«Non senza tema a dicer mi conduco»
(Dante, Inferno, XXXII, 6)
L’autore
di questa nota non è un medievista - quanto dire che non è uno specialista ed
un professionista di studi storici relativi al Medio Evo; a differenza degli
oratori che l’hanno preceduto e della collega inglese che interverrà non
avrebbe, quindi, titolo legittimo per occuparsi di fatti, personaggi e comunque
problematiche relative alla complessa e per molti versi, ancora poco conosciuta
Età di Mezzo. A questo periodo della storia vi è pervenuto - se è consentita la
metafora - come colui che per conoscere
il corso, la portata, le correnti in una parola, il regime di un fiume, deve
necessariamente arrivare a scoprire o comunque conoscere la sorgente dello stesso.
La
storia dell’economia politica può veramente essere paragonata ad un corso
d’acqua che trasporta idee, dottrine, teorie ed ideologiche, il quale riceve a
sua volta, da molti affluenti - cioè le altre discipline, il diritto, la
filosofia, ecc - apporti di ogni genere. Lo storico del pensiero economico è di
tale ideale fiume l’esploratore che partendo dal suo tratto terminale, lo stato
attuale dell’economia, lo risale con un viaggio a ritroso nel tempo, e dipende
dalla sua abilità, conoscenza e, perché no?, coraggio andare oltre e penetrare
nella “selva selvaggia” ancora inesplorata.
Quanto
ora detto potrà a taluni sembrare enfatico e pleonastico specie agli storici
del Medio Evo i quali hanno per i loro studi a disposizione un materiale
storiografico molto più largamente e analiticamente noto e si occupano di temi
che sono certamente molto più conosciuti di quanto non siano quelli propri
della storia medievale dell’economia. Si badi: della storia dell’economia e non
già della storia economica che è un’altra cosa rispetto alla prima. Essi, e con
loro altri, obietteranno che è fuori luogo parlare di scoperta di sorgenti e di
cose simili quando si dispone di una vasta letteratura che ha per oggetto il
pensiero economico di molti autori del Medio Evo. Se ciò è vero, però, non è
tutta la verità. Non basta disporre di numerosi lavori, più o meno ben fatti,
su san Tommaso d’Aquino o san Bernardo, o Nicola Oresme, per poter affermare
che conosciamo la complessa e tormentata genesi del pensiero economico moderno
e contemporaneo che riferito alle sue origini non è tutto identificabile - o
non è identificabile affatto - con la generica ed inespressiva “etica economica” medievale che è un luogo comune
prodotto da storici che non erano economisti né storici dell’economia. Nella
trappola dell’“etica economica” medievale è caduto anche uno storico del valore
dell’importanza di J. A. Schumpeter il quale, presentando nella sua magistrale Storia
dell’Analisi Economica il periodo che ci
interessa, cristallizzato in posizioni stereotipate un processo di idee che è
invece ben più ricco e complesso.
Altri
storici del pensiero economico non fanno neppure questo, perché semplicemente
ignorano autori e idee anteriori alla Ricchezza delle Nazioni di Adamo Smith, o comunque alla precettistica
economica che va sotto il nome di Mercantilismo, col risultato di giungere
spesso ad errate o inadeguate interpretazioni delle teorie e delle dottrine che
si svilupparono a partire dal XVI secolo, o dal XVIII secolo. Facciamo un
esempio. Non v’è chi non sappia tra gli “addetti ai lavori” chi sia stato
Bernardo Davanzati elegante studioso di problemi della fine del XVI secolo e
quanta letteratura sia stata prodotta intorno a lui, tanto che si potrebbe
affermare che sulla sua opera non c’è null’altro da dire. Eppure, potremmo
dimostrare - in parte lo abbiamo fatto in altra sede - che talune proposizioni
di Davanzati acquistano senso e significato storico e analitico-economico solo
conoscendo la vasta e articolata letteratura prodotta da teologi,
teologi-giuristi, sommisti e giuristi tra XI e XVI secolo sulle tormentate
questioni monetarie[1]. Ma
questa vasta letteratura è pressoché sconosciuta agli economisti, come lo sono
le decine di studiosi che la elaborarono, eppure essi portano nomi tra i più
prestigiosi della cultura giuridica e non giuridica del Medio Evo, quali Enrico
da Susa, Cino da Pistoia, Bartolo da Sassoferrato, Baldo Degli Ubaldi, Nicolò de’
Tedeschi, ecc. Che così è, lo prova lo stato della storiografia monetaria che
ignora gli importanti e decisivi risultati di questi, le cui opere, se meglio e più conosciute,
consentirebbero di capire e valutare realmente e concretamente il significato e
l’importanza del contributo di altri studiosi ai quali spesso a torto si
attribuisce la paternità di idee e teorie che sono invece apparse e si sono
affermate in tempi precedenti[2].
Non
pochi economisti contemporanei, come pure taluni storici dell’economia,
giudicheranno esagerata o infondata l’affermazione ora fatta, respingendo la
pretesa dello storico che voglia loro proporre concetti e soluzioni di autori
del Trecento o del Quattrocento, per non dire poi del Duecento e del XII
secolo, quale, per rimanere nel nostro tema, appunto Alessandro III.
Ciò
che abbiamo detto esemplificativamente per la storia monetaria, intimamente
connessa ai processi di trasformazione politica e sociale del Basso Medio Evo,
vale per tutta la storia dell’economia più remota. Non è questa la sede per
affrontare la discussione di un tale stato di cose, ma un cenno va pure fatto
proprio in ordine all’oggetto del tema. Gli economisti, che spesso credono al “peccato
antropomorfico” - consistente nel ritenere estranei gli autori del passato
perché noi “moderni” sappiamo molto più
di loro - per quando talvolta ammettono che può anche non essere inutile “il
consultare le opinioni altrui”, finiscono per sostenere che “l’occuparsi poi delle
fonti è ciò che meno importa. Per la cosa, essi dicono, l’investigazione minuta
della storia, cioè la storia letteraria, è per lo meno un perditempo verso la
storia principale.”
Aggiungeva però il grande storico del diritto tedesco Savigny -
del quale sono le ultime parole citate - che se pure la storia letteraria non è
storia dogmatica (storia dell’analisi
economica, direbbe l’economista) - di questa tuttavia ne è il fondamento “indispensabile
come quella che non sarebbe possibile senza di essa.” La magistrale lezione del
Savigