospedali, da quello della Confraternita, dal procuratore degli ospedali – che “habbia piena autorità di concludere li negotii di detti Hospedali”[106]. Per la elezione dei santesi e dei depositari era prevista la partecipazione di non “meno di quaranta Compagni” e veniva stabilita la durata annuale delle cariche “da cominciarsi il primo di settembre di ciasche anno”[107]. Il depositario degli ospedali aveva il compito di tenere “un libro ben ligato, cartulato, e coperto di carta Bergamina” su cui annotare distintamente le entrate e le uscite dei due ospedali [108]. Allo stesso veniva vietato di “far spesa alcuna, ancor ché minima (…) se non in cose ordinarie denotate nella Tabella”[109]. La tabella equivaleva ad un bilancio di previsione che la congregazione annuale redigeva per ciascun ospedale, con la contrapposizione – nella stessa facciata – di tutte le entrate “in una colonna, et nell’altra colonna nella medema facciata se scriva tutta la spesa che si fa per detti amalati”[110]. Si prevedeva la tenuta, da parte del cancelliere della Compagnia, di “un libro chiamato straccia foglio ben ligato” dove si doveva annotare, da una facciata, il denaro e i vestiti posseduti dall’ammalato al momento del ricovero e, dall’altra, l’avvenuta restituzione. Denaro e vestiti erano conservati “in un credenzone”[111]. In caso di decesso degli ammalati il denaro e il ricavato della vendita dei vestiti “si doveranno dal Depositario delli Hospidali notare al libro dell’entrate dell’Hospidale della Misericordia” e “doveranno servire solamente per mantenere li Medicamenti necessarii alli amalati prohibendosi espressamente che in altr’uso non debbiano esser convertiti”[112]. Le entrate degli ospedali servivano “per alimentare l’infermi” e per soddisfare gli “altri bisogni  delli amalati”[113]. Veniva previsto che tutti i libri contabili degli ospedali e della Compagnia dovevano essere conservati “in una Cassa, o vero scanzia chiamato l’Archivio, quale habbia dui Chiavi, una de quale l’habbia il Priore, e l’altra il Cancelliero”[114]. Si ordinava, poi, che i terreni di proprietà degli ospedali avrebbero dovuto esser sempre messi a coltura e all’uopo si prevedeva la elezione di “quattro, o sei compagni Agricoltori quali possino col’authorità della Congregazione dare a lavorare detti terreni et caso che non si trovino a lavorare debbiano loro lavorarli”[115]. La particolare attenzione che i Capitoli riservano allo sfruttamento dei terreni la dice lunga sull’importanza ad essi attribuita. Il mantenimento e l'accrescimento delle rendite agrarie era considerato un obiettivo di primaria importanza per la Confraternita.
L’amministrazione degli ospedali doveva essere sindacata dal vescovo, “acciò lui, dal quale la sacra Congregazione de Vescovi ha rimesso il negotio di detti Hospitali, ne scriva a detta Congregazione, come dette entrate si aministrino”[116]. La formula di chiusura dei capitoli è la seguente: “Doverà Monsignor Reverendissimo nostro Vescovo approvare a confirmare questi capitoli acciò più astringhino, et inviolabilmente siano osservati. Nel resto si osservino li altri capitoli della nostra Compagnia”[117]. In calce ai capitoli il vescovo, Ippolito Fabrani, di suo pugno scrive: “Visti, e considerati molto bene li suprascritti capitoli, e conoscendo che sono molto utili alla compagnia, et doi hospitali, li confirmiamo et approviamo. Dato nel nostro palazzo di Civita Castellana questo die XI ottobre 1616. Frate Ippolito Vescovo”[118].

La cura dei malati
I registri della Confraternita non sono prodighi di notizie riguardanti l’aspetto medico-curativo dell’ospedale della Misericordia. Quelle poche che conosciamo vengono riportate involontariamente; ciò è dovuto essenzialmente al fatto che la documentazione di cui disponiamo si riferisce prevalentemente all’aspetto legale ed amministrativo della gestione dell’ospedale. Tra i salariati della Compagnia, nell’anno 1628, compaiono “Giovanni Antonio da Mantua con la moglie per la cura dell’ospedale di sopre” e “Giovanni Cavalieri per la cura dell’ospedale di sotto”, ambedue retribuiti con un salario di 18 scudi l’anno[119]. Tale figura di salariato, con il nome di “Hospedaliero”, era già contemplata nel 1616, sempre con un “salario di scudi dieciotto l’anno”[120]. Si trattava di persone che avevano il compito della conduzione degli ospedali e della assistenza generica ai malati. Nel 1643 erano previste le cariche di “Spedalieri in Civita” e “Spedalieri di fuora” ossia rispettivamente dell’ospedale della Misericordia e di quello dei Mendicanti[121]. L’anno seguente un tal “Francesco” viene nominato spedaliere. La mancata indicazione dell’ospedale di competenza può forse ritenersi indice della unificazione delle mansioni[122]. Nell’anno 1662 la carica è affidata ad una donna che viene chiamata con il nome di “Spedaliera Cesaria”[123]. La figura dello spedaliere si ritrova fino al 1817 quando, in una riunione, viene proposto che “l’attuale Spedaliera Antonia Colonna sia dimessa da tale esercizio, per cui si domanda la nomina di altra da sostituirsi”[124]. Nella lista dei salariati del 1628 compare anche un tal “Francesco Barbieri Cirugico del nostro ospedale” che riceve come compenso 4 scudi[125]. Entriamo, con questa figura, nel campo strettamente riservato alla cura dei malati. E’ nota la differenza all’epoca esistente tra il medico, da una parte, e il chirurgo e il barbiere, dall’altra. I barbieri costituivano il livello più basso degli operatori sanitari, essi limitavano il loro campo d’azione all’uso della “forbice e del rasoio”[126]. Salendo di livello, si incontravano i chirurghi che “tendono a diventare professionisti acculturati, provvisti di dottrina oltreché di esperienza”[127]. Barbieri e chirurghi – insieme agli speziali – facevano parte delle classi sociali inferiori mentre i medici erano assimilati alle classi superiori[128]. Il nostro Francesco Barbieri è chirurgo e quasi sicuramente – visto il cognome – appartiene ad una famiglia che pratica il mestiere da generazioni. E’ opportuno notare che tra gli spedalieri ed il chirurgo esiste una forte differenza di salario, 18 scudi contro 4.
Non avendo a disposizione elementi idonei a giustificare una tale differenziazione, possiamo azzardare l’ipotesi che il compenso del chirurgo si riferiva a prestazione saltuaria oppure limitata nel tempo, non sembrandoci realistica una sproporzione così vistosa tra quanto percepito dallo spedaliere e quanto spettante ad un “professionista”. Nel 1643 la Compagnia ha ancora tra i suoi salariati un “Cirugico”[129]. e l’anno seguente si trovano annotati come “Cirugico per se mesi Signor Domenico Boccapesce” e “Cirugico per altri sei mesi Signor Francesco Venturelli”[130]. Nel 1675 viene nominato chirurgo dell’ospedale “Giovanni Caffardino”[131]. Nei registri non esiste alcun riferimento diretto ai medici che prestavano la loro opera nell’ospedale.
La prima notizia indiretta risale al 1669 quando, accogliendo la richiesta del confratello Sabbatino Sabbatini, la Compagnia autorizzava il padre – M. Cesare Sabbatini – a vivere nell’ospedale in considerazione del fatto che si adoperava a “risarcire tetti, et altre massaritie et mobili, con aiutare l’infermi et stare all’assistenza de Medici et Chirurghi”[132]. Da ciò deduciamo che l’ospedale della Misericordia si avvaleva delle prestazioni dei medici, oltre a quelle dei chirurghi. Il fatto che soltanto quest’ultimi sono menzionati nei registri della Confraternita dipende sicuramente dal particolare status dei medici che, non essendo legati all’ospedale da un rapporto di dipendenza, prestavano la loro opera come lavoratori autonomi ed erano perciò retribuiti in base al numero delle prestazioni effettuate [133]. L’ospedale offriva agli ammalati vitto ed alloggio.
Riguardo al vitto, nell’inventario dei beni mobili, consegnati all’ospedaliere “Giovanni Antonio Mantuano” stilato il 20 settembre 1629, compare tutta una serie di oggetti necessari sia per la cucina (arnesi vari e pentolame, “cucami di rame per far l’acqua cotta”, “seta per passar la farina”, “Grattacascio”) che per la mensa (“Tavola per magnare”, “salviette”)[134]. Per quanto riguarda l’alloggio, le potenzialità dell’ospedale – sette posti letto raddoppiabili – sono confermate dagli oggetti inventariati. Si elencano 15 coperte di lana, 3 “coperte schiavine”, 9 “capezzali longhi da letto”, 1 “Coscino di tela bianca”, 26 “lenzola”, 7 “lettiere con colonne”, 19 “Matarazzi”, 11 “pagliaricci da letto”, 1 “scaldaletto”[135]. Non sappiamo se sin dalla costruzione uomini e donne erano ospitati in corsie separate, soltanto nel 1764 si fa accenno alla “Infermiera delle Povere Donne” [136].
L’uso della parola infermeria ci lascia intendere che, all’interno dell’ospedale, le donne dovevano essere ospitate in locali nettamente distinti da quelli riservati agli uomini.

Decadimento della struttura
Intorno alla metà del ‘700 la struttura dell’ospedale di S. Giovanni Decollato inizia ad avere qualche problema.
Dopo circa 140 anni dalla sua costruzione si sente il bisogno di accrescere lo spazio a disposizione dei malati e di ristrutturare lo stabile. Nella riunione del 29 agosto 1752 si perviene alla seguente dliberazione: “che si dilati la corsia dell’Ospedale degl’Infermi per la sua grande angustia” [137]. L’ospedale, concepito agli inizi del ‘600 per soddisfare le specifiche esigenze del tempo, era ormai diventato inidoneo a sopperire ai nuovi bisogni.
Non possiamo però sapere se la grande angustia lamentata doveva ricondursi all’aumento dei ricoveri oppure alle accresciute esigenze della più recente pratica medico - sanitaria. A distanza di 12 anni, nel 1764, lo stesso problema si presenta anche per l’infermeria delle povere donne che è giudicata “troppo angusta e poco buona”[138]. Ai problemi di spazio si aggiungono quelli relativi all’invecchiamento della struttura. I problemi sono veramente seri se, già nella riunione del 29 agosto 1754, risultava essere “necessario risarcire li Tetti, e fare tutto il commodo bisognevole nelle stanze superiori dell’Ospedale per renderle servibili et abitabili a prò dell’Infermi, giacché l’Ospidale inferiore è umido e di poca aria, particolarmente in tempo d’Inverno”[139].
L’anno dopo “si propone essere necessario levare l’umido nell’Ospedale” e la Confraternita per ovviare a tale inconveniente decide “a viva voce, che si cercasse votare sotto lo Spedale”[140]. Nel 1757 si approva la risoluzione che prevede di “riattare li muri dell’Ospedale”[141]. Come si è detto, si tratta di lavori di manutenzione straordinaria che richiedono spese consistenti e che capitano proprio in un momento non molto felice della storia della Confraternita.

Problemi economici e curativi
In data 1°gennaio 1750 il vescovo di Civita Castellana ed Orte, monsignor Sante Lanucci, emanava regole ferree riguardo la gestione delle confraternite, le quali, nella sua prima visita pastorale, erano state trovate in una situazione “di disordinata, amministrazione”[142]. In merito alle spese, l’articolo 22 dell’Editto delle Confraternite recitava che “Chi siasi Uffiziale di Compagnia, Luogo, o Opera Pia, come sopra, non possa fare per ragione del suo uffizio spesa straordinaria, benché utile, e necessaria, eccedente uno scudo; fino alla somma di scudi tre ogni spesa straordinaria debba proporsi, e risolversi colla maggiore parte de’ voti segreti nella Congregazione; sopra questa somma si richiede l’espressa nostra approvazione in iscritto”[143]. Questa puntuale disposizione non restò lettera morta; il controllo e l’approvazione del vescovo si verificò concretamente. Difatti nella riunione del 1754, nella quale si auspicava la riparazione dei tetti ed il trasferimento della corsia nelle stanze superiori, si propose di fare “li risarcimenti meramente necessarij, per non aggravar la Compagnia di tanta spesa, e sopra tutto colla riserva del Beneplacito di Monsignor Illustrissimo Vescovo”[144]. A margine della pagina c’è l’approvazione del vescovo, che recita: “Approviamo la risoluzione; purché si esibisca a Noi la perizia de lavori, innovazioni da farsi, e spese; Ne si ponga Mano senza nostra licenza e facoltà. Sante Vescovo di Civita Castellana e Orte”[145]. Che la Compagnia stesse passando un periodo di crisi economica e finanziaria, lo si evince dalle esortazioni e dalle raccomandazioni che segnano la approvazione dei lavori da farsi. Nel 1752 si “raccomanda l’essigenza de crediti arretrati”[146] e due anni dopo si impone al depositario di “riguardar le spese e non si faccia debito”[147]. Per far fronte a questa situazione, che ci trascina avanti da alcuni anni, la Confraternita, in accordo con il nuovo vescovo, nel 1767 decide che per “ben regolare il Governo Economico della nostra Compagnia, e dello Spedale di S. Giovanni Decollato, sia necessario d fare una scelta de Confratelli li più bene stanti, e più sani per formare le Congregazioni"[148]. Venne così formato un gruppo di 17 persone che, nelle migliori intenzioni, doveva far uscire la Confraternita e l’Ospedale dallo stato di crisi in cui si trovavano, attingendo risorse soprattutto dai patrimoni personali dei singoli confratelli[149]. La Congregazione Economica non riuscì ad ottenere grossi risultati se nel 1794 venne verbalizzato che, “riconoscendosi questa Compagnia notabilmente gravata per l’annua imposizione che paga in Comunità sopra l’allibrazione dei Beni”, si decide di far presentare dal depositario un ricorso alla Sacra Congregazione del Buon Governo al fine di “liberare affatto dal Peso di detta Colletta questa Venerabile Compagnia” che non riesce a far fronte “alle Spese (…) particolarmente degl’Infermi, che vengono in questo Spedale”[150]. La non buona situazione economica si ripercuote inevitabilmente anche sul livello qualitativo dei servizi prestati agli ammalati.
Nella riunione del 23 ottobre 1785 fu deliberato di fornire l’ospedale di un cavallo con carretto “per il maggior comodo degl’Infermi da trasportarsi ad altro Spidale”[151]. Nella stessa occasione veniva aumentato di sette scudi il salario dello Spedaliere per il fatto che si doveva occupare anche “di fare il trasporto giornaliero degl’Infermi”[152]. Trattandosi di un servizio giornaliero, pensiamo che – oltre ai malati più gravi – tutti gli infermi dovevano essere trasportati in altri ospedali, magari dopo un primo ricovero di pronto soccorso.
La conferma del basso livello qualitativo raggiunto dal servizio medico-curativo dell’ospedale arriva puntualmente dalla riunione del 29 agosto 1792, quando si prende in esame una nuova esigenza sorta conseguentemente alla immigrazione di maestranze a Civita Castellana. La decisione della congregazione verteva sulla opportunità di “ricevere, e curare in questo Spedale li forastieri domiciliati in questa Città, e particolarmente li lavoranti della nova fabrica di Majoliche, e terraglie in caso d’infermità”[153].
La decisione fu scontata: “fu risoluto, che si ricevino, e trasportino per non esser questo Spedale di cura” (65)[154]. La crisi economica che investiva ormai da diversi decenni la Confraternita aveva causato lo scadimento dell’ospedale al livello di una semplice infermeria. Si tornava così, a distanza di quasi due secoli, al punto di partenza quando – non essendoci una struttura organizzata per la cura dei malati – l’ospedale dei Pellegrini all’inizio del ‘600 trasportava gli ammalati a Rignano ed a Otricoli.

Il periodo napoleonico
La rivoluzione francese ed il successivo periodo napoleonico provocarono dei notevoli cambiamenti nello Stato Pontificio. Il 17 marzo 1798 veniva formalmente costituita la Repubblica Romana, ma dopo poco più di un anno l’avventura giacobina di Roma giungeva al termine. A partire dall’anno 1800 e per gli otto anni seguenti papa Pio VII è presente a Roma, ma dal febbraio 1808 al maggio 1814 la città e il suo territorio sono annessi all’impero francese per poi ritornare sotto il pontefice. Questi mutamenti istituzionali intervenuti nello Stato Pontificio trovano un riscontro nel libro delle adunanze della Confraternita. Difatti risultano mancanti i verbali relativi agli anni dal 1799 al 1801, mentre sono verbalizzate le riunioni tenutesi dal 1802 al 1806. La registrazione riprende con buona regolarità dopo il 1814. Il periodo dell’occupazione francese risulta invece dalle riunioni che riguardano gli anni 1810-1813. La gestione dell’ospedale nel 1810 passa alla Congregazione Economica ed Amministrativa, per poi ritornare dopo quattro anni alla Confraternita. Il 22 marzo 1810, “In nome di S. Maestà Napoleone Primo Imperator de Francesi Re d’Italia e della Confederazione del Reno Protettore”, si riunisce per la prima volta, nel “Palazzo della Commune”, “la Congregazione Economica Amministrativa dello Spedale di Civita Castellana” che era stata nominata dieci giorni prima dalla Consulta Straordinaria di Roma”[155]. La nuova istituzione laica – composta anche di religiosi e di compagni della Confraternita – che governava lo “Ospedale Civile”, era presieduta dal Maire della città, signor Francesco Antonisi Rosa[156]. Nuovo regime, nuova gestione, ma vecchi problemi. La situazione dell’ospedale, amministrato dal direttore – curato Antonio Cicuti -, è sempre la medesima, tanto è vero che “lo Spedale presentemente ritrovasi impossibilitato a poter fare quelle spese necessarie per il Mantenimento degli Infermi per mancanza di denaro”[157]. Si invitavano, “considerando altresì che lo Spedale ritrovasi varj Crediti inesatti”, “i Signori Debitori a voler concorrere all’estinzione de Loro debiti” (69)[158]. Dopo pochi giorni dalla prima seduta, il giorno 24 aprile il Maire “Inteso (…) l’urgente bisogno (…) ha ordinato che si somministri a tale effetto la Somma di Scudi Venti in conto dei Scudi Cento assegnati dal Consiglio Municipale per sussidio dello Spedale”[159]. In questo particolare momento storico, stante la “mancanza dello Spedale Militare”, l’ospedale riceve anche i militari infermi e per questo servizio, “acciò Lo Spedale non venga in veruna maniera defraudato”, viene richiesto “un bajocco per ogni giorno, che ciascun Militare infermo si tratterrà nello Spedale”[160]. Da ciò possiamo dedurre che, nonostante fosse rimasta invariata la difficile situazione economica, l’ospedale era ritornato ad essere un luogo di cura. Tant’è che nel 1811 “ospita ben 72 degenti” nonostante venga descritto come “costituito da una corsia con 8 posti letto, mentre collegate alla corsia sono due piccole stanze laterali che a loro volta possono ospitare due letti ciascuna per un totale di 12 posti letto”[161].
La parentesi napoleonica, terminata con il ritorno a Roma di papa Pio VII, aveva aggravato ancor più le dissestate finanze dell’ospedale. Nella riunione del13 novembre 1814, sparita la congregazione economica, la Confraternita, per voce del suo amministratore nonché rettore dell’ospedale, curato Sante Pasquetti, deve realisticamente constatare che il luogo pio è “gravato di cospicui debiti contratti per il mantenimento dell’Infermi Militari ricevuti in quest’istesso Ospedale, ad essendogli mancato il rimborso dovuto dal Governo di circa scudi 400 si vede al presente privo affatto di mezzi per ricevere, ed alimentare i malati”, pertanto si decide di presentare “una Memoria a Sua Santità per ottenere il rimborso de Crediti surriferiti coll’esporre lo stato in cui trovasi il luogo Pio impossibilitato ad andare innanzi[162].   Nel 1816 si arriva persino “a supplicare il Consiglio della Comunità acciò conceda un sussidio di qualche somma, tanto sia che quest’Ospedale appartiene alla medesima Comunità”[163]. L’anno seguente si supplica il vescovo di voler derogare al divieto di vendere una casa per metà di proprietà della Compagnia al fine di poter “andare innante per qualche poco tempo” (75)[164]. Passano gli anni, ma il forte indebitamento rimane e nel 1821 si percorre una ulteriore via al fine di incrementare le entrate: “Atteso il deficit dell’Ospedale si faccia supplica a Nome de Congregati alla Sacra Congregazione del Buon Governo acciò venga fissato nel Budget della Comune un assegnamento annuo”[165].
A distanza di nove anni, nel 1830, forse per reazione alla poca soddisfazione ricevuta dal Consiglio della Comunità e dalla Congregazione del Buon Governo, la Compagnia arriva al punto di lasciare che le cose vadano per il loro verso, quando “A viva voce si è stabilito, che non venga impiegato per l’Ospedale qualunque sia il bisogno, che il sopravanzo delle rendite di questa nostra Confraternita, sodisfatti, che saranno tutti li pesi della medesima”[166].

L’eredità Andosilla e il nuovo ospedale
Un fatto nuovo, che segnerà le vicende dell’ospedale, accade in quegli anni: il lascito Andosilla.
Il 29 novembre 1831 muore la marchesa Orsola Andosilla. Nel suo testamento aveva istituito come erede universale l’ospedale di S. Giovanni Decollato di Civita Castellana. Si trattava di un’eredità veramente cospicua, composta dal palazzo di Roma e dal latifondo di Civita Castellana e di Stabia (l’odierna Faleria).
La Compagnia, però, non entrò subito in possesso dell’eredità, poiché la marchesa nel testamento aveva nominato “Erede Usufruttuaria Vita sua naturale durante la cognata Marchesa Teresa Nata Duchessa Benedetti Vedova di Angelo Marchese Andosilla”[167]. Alla morte di questa, avvenuta il 28 settembre 1837, l’ospedale di S. Giovanni si intestò i beni facenti parte dell’asse ereditario[168]. Le cospicue rendite percepite fecero cessare, nell’arco di poco tempo, tutti i problemi economici che da decenni affligevano l’ospedale[169].
Le risollevate finanze permettono alla Confraternita di programmare il futuro della struttura ospedaliera che, a distanza di oltre due secoli dalla costruzione, non rispondeva più alle esigenze dettate dalla nuova medicina. A questo problema si aggiunse anche quello relativo alla scarsa assistenza prestata ai malati, “che malgrado l’impegno adoprato dai Deputati nel disimpegno delle faccende economico-domestiche dell’Ospidale e da fronte dei sforzi pratticati nell’ingiungere agl’Infermieri l’assistenza verso i poveri infermi, pur nondimeno per difetto di immediata e permanente sorveglianza ai medesimi non si raggiunse mai lo scopo” [170]. Per evitare quest’ultimo inconveniente la Congregazione economica nel 1856 decide di intavolare una trattativa con “i Fratelli della Congregazione sotto il titolo di S. Giovanni di Dio, riconosciuti sotto i vocaboli = Fatebenefratelli =” per l’affidamento della gestione sia amministrativa che assistenziale dell’ospedale [171]. Nei successivi nove anni i registri non riportano nessuna notizia in merito; soltanto nel 1865 si fa in modo di “ritentare con miglior successo le trattative del 1856 e 1858 per stabilirvi il proprio Istituto nell’Ospedale”[172]. Il priore generale dell’ordine di S. Giovanni di Dio, Gio. Maria Alfieri, scrive alla Congregazione economica dell’ospedale ed elenca tutte le condizioni necessarie per l’intervento dell’ordine ospedaliero a Civita. Anzitutto viene richiesta l’assegnazione delle rendite “del palazzo di Roma” e dei “beni rustici Andosilla in Civita Castellana”.
Questa è senza dubbio la condizione essenziale, la quale è anche ritenuta “il maggior ostacolo per l’insufficienza di rendite che già fece abbortire ogni trattativa”[173]. “Che se la deficienza delle rendite forma il maggior ostacolo, è tale, che l’Ordine di S. Giovanni di Dio non s’azzarderà mai a veruna proposizione finché non verrà preparato un altro Spedale in una località più salubre e più conveniente”[174]. Come si può vedere le nuove condizioni dettate non sono da poco ed anzi il priore giunge ad individuare anche il luogo dove dovrà sorgere il nuovo ospedale: ”la posizione della Madonna delle Rose (…) tutto rispettivamente esaminato e discusso anco coi medici, e persone sensate ed esperte, presentasi sotto ogni rapporto più conveniente, non ostante certa incomodità più apparente che reale della sua distanza della Città"[175]. La Congregazione economica, nonostante le pesanti condizioni, decide di portare avanti l’iniziativa basandosi sui seguenti punti fondamentali:
1)      concessione alla Congregazione di S. Giovanni di Dio della gestione dell’ospedale e di tutti i suoi beni;
2)      controllo annuale della gestione tramite due deputati della Congregazione Economica;
3)      assenso alla realizzazione del nuovo ospedale in località Madonna delle Rose “aprendo una strada agevole a destra dopo il primo parapetto del Ponte di Porta Romana”[176];
4)      “Modellare tal fabricato in proporzione con la ristrettezza della Città per lo che si calcolerebbe una spesa approssimativa di sei o sette mila scudi”[177] ;
5)      far fronte alle spese necessarie con le rendite del palazzo di Roma e dei terreni di Civita Castellana ;
6)      richiedere aiuti economici al Comune ;
7)      chiedere al padre generale di “mandare quanto prima in Civita Castellana i soggetti necessari onde incominciare l’edificazione dell’Ospedale nuovo, e se fosse possibile – per somma grazia – assumere anche la sorveglianza dell’attuale stabilimento”[178].
L’accoglimento delle richieste, da parte della Congregazione Economica, faceva presagire una facile ed immediata attuazione del programma. Nel marzo 1867, però, il progetto presentato dal nuovo padre generale Falchi dei Fatebenefratelli non viene giudicato completo dalla Confraternita poiché mancante dalla perizia di spesa[179]. Il progetto prevedeva, in misura non dettagliata, una spesa complessiva di 5.800 scudi che non teneva conto delle spese necessarie “per acquisto di locali per ampliazioni e demolizione di altri per ottenere un’area più libera il di cui ammontare si opina ascendere a sopra scudi 1000, ne tanpoco avuto riflesso alle spese di Falegname e Ferraro” [180]. Per quel che riguarda l’area sulla quale edificare il nuovo ospedale, se nel 1865 si parlava della Madonna delle Rose, due anni dopo si dice che i lavori verranno eseguiti “nell’orto della Cura in prossimità della Fabrica Brunelli e della strada di Fontana per Civita” [181]. Sembra, da quanto precede, che ci sia stato un cambiamento del piano originario, cambiamento che alla fine portò alla demolizione del vecchio ospedale per far posto alla nuova struttura. Nel 1873, anno in cui il Tarquini ci riferisce della presenza di “un maestoso Ospedale di nuova costruzione” [182], lo stabile doveva essere in gran parte ultimato. Nel 1894 vengono effettuati degli interventi volti ad ampliare ed a completare la struttura. Sappiamo che si trattò dei “lavori eseguiti a finimento del novo Fabbricato di ampliamento al già esistente Civile Ospedale Andosilla in Civita Castellana, a spese, e fattura della Società Cooperativa di produzione, e lavoro fra gli Operai di detta Città”[183]. L’importo complessivo dei lavori ammontava a lire 30.165 e 51 centesimi[184].
Lo stabile, ancora esistente, risulta esser ancor oggi di buona fattura tant’è che all’epoca la Società Cooperativa fu premiata alla esposizione di Milano[185]. Il nuovo ospedale, a differenza della struttura seicentesca, fu sfruttato, nella sua veste originaria, soltanto per pochi decenni. Difatti nella seconda metà degli anni Trenta veniva ultimata la costruzione dell’attuale ospedale, progettato nel 1928 dall’Ing. Angelo Guazzaroni. Il costo stimato dell’opera ammontava a lire 1.073.882,67[186]. L’ospedale conserva ancora la denominazione di Ospedale di S. Giovanni Decollato – Andosilla in memoria sia della confraternita e sia della benefattrice.
Un’ultima annotazione, però, va fatta relativamente alla scelta del sito su cui è stato impiantato il moderno ospedale. Guarda caso esso è situato proprio a metà strada tra il vecchio ospedale della Misericordia e quello dei Pellegrini, i quali furono giudicati non più idonei a causa dell’insalubrità dell’aria[187]. Con il passar del tempo erano cambiate le teorie mediche? Era cambiato il clima? Oppure si trattava di una semplice questione di opportunità economico–finanziaria?

CAPITOLO 4
 
La Spezieria
La Compagnia di S. Giovanni, oltre all’ospedale, gestiva una spezieria. La istituzione di questo servizio risale al periodo immediatamente precedente al giugno 1616. Ciò si può dedurre da quanto riferitoci dal canonico Pietro Paradisi: la “compagnia ha adesso cominciato, et tira avanti una spetiaria per la quale con l’aiuto del Signore se potranno governare non solo l’amalati dell’Hospedale, ma anco sovenire qualche infermo povero della Città”[188]. Gli intendimenti che spinsero la Confraternita ad istituire la spezieria sono chiaramente enunciati: per un verso si voleva servire direttamente l’ospedale e per un altro si voleva aiutare i cittadini poveri.
In ultima analisi, però, l’istituzione della spezieria si rendeva necessaria per poter “sparambiar qualche spesa magiore che per il passato ha fatto con lo Spetiale della Città”, ottenendo così una più forte economia nella gestione dell’ospedale[189]. Il costo di mercato delle spezie e dei medicamenti doveva essere abbastanza elevato se si dice che i poveri infermi “per loro povertà non possono andare alla Spetiaria della Città”[190].
La spezieria era situata “dentro decto Hospitale”[191]. Il 12 febbraio 1618 la Compagnia stipula con “Cesare Menichellio da Fabrica” una convenzione per la gestione in società della spezieria[192]. La Confraternita conferisce i capitali necessari all’impresa mentre lo speziale si impegna a prestare la propria opera “bene et diligentemente” [193]. Nel rapporto, di durata triennale, il “guadagno, che si farrà in detta Compagnia esso (Cesare Menichelli) debbia guadagnare et partecipare per la metà”[194]. Si conviene che “lo Spetiale debbia servir gratis i tutte le robbe medicinali, che bisognerà fare per servitio dell’Hospitale di detta Compagnia senza pagar niente da levarse dal guadagno, che si farrà in detta Spetiaria et quanto alle robbe vive, che servirà per detto Hospedale, se paghi la metà al detto Spetiale”[195]. Lo speziale a cadenza bimestrale doveva render conto dell’attività svolta[196]. Per potenziare la spezieria la Confraternita investe 300 scudi: 200 sono spesi per rilevare i medicamenti e l’attrezzatura di una preesistente spezieria e 100 da spendere “alla fiera di settembre prossimo”[197]. Il materiale acquistato proveniva dalla spezieria di “Valentino Valentini da Carbugnano” ed è elencato minuziosamente nell’inventario redatto in calce alla convenzione[198]. I restanti 100 scudi si dovevano spendere in occasione della fiera che si svolgeva durante le festività patronali in onore dei SS. Giovanni e Marciano. Tale fiera, la cui istituzione risale alla metà del XV secolo, si tiene ancor oggi il 17 settembre di ogni anno. Soltanto a distanza di un secolo e mezzo è possibile reperire nei registri della Confraternita altre notizie riguardanti la spezieria. La Confraternita non gestisce più la spezieria, difatti dalla metà del ‘700 stipula convenzioni con gli speziali della città per la fornitura annuale dei medicinali. Nella congregazione del 29 agosto 1763 viene discusso che “qualora il Signore Domenico Paglia non voglia continuare nell’Amministrazione degli Medicinali per questo Ospidale, secondo la convenzione fatta, si venga alla deputazione di un Nuovo Speziale, in luogo del detto Signore Domenico Paglia per beneficio de poveri Infermi”[199]. In quella stessa riunione fu accettato come fornitore ufficiale dell’ospedale “il Signor Filippo Cantini Speziale di questa Città”[200].
L’anno successivo vede concorrere per la somministrazione dei medicinali agli infermi dell’ospedale tra speziali: Filippo Cantini, Giuseppe Federici e Giuseppe Midossi. Dalla votazione esce vincitore lo speziale Midossi che, con 14 voti favorevoli e 6 contrari, prevale sui concorrenti che ottengono 12 favorevoli ed 8 contrari, il primo, e 3 favorevoli e 17 contrari, il secondo[201]. Il giorno successivo, però, il vescovo Lanucci emanava un decreto che abrogava la convenzione con il nuovo speziale. In primo luogo, il vescovo critica le modalità della scelta quando dice che “nel concorso fatto di tre Speziali in detta Congregazione si dovesse rimettere à due ò tre Deputati l’elezione, acciò si preferisse il migliore, e per la Spezieria e per la professione”[202]. All’alto prelato non era piaciuta la scelta operata dai confratelli. Il decreto vescovile, poi, incide profondamente nella organizzazione dell’ospedale, quando dice: “abroghiamo e deroghiamo la convenzione della solita tassa colli speziali delli sopradetti scudi dodici l’anno, come pregiudiziale alli medesimi poveri Infermi”[203]. Il vescovo riteneva che la spesa fissa di 12 scudi annui era eccessiva rispetto alle effettive esigenze dell’ospedale e pertanto ordinava al priore ed al depositario “di mandare a prendere li medicamenti nella spezieria, che secondo la di loro prudenza e Carità stimino più à proposito senza doversi proporre l’elezione di detto Speziale nella Congregazione in cui non può farsi un giusto esame”[204]. Il fabbisogno di medicinali non poteva essere stabilito a priori e pertanto diventava “impossibile di prescriversi una giusta raggionevole e fissa Tassa annuale, mentre dipende dal maggior ò minor concorso de poveri Infermi”[205]. In parole povere, veniva enunciato il concetto di acquistare i “medicinali secondo la ordinazione del medico” e cioè quando occorrevano[206].
Il principio di economicità che aveva spinto la Compagnia ad istituire la spezieria agli anni del ‘600 a distanza di un secolo e mezzo faceva ritornare la Confraternita ad acquistare i medicinali dagli speziali della città. Negli anni successivi, difatti, i rapporti con i vari speziali verranno improntati nella maniera prevista dal decreto del vescovo Lanucci.

CAPITOLO 5

I Proietti
Collegato alla cura degli ammalati era, per alcuni ospedali del ‘600, il servizio di assistenza ai bambini abbandonati. I bambini abbandonati alla pubblica carità – chiamati proietti – venivano di solito affidati alle cure delle pie istituzioni. La Comunità di Civita Castellana agli inizi del ‘600 decide di affidarne le cure all’ospedale della Misericordia, il quale però, non essendo attrezzato per prestare una ospitalità definitiva ai trovatelli, poteva soltanto prenderli in carico per il tempo strettamente necessario al trasporto a Roma. Il consiglio della città nella riunione del 27 febbraio 1617 delibera di destinare 6 scudi a favore dell’ospedale “per il carico, che la nostra Communità gli ha dato di condurre li proietti, che vengono nella nostra Città alla volta di Roma”[207]. La delibera scaturiva dal “memoriale dato dal Signor Francesco Petronio Santese dell’Hospitale della Misericordia” con il quale si chiedeva, per il servizio del trasporto a Roma, “quell’elemosina che le SS. rie loro giudicheranno esser conveniente”[208]. L’incarico all’ospedale fu dato “tre anni per tre anni” e la somma destinata a remunerare il servizio veniva desunta dai “novi capitoli del macello” del bilancio della Comunità[209]. Si stabiliva che “l’Affittuario del macello debbia pagare a Natale di ciasche anno scudi undeci (…) in questo modo cioè scudi cinque per ragaglie solite da spendere ad arbitrio delli Signori Conservatori per beneficio del Palazzo, et scudi sei all’Hospitale della Misericordia”[210]. Da quanto precede si deduce che la Comunità riceveva dall’appalto del mattatoio 11 scudi annui in parte derivanti dalla vendita delle “ragaglie” ossia le interiora degli animali macellati. Il pagamento della somma da parte dell’affittuario doveva essere effettuato a Natale di ciascun anno e ciò non deve ricondursi ad un puro caso ma al fatto che proprio in quel determinato periodo dell’anno si verificava una maggiore attività dovuta essenzialmente alla macellazione dei maiali.
Dalla stessa delibera apprendiamo che i proietti che giungevano a Civita Castellana venivano poi condotti “a Rignano, acciò vadino al suo viaggio di Roma” [211]. Il trasporto curato dall’ospedale della Misericordia aveva un tragitto limitato a circa 15 Km, dopo di che era l’ospedale di Rignano che provvedeva a far compiere l’ultimo tratto della Flaminia agli esposti che provenivano dai vari ospedali dello Stato Pontificio. Il viaggio dalle diverse località durava “da due a cinque giorni, secondoché provenivan da Viterbo, Corneto, Acquapendente, Foligno, Spoleto, Narni, Civita Castellana, Rieti, Velletri, e da tutta la Marittima e la Campagna”[212]. Dopo queste parole il Pinzi – che riprende la relazione di Mons. Caracciolo, commissario pontificio per la fondazione dei brefotrofi nel 1738 – aggiunge che degli orfani “venienti dalla via Flaminia, appena qualcuno giugnea vivo sino a Civita Castellana. D’ordinario era qui la lor tomba”[213]. Lo storico viterbese, però, non ci fornisce notizie più dettagliate circa le cause che provocano questa moria di bambini nel tratto di strada prima dell’arrivo a Civita Castellana. A distanza di due secoli dalla concessione fatta dalla Comunità, la Confraternita nel 1816, vista la necessità di reperire i fondi indispensabili per far fronte alle spese dell’ospedale, chiede il ripristino dell’antico sussidio di “Scudi Sei annuali” che veniva corrisposto “per supplire al ricevimento e trasporto de Projetti come si riconosce da Memorie Antiche di questo nostro Archivio, e che ora più non si esiggono” [214].

CAPITOLO 6

I Galeotti
Si è già visto, parlando della Compagnia, che uno dei compiti a carico dei confratelli di S. Giovanni Decollato era quello di visitare “li poveri carcerati, et galeotti, et quelli li governa secondo li è ordinato dalla Camera Apostolica”[215]. L’assunzione di questo servizio da parte della Confraternita risale all’epoca “del Pontefice Sisto V, fin dall’anno 1587”[216]. Sulla localizzazione della prigione i registri della Compagnia non riportano alcunché, sappiamo soltanto che il Pechinoli, nella sua Cronaca di Civita Castellana redatta poco dopo la metà del ‘500, riferisce che “le publiche carceri erano in una casa vicino a S. Giorgio”[217]. La ex chiesa di S. Giorgio, attualmente inglobata nel complesso dell’Istituto Statale d’Arte e non più adibita al culto, si trova a qualche decina di metri da un edificio che la tradizione popolare indica con il nome di “le carcerette”. Il fabbricato, di chiara origine medievale, è situato nel centro storico della città e precisamente in via Vinciolino n.7, nonostante ciò è ancora tutto da dimostrare che si tratti delle “publiche carceri” menzionate al cronista civitonico. Le parole del Pechinoli, che usa il verbo al passato, ci lasciano intendere che, negli anni in cui scrive, la prigione era già stata spostata. Agli inizi dell’800 esiste a Civita una “via delle Prigioni”, attuale corso Bruno Buozzi, segno che lì erano posizionate le carceri cittadine successive a quelle medievali[218]. Abbiamo visto che il compito della Compagnia era quello di visitare e di governare i reclusi. Per tale servizio riceveva dalla Camera Apostolica un discreto compenso. In un anno la Confraternita incamerò 175 scudi “netti dalla mercede del Procuratore” che erano i “Denari riscossi in Roma per la spesa de Galeotti” così suddivisi: “De dicembre 1628 scudi 41”, “D’Aprile 1629 scudi 60”, “D’Agosto 1629 scudi 74”[219]. Il pagamento delle rate avveniva ogni quattro mesi e si può presumere che l’entità delle somme corrisposte variava al variare del numero dei galeotti. Gli importi registrati erano al netto della quota spettante al procuratore. Nel 1628 ricopriva la carica di “Procuratore in Roma per li Galeotti” il signor “Ugolino Magrino” che era inserito nella lista dei salariati della Confraternita con un compenso annuo di 10 scudi[220]. Il compito del procuratore era certamente quello di rappresentare la Confraternita e di seguirne gli interessi presso la Camera Apostolica. Nello stesso anno compare nella medesima lista dei salariati il signor “Ottavio Scorzone” che, per “la cura de Galeotti”, riceve all’anno 18 scudi[221]. Si trattava, alla pari dell’ospedaliero e con la stessa retribuzione, della figura che gestiva materialmente il servizio. Nel 1643 tra i salariati figurano ancora un “procuratore in Roma” e un incaricato “per la cura de Galeotti”[222]. Per i due anni, successivi figura come “Spedaliere et proveditore de Galeotti” un tal “Francesco”[223]. La previsione sia del procuratore di Roma che dell’incaricato in città ci fa pensare che il servizio era tenuto in debita considerazione. La prigione di Civita Castellana raccoglieva i “condannati alla Galera, che da diversi luochi dello stato Ecclesiastico si trasmettono e si radunano nelle carceri di detta Città”[224]. Il fatto che nelle carceri cittadine confluissero criminali da diversi luoghi dello Stato Pontifico ci porta a fare alcune considerazioni. Sappiamo che l’adibizione a carcere del Forte Sangallo risale a non prima degli inizi  dell’800 mentre l’affermazione sopra riportata è datata 1788[225]. Ciò vuol significare che l’importanza assunta successivamente dalla fortezza, che verrà chiamata “la Bastiglia di Roma”, non deve essere esclusivamente riferita alla grandiosità della struttura ma deve rifarsi anche ad una situazione preesistente che vedeva la città e le sue carceri rivestire un ruolo significativo nel sistema carcerario pontificio. La Confraternita per il servizio che prestava in favore dei galeotti era titolare del “Privilegio di poter in ciascun anno o in perpetuo nominare, e liberare un Condannato anche di pena Capitale per concessione de Sommi Romani Pontefici, e particolarmente della S. Me: Pavolo P.P.V.”[226]. L’istituzione del privilegio risaliva al pontificato di papa Paolo V (1605-1621), negli stessi anni in cui la Confraternita riceveva in gestione l’ospedale dei Pellegrini.
Con il passare degli anni, però, la Compagnia non esercitò più tale diritto, tanto è vero che nel 1757 “Il signor Avocato Durani si vuole interessare per ottenere la reintegrazione de Privileggi di questa Compagnia di nominare un condannato per gratitudine” e all’uopo presenta una supplica alla Confraternita per far liberare “Giuseppe da Cagli condannato a sette anni di galera”[227]. Il 22 novembre 1788 la Compagnia – reintegrata nel suo privilegio – riceve la supplica dei “Fratelli Ortenzio e Giuseppe Antinori di questa medesima Città di esser aggraziati dalla medesima nostra Confraternita della nomina per esser rimessi e liberati dalla pena di dieci anni di galera”[228]. La condanna era stata irrogata dalla S. Consulta per un reato che non viene specificato; sappiamo soltanto che Ortenzio, resosi latitante con l’aiuto del fratello Giuseppe, fu “arrestato dagli Esecutori per una semplice sodisfazione della di lui Matrigna”[229]. La Confraternita decise in favore della supplica degli Antinori e due giorni dopo indirizzava al Papa la seguente richiesta: “presentiamo alla Santità di Nostro Signore P.P. Pio VI felicemente regnante, a detta S. Consulta li suddetti due Fratelli Ortenzio e Giuseppe Antinori umilmente suplicando la Santità Sua, e la suddetta S. Consulta di degnarsi di volere benignamente ammettere la nostra Nomina, e condonare alli medesimi Fratelli la suddetta pena di dieci anni di Galera (…) a tenore del Privilegio come sopra conceduto da Sommi Pontefici” [230]. L’inizio del XIX secolo vede ancora la Confraternita portare avanti il servizio di assistenza ai reclusi e tale attività “fu in pieno vigore non esclusa l’Epoca Repubblicana prima, e seconda invasione Francese, fino all’anno 1814 ripristinamento del Governo Pontificio” [231]. Il servizio da parte della Compagnia, era stato prestato anche durante la Repubblica Romana e per tutto il periodo napoleonico. Nel 1814 la Confraternita percepiva “un compenso di quattrini quattro, e mezzo al giorno per ciascun Carcerato” e tale compenso fu mantenuto “a tutto il dì 14 7mbre 1817, epoca in cui essendosi fatta dal Governo una fornitura Generale per tutti i Luoghi di pena, e Carceri dello Stato ne rimase perciò spogliato il Pio Luogo di un tale diritto, che da quattro Secoli godeva” [232]. Alla luce di quanto sopra, il 1817 può considerarsi il termine ultimo dell’attività della Confraternita in campo carcerario, forse proprio nel momento in cui l’amministrazione pontificia provvedeva ad adibire a carcere il Forte Sangallo.


APPENDICE
INVENTARIO DEI BENI MOBILI DELL’OSPEDALE DELLA MISERICORDIA

Adi 20 7mbre 1629

Inventario di tutti li beni mobili del osp(eda)le fatto et consegnato a Gio: Ant(oni)o Mantuano.
In primis un Altare, con il quadro di S. Vincenzo, con il suo parato rosso, et un altro di corame, con
quattro coscini di rete, et doi candelieri di legno, la carta delle glorie, et l’evangelio, et una croce di
 
legno, et una ceppa,

Appennetora di rame n°1                                                                         
Accetta n°2                                                                                                   
Appozzatora di rame n°1                                                                                
Arca n°1                                                                                                             
Banchetti da letto con sue tavole n°5                                                            
Bichieri di stagno da medicine n°2                                                                 
Bigonzo n°1                                                                                                        
Brocca di rame senza coperchio n°1                                                            
coperte di lana bianca n°13                                                                              
coperte di lana rossa n°1                                                                                 
coperte di lana verde n°1                                                                                
coperte schiavine  n°3                                                                                       
capezzali longhi da letto n°9                                                                        
coscino di tela bianca  n°1                                                                             
credenzette per tener robbe per l’amalati n°4                                            
caldarello di rame per far l’acqua cotta n°2                                              
caldarozzo di rame n°1                                                                                   
coperchi di rame n°4                                                                                        
caldara di rame grande n°1                                                                            
candelieri d’ottone n°1                                                                                    
capofochi di ferro para doi n°2                                                                    
catene di ferro da Camino n°2                                                                                
conche di rame n°2                                                                                         
cassa di legno usata senza coperchio n°1                                               
cassa d’albuccio fatta a forziero n°1                                                      
casse d’abete n°2                                                                                            
caratello n°2                                                                                                     
canestro da bucata n°1                                                                                  
cochiara di ferro n°1
sbusciata n°1                                                                                                                                            
Foderette bianche per coscini  n°7
Grattacascio n°2                                                                                                                              Lenzola n°35
altre lenzola n°12
Lampadile di rame che si tiene in mezzo al infermeria per far luce   n°1
Lucerne da olio n°6
Lavamano di rame n°1
Lettiere con colonne n°7
Matarazzi n°19
molli di ferro da foco n°1
mortaro di marmo con il suo pistello di legno n°1
Occarello n°1
Padiglione di tela con il suo cappuccio n°1
pagliaricci da letto  n°11
paletta di ferro da foco n°1
pala di ferro n°1
Quadri con diversi santi con un tondo n°6
segette per il servizio n°8
sartagina da frigere n°1
sartagina sbusciata da cald’arosto n°1
scommarello di ferro n°1
scaldaletto n°1
spiti di ferro n° (*)
scaletta n°1
scabelli usati n°2
salviette n°9
segno di S. Gio: che s’attacca alli sacchi con talpa e latta n°1
seta per passar farina n°1
Trabacche di tela n°2
tavola da magnare n°1

(*) il numero è omesso
                                                                                                                                                                                                                          Adi 15 feb(rai)o 1630
            
                                                  L’Ostilio Mazzochio Priore
                                                  ha riserrato nella credenza lenzola 12
                                                  fattele risarcire delle q(ua)li lenzola
                                                  35 sono remaste a n°26 e de tanto
                                                  ne deve render conto Gio. Ant(oni)o
                                                  Vittoria n (ost)ra Sped (alie)ra dico n°26

[Trascrizione di Eliana Angelici]
NOTE

[1]L.I. f.34r
[2] L.I. f.10r. In un caso, il testamento di Giulia Lalli ortana, moglie di Macario Calisti civitonico, redatto in data 31 marzo 1605, veniva prevista –come onere a fronte di un lascito- la celebrazione di “duas exequias” all’anno in perpetuo a carico della Compagnia di Civita e se ciò non si fosse verificato, diritti ed oneri sarebbero dovuti ricadere sulla “Ecclesia S(anc)ti Joannis Decollati de Urbe”.
[3] Libro delle Congregazioni della Ven:le Confraternita di S. Giovanni Decollato e Misericordia di Civita Castellana, f.4r
[4] L.I. f.5r
[5] L.I. f.23r. Si tratta delle testimonianze rese da cinque notabili cittadini in favore della concessione alla Confraternita dell’ospedale dei Pellegrini.
[6] L.I. f.24v
[7] Ibidem
[8] Ibidem
[9] L.I. f.23r
[10] 3° Libro delli Consigli et resolutioni… f.44r Di seguito indicato con 3° L. Il 29 agosto di ogni anno si svolgeva la processione in onore del patrono e “doppo la Procissione” i compagni si radunavano nell’oratorio della chiesa di S. Giovanni Decollato
[11] I segni lasciati da alcune di queste famiglie, molte estinte e alcune ancora presenti, riguardano:
toponimi (località “Pichinori”, “cava di Fantibassi”, !Casale Ciotti”), urbanistica (palazzi Petroni-
Andosilla, Antona, Speditori, Guglielmi-Paglia), personaggi illustri (Domenico e Virgilio Mazzocchi). A proposito di Domenico Mazzocchi si veda: A. CIARROCCHI: Domenico Mazzocchi, Contributo alla conoscenza di un musicista del ‘600, in Biblioteca e Società n.2 anno XIII, Viterbo 1994, pagg. 7-11.
Colgo l’occasione per comunicare che successivamente alla pubblicazione dell’articolo ho rinvenuto nell’atrio del vescovato un probabile frammento del deposito marmoreo del Mazzocchio, nel quale compare evidente lo stemma di famiglia.
[12] La chiesa di S. Benedetto era posta di fronte alla chiesa di S. Giovanni a pochissimi metri di distanza. Dall’antica struttura, trasformata a mo’ di abitazione dal vescovo Ercolani intorno al 1844, si possono ancora vedere parte dell’abside – visibile in un sottoscale dell’abitazione del parroco – e parte del campanile, dal alto della scuola elementare.
[13] L.C. riunione del 20 maggio 1864. L.c. .riunione del 20 maggio 1864.
[14] L.C. riunione del 21 gennaio e del 24 aprile 1866
[15] L.C. riunioni del 21 gennaio e del 24 aprile 1866
[16] L.C. riunione del 25 novembre 1867 “ congresso tenuto nella Cancelleria Vescovile generale di Civita Castellana il giorno 16 9mbre 1867 fra li Deputati di S. Giovanni Decollato Signori Francesco Lepori e Luigi Ciotti ed il Capo Mastro Muratore Domenico Pavolelli, assistito dal suo Legale Vincenzo Coletta, per troncare la vertenza che si agita in detta Curia, a causa delle lavorazioni mura-rie, eseguite in detta chiesa, si sarebbe preso il temperamento conciliativo e amichevole di valutare tutti i lavori eseguiti dal Pavolelli alla somma complessiva di Scudi Mille e Sessanta, defalcando tutto quello che dal medesimo si è ricevuto per detto titolo”
[17] L.C. riunione del 29 ottobre 1900. I lavori vengono progettati “ dall’Architetto Conte Cozza”.
[18] L.I. f.30v
[19] L.C. f.2v
[20] L.C. f.2r
[21] L.C. riunione del 9 dicembre 1873
[22] 3°L. f.85r
[23] 3°L. f.90v “ pallulis (…) fuerunt reperta Alba favotabiles n°viginti duo, et nigre reprobantes n°duo”.
[24] 3°L. f.75v “ A viva voce fu resoluto”.
[25] Prima Synodus Diocesana, Civitatis Castellanae ab illustrissimo et reverendissimo Domino Sancte Lanucci, Dei et Apostolicae Sedis gratia Episcopo Civitatis Castellanae, et Hortanae;, pag. 487. Sinodo tenuto dal 1° al 3 maggio 1756, pubblicato a Roma nel 1757 da Benedetto Francesi.
[26] Ibidem p. 488
[27] L.I. f.3r
[28] L.I. f.3v
[29] 3° L. f.10r Per quanto riguarda il vescovo si riportano le note biografiche che compaiono su: A. Cardinali, Cenni storici della Chiesa Cattedrale di Civita Castellana, Roma 1935, p. 95 “Angelo Gozzardini. Arcivescovo di Naxos e Paro, Suffraganeo del Cardinale Ludovisi di Bologna, su trasferi-to a quesat sede il giorno 25 ottobre 1621, fece più sinodi il primo dei quali si pubblicò coi tipi di Ronciglione l’anno 1627, Mori il giorno 29 marzo 16653 in Civita Castellana e fu sepolto nella cap-pella del SS. Crocifisso, dove è un epitaffio posto l’anno 1705 dal Cardinale Ulisse Gozzardini!
[30] 3° L. f.144r
[31] Ibidem
[32] 3° L. f.154r
[33] A. Cardinali, cit. p. 97 “Fortunato M. Ercolani di Tivoli della Congregazione di Nostro Signore Gesù Cristo; da Nicopoli fu traslato a queste Chiese il 19 aprile 1822. Eresse in ambedue le Città gli Orfanotrofi, L’istitui suoi eredi e passò agli esterni risposi il 27 dicembre 1847.
[34]3°L. f.208r  “Non ignorano le SS.LL. avere io speso una vistosa somma per ridurre abbitabile la soppressa Chiesa di S. Benedetto”.
[35] 3°L. f.208v
[36] L.C. riunione del 9 dicembre 1873.
[37] L.I. f.34r
[38] Ibidem
[39] L.I. f.37v
[40] L.I. f.34v
[41] L.I. f.38v
[42] L.I. f.34v
[43] Ibidem
[44] Nella formula del giuramento del podestà, riportata da G. PULCINI nel 4° quaderno del Centro Studi Ager Faliscus dal titolo “Civita Castellana Città Trimillenaria, vol. II” p.60, si legge: “e guardar farò (…) le cose dello Vescovato, & hospitale di Sata croce, & ogn’altro loco religioso della Città e di Civita Castellana”.
[45] F. Pechinoli: Dell’Istoria di Civita Castellana… libro I e II, Manoscritto pp. 231 + indice, p. 176
[46] L.I. f.38r
[47] L.I. f.34v A margine del foglio si trova annotato dalla stessa mano che ha redatto l’inventario: “dicta domus est locata Tullie Siloso”.
[48] L.I. f.34v “è restituita ai fratelli di S. Croce, e l’affittano per Granaio al Signor Domenico Ettorre”.
[49] L.I. f.56v Sia nell’inventario dei beni dell’ospedale di S. Croce (f.35v) che in quello dell’ospedale della Comunità (f.41v) viene specificato che si tratta di un oliveto e viene annotato a margine che è locato a Francesco Buttarelli.
[50] L.I. f.46v
[51] F. Pechinoli cit. p. 20
[52] L.I. f.52r
[53] L.I. f.46v
[54] L.I. f.22v “hospitale della Comunità di Civita, che sta fuori nel Borgo di Sopra”. Da quando precede sembra di capire che il Borgo di Sopra era situato sul colle di Vignale ed era cosi chiamato forse per distinguerlo dal borgo di sotto che si potrebbe individuare nel raggruppamento di edifici, ancora visibili, situati nelle adiacenze del diruto ponte sul Treia proprio sotto la città, dove si trovava anche la chiesa di S. Maria, detta appunto, del Ponte.
[55] L.I. f.52r
[56] L.I. f.27r
[57] G. Cosmacini: Storia della Medicina e della Sanità in Italia – Dalla peste europea alla guerra mondiale 1348-1918, Roma - Bari 1987, p.49
[58] Sulla porta borgiana vedasi da ultimo: L. Cimarra: Artisti e opere d’arte a Civita Castellana nel secoli XV-XVI, in Biblioteca e Società, anno XII, n. 1-2, Viterbo 1993, pp. 20-26.
[59] L.I. pp. 3 e 4 della mappa allegata. Il Pulcini pone un altro ospedale nelle immediate vicinanze dell’antiporta borgiana: “un piccolo ospedale, le cui rovine sono a destra della Porta Borgiana, poco distante”.
G. Pulcini: Falerii Veteres, Falerii Novi, Civita Castellana; Vignanello 1974, p. 231.
[60] La vecchia consolare Flaminia passava a circa 4 km. dalla città in località S.Anna dove tramite un maestoso viadotto (Muro del Peccaro) si risaliva sul pianoro tufaceo prima di arrivare a Borghetto.
[61] L.I.  f.52r
[62] L.I. f.22r
[63] Forse non deve ritenersi del tutto casuale quanto affermato da H.C. Peyer riguardo alla durata dell’ospitalità presso le abbazie cistercensi: “La durata della sosta venne limitata sempre più chiara-
mente a uno, due o tre giorni, mentre il numero dei poveri da alloggiare e sfamare ad un massimo di dodici-tredici”. H.C. PEYER: Viaggiare nel Medioevo, dall’ospitalità alla locanda, Roma-Bari 1990, p. 137.
[64] L.I. F.21v “et occurrendo esser amalati, si fanno condurre via, chi a Rignano, et chi ad Otricoli, et chi in altri luoghi dove loro vogliono andare.
[65] L.I. f.24v
[66] L.I. mappa dei possedimenti p.3
[67] Per l’approssimativa datazione mi sono avvalso di due elementi desunti dalla stessa mappa: la raf-figurazione dell’ospedale della Misericordia, ultimato dopo il 1616, e la presenza nell’indice della mappa di Gio: Batta Pechinoli che come confratello compare nelle adunanze tenutesi negli anni 1643-1668.
[68] Per quanto riguarda la chiesa di s. Antonio vedasi la ricerca monografica della classe 3 A della Scuola Media Statale “Dante Alighieri” di Civita Castellana dal titolo: “Oratorio Suburbano di S. Antonio Abate d Civita Castellana” anno scolastico 1989-90.
[69] L.I. f.22r
[70] L.I. ff.23v-24r
[71] L.I.  f.25r e verso
[72] “Fr. Ippolito Fabriani. Di Ravenna, Mestro Generale degli Eremiti di S. Agostino, fu eletto il giorno 17 dicembre 1607, morì in Civita Castellana il giorno 24 agosto 1621” A. CARDINALI cit. p. 95
[73] L.I. ff.26v-27r
[74] L.I. f.27r
[75] L.I. ff.27v-28r “promiserut, et se obligarunt iuxta firmann (…) subferre, et subportare in guber-
nio Hospitalis Communitatis (…) illa onera solita, et consueta”.
[76] L.I. f.28v
[77] Ibidem
[78] L.I. f.23r
[79] L.I. f.22v
[80] 3°L. f.1v
[81] 3°L. f.16r
[82] 3°L. f. 19r
[83] “Giuseppe Antonio Sillani Leoncilli. Nobile Napoletano, Uditore e Vicario generale delle cose spirituali del Cardinale Ludovisi Vescovo di Ostia; fu promosso a queste sedi il giorno 13 maggio 1686 e morì in Civita Castellana, il giorno 1 Agosto 1697 e fu sepolto nella cappella di S. Gratiliano, dove è l’epitaffio”. A: Cardinali cit. p. 95
[84] 3° L. f.75v “La suddetta campanella fu data a Monsignor Vescovo e messa nel suo campanile del Palazzo d Domenico Conti muratore”.
[85] 3°L. f.101r
[86] 3°L. f.108v§
[87] 3°L. f.108r “Sarebbe Bene deputare li periti per la stima del Pezzetto di Terra con le fabriche in esso esistenti detta lo Spedale Come Sopra e del terreno del Suddetto Signore Canonico Forlani che Come Sopra vuol dare in permuta (…) si deputino Mastro carlo Ghezzi e Mastro Rocco Lega Muratori”.
[88] L.C. f.3r
[89] Altra causa possibile potrebbe essere quella riportata da Cesare Pinzi nel suo studio intitolato “L’ospizio degli esposti di Viterbo”, Viterbo 1914, p. 17-18, quando scrive, riferendosi alla prima metà del XVIII secolo, che “Gli Ospizii di Pellegrini (…) dopoché semò di tanto il paesaggio dei Romei, s’eran trasformati quasi dappertutto in nidi di malviventi che infestavano lo Stato; oppure di vagabondi, designati a quel tempo col nome di Bianti”. In nota l’autore riporta le parole di Mons. Caracciolo scritte nella Relazione sullo stato dei Brefrotrofi dello Stato risalente al 1738: “oggidì pochissimi sono quelli che al devozione pone in pellegrinaggio; che quasi tutti sono ribaldi, i quali, per vivere una vita licenziosa, vanno girando il mondo: non sentendosi commesso furto, omicidio, assassinio, dé quali questa sorta di gente non siano gli autori”.
[90] L.C: f.4r
[91] L.I. f.5r
[92] L.I. f.3r La Confraternita “habet unam domus in Parrocchia S. Benedetto detta l’Hospedaletto”.
[93] Ibidem”ante viam publicam”.
[94] L.I. f.39r
[95] L.I. f.23r e verso
[96] L.I. f.24v
[97] L.I. ff.24v-25r
[98] L.I. f.23v
[99] Nei manoscritti non c’è nessun accenno ad altri ospedali gestiti da altre confraternite.
[100] L.I. f.31v
[101] L.I. mappa dei possedimenti p. 2
[102] L.I. f.24v
[103] 3°L. f.69v
[104] L.I. f.30r
[105] Ibidem
[106] L.I. f.30r e verso
[107] Ibidem L’inizio del mandato al 1° settembre di ogni anno derivava dal fatto che la nomina avve-
niva “nel giorno della Decollazione di S. Giovanni Battista” ossia il 29 agosto.
[108] L.I. ff.30v-31r
[109] L.I. f.31r
[110] L.I. f.32r
[111] L.I. f.31v
[112] L.I. f.31r e verso
[113] L.I. f.31v
[114] L.I. f.32r e verso
[115] L.I. f.32v
[116] Ibidem
[117] L.I. f.33r
[118] Ibidem
[119] 3°L. f.1v
[120] L.I. f.25r
[121] 3°L. f.15v
[122] 3°L. f.16r
[123] 3°L. f.20r
[124] 3°L. f.165r
[125] 3°L. f.1v
[126] F. Cosmacini cit. p. 46 ”Sono abili ad accorciare le ossa, nell’applicare mignatte e cataplasmi, nel medicare piaghe e ferite. Sono essi quei medici illitterati, quei chirurgi rurales, ai quali è affidata la sola pratica sanitaria possibile nei villaggi e nelle campagne”.
[127] G. Cosmacini cit. p. 47
[128] M.C. Cipolla: Public Health and the Medical Profession in the Renaissance, Cambridge 1976, p. 72 in G. Cosmacini cit. p. 141: “i medici sono assimilati alle classi superiori, i chirurghi – con i barbieri e gli speziali – alle classi inferiori”.
[129] 3°L. f.15v
[130] 3°L. f.16r
[131] 3°L. f.69r
[132] 3°L. f.56v
[133] G. Cosmacini cit. p. 51 “I medici, i quanto professionisti, prestano la loro opera dall’ester-
no”.
[134] 3°L. ff.3r-4r Inventario riportato in Appendice.
[135] Ibidem
[136] 3°L. f.134v
[137] 3°L. f.128r
[138] 3°L. f.134v
[139] 3°L. f.130r Il riferimento all’inverno ed alla umidità è in relazione sia al particolare clima della città che alla collocazione dell’ospedale, a pochi metri dalle rupe del rio Maggiore.
[140] 3°L. f.130v
[141] 3°L. f.131v
[142] Prima Synodus Dioecesana cit. p. 482 “ritrovandosi alcune di dette Opere Pie senza forma, e regole; altre quasi distrutte, altre per lungo tempo senza rendimento de’conti, e sindacati, alcune senza scrittura, e registro, tanto de’ capitali, quanto de’ dbitori”.
“Sante Lanucci. Di Mondavio, Diocesi di Fano, eletto da Benedetto XIV il 2 Dicembre 1748; consa-
crò solennemente la Cattedrale di Civita Castellana l’anno 1750. rinvenuti i Corpi dei SS. MM. Marciano e Giovanni sotto l’altare Maggiore della Cattedrale di Civita Castellana, rinnovò l’altare, e li rispose sul medesimo luogo. tenne il Sinodo in ambedue le cattedrali e stampò in Roma le famose Costituzioni del medesimo Sinodo. Per la sua vecchiaia rinunziò al vescovado il 5 Giugno 1765 e morì in patria” A. Cardinali cit. p. 96
[143] Prima Synodus Dioecesana cit. p. 489-490. Veniva aggiunto che “altrimenti facendosi spese straordinarie dagli Uffiziali, non possano ripetersi; anzi che si abbiano come donate”.
[144] 3°L. f.130r
[145]  Ibidem. Sempre nello stesso foglio, in corrispondenza della richiesta di rinnovare il panno del Crocifisso che si porta in processione e del cataletto, c’è una seconda annotazione del vescovo: “Non si faccia alcuna rinnovazione del Panno del Crocifisso e del Cataletto, prima che non sia ristabilito l’Ospedale come sopra”.
[146] 3°L. f.128r
[147] 3°L. f.130v
[148] 3°L. f.138v Era diventato vescovo di Civita Castellana “Francesco Forlani. della terra di capranica, Diocesi di Sutri, già Vicario Generale del Ven. Tenderini, creato Vescovo di Dardania e Suffraganeo della Chiesa il 1° giugno 1765; il 27 Febbraio 1787 passò da questa vita e fu sepolto avanti l’Altare di Maria SS. della luce” Cardinali cit. p. 97.
[149] 3°L. ff.138v-138r “col placet di Monsignor Illustrissimo Vescovo furono eletti tutti li sopra descritti intervenuti in questa Congregazione (che erano: Francesco Petti, Girolamo Ettorre, Paolo Samirina, Giovanni Salvatori, Giovanni Francesco Corradi, Carlo Anastasi, Antonio Paglia, Giuseppe Caroli, Marcello Vignanelli), aggiunti li seguenti Silvestro Petti, Pietro Paolo Germani, Marciano Coluzzi, Giuseppe Morelli, Domenico Paglia, Marciano Ettorre, Paolo Rosa, Romualdo Galloni”.
[150] 3°L. f.153v
[151] 3°L. f.145v
[152] Ibidem
[153] 3°L. f.152v Si trattava della nuova fabbrica impiantata dai fratelli Giuseppe Antonino e Francesco Mizzelli e dall’architetto Giuseppe Valadier nei pressi del fiume Treia sotto la città.
Interessante studio con documenti d’archivio, riguardo la fabbrica, è quello di G. Santuccio: Una “Fabbrica Pontificia” di terraglie a Civita Castellana, in Faenza – Annata LXXVI (1990) n° 6, pp. 283-303. Da questo interessante lavoro non emerge purtroppo il luogo di provenienza delle maestran-
ze occupate nella fabbrica.
[154] 3°L. f.152v
[155] 3°L. f.179v
[156] 3°L. f.181r
[157] 3°L. f.180r
[158] Ibidem
[159] 3°L. f.180v
[160] 3°L. f.180r
[161] M.G. Crava: Civita Castellana 1789-1815 Dalla rivoluzione francese alla restaurazione pontifi-
cia: grandezze e miserie di una comunità agli albori del suo processo industriale, Civita Castellana 1994, pp. 120-121.
[162] 3°L. f.161r
[163] 3°L. f.161v
[164] 3°L. f.165v
[165] 3°L. f.167v I francesi erano passati ma avevano lasciato in eredità la parola budget per indicare il bilancio preventivo del Comune.
[166] 3°L. f.196r Si stabilisce di ricorrere nuovamente alla S. Congregazione del Buon Governo “per avere un aumento su quello, che plassa questa Comunità all’Ospedale”.
[167] L.C. riunione dl 6 aprile 1854
[168] Ibidem   “Si certifica da me Sottoscritto Cancelliere qualmente al Registro delle volture, alle istanze numero 1887.1888. appariscono volturati tutti i fondi rustici, ed urbani, già intestati alla usu-
fruttuaria Marchesa Maria Teresa vedova Andosilla, tanto in Civita Castellana che in Stabia, al Venerabile Ospedale di Civita Castellana come proprietario, e ciò in forza di testamento del 10. Gennaio 1829, reg.to. a Roma il 16. detto Vol.80 Pub: fol.38 verso; Cas.6 ed aperto il 29 Novembre 1831 per gli atti del notaro Giacomo Frattocchi, quali due volture richieste colle istanze sopradette trovarsi in data 1 luglio 1837. In fede. Civita Castellana dì 4 Aprile 1854. il Cancelliere del Censo: F.to Carlo Cazzaniga”. Dalle date riportate si può notare che la richiesta di voltura risulta esser stata inoltrata tre mesi prima del decesso del’usufruttuaria.
[169] Sulla cospicua eredità nel corso degli anni vennero accampati diritti da parte di lontani parenti della marchesa Andosilla. Per ben due volte la Confraternita dovette resistere in giudizio per mante-
nere le sue prerogative; una prima volta nel 1865 ed una seconda volta nel 1891.
[170] L.C. riunione del 16 giungo 1856
[171] Ibidem
[172] L.C. riunione del 12 maggio 1865
[173] Ibidem
[174] Ibidem
[175] Ibidem
[176] Ibidem
[177] Ibidem
[178] Ibidem
[179] L.C. riunione del 22 marzo 1867. Nello stesso anno (riunione dell’11 luglio) viene richiesta da parte del comandante del Forte la riapertura dell’ospedale vecchio.
[180] Ibidem
[181] Ibidem
[182]  F. Tarquini: Notizie Istoriche e Territoriali di civita Castellana, castelnuovo di Porto 1847, p. 119
[183] Stato Definitivo dei Lavori del Civile Ospedale Andosilla, Esercizio 1894. Manoscritto consulta-
to presso l’Arch. Luciano Soldateschi.
[184] Ibidem
[185] O. Del Frate: Guida storica e descrittiva della Faleria Etrusca (Civita castellana), Roma 1898, p.83. “il grandioso Ospedale Andosilla, ricostrutto dalla nostra Società Cooperativa di costruzione e lavoro testè premiata all’Esposizione di Milano”.
[186] Archivio di Stato di Viterbo, Capitolato di Appalto nuovo ospedale Andosilla, prot.834
[187] Se l’ospedale della Misericordia nel 1865 era ritenuto dal priore generale dei Fatebenefratelli, io. Maria Alfieri, situato in un luogo poco salubre, nel 1848 la Confraternita aveva emesso la stessa sentenza per l’ospedale dei Pellegrini.
[188] L.I. f.25r
[189] L.I. f.23v
[190] Ibidem
[191] Ibidem
[192] L.I. f.100v
[193] L.I. f.101v
[194] Ibidem
[195] L.I. f.102r
[196] L.I. f.101v “et ogni doi mesi debbia render conto”.
[197] L.I. f.101r
[198] L.I. f.102v
[199] 3°L. f.133r
[200] 3°L. f.133v
[201] 3°L. f.134v
[202] 3°L. f.135r
[203] 3°L. f.135v
[204] Ibidem
[205] 3°L. ff.135v-136r
[206] 3°L. f.135v
[207] L.I. f.78v
[208] Ibidem
[209] Ibidem
[210] Ibidem
[211] Ibidem
[212] C. Pinzi: L’Ospizio degli Esposti di Viterbo, Viterbo 1914, p. 19
[213] C. PINZI cit. p.20
[214] 3°L. f161r
[215] L.I. f.23v
[216] L.C. f.4v
[217] F. PECHINOLI cit. p. 12
[218] Nella mappa della città che compare su La Tuscia Romana di J. Raspi Serra, Milano 1972, p. 105, redatta nel 1819 per il Catasto Gregoriano, con il nome di “Via Prigioni” viene indicato quel tratto dell’attuale corso Bruno Buozzi compreso tra piazza Matteotti e l’incrocio con via di Corte.
[219] 3°L. f.2r
[220] 3°L. f.1v
[221] Ibidem
[222] 3°L. f.15v
[223] 3°L. f.16r
[224] 3°L. f.149r
[225] M. Moretti: Premesse per lo sviluppo delle attività  museali nel territorio falisco, p. 19 in La Civiltà dei falisci, atti del XV Convegno di Studi Etruschi ed Italici, Civita Castellana – Forte Sangallo 28-31 maggio 1987, Firenze 1990.
[226] 3°L. f.148v
[227] 3°L. f.131v
[228] 3°L. f.148v
[229] 3°L. f.149r
[230] Ibidem
[231] L.C. f.5r
[232] Ibidem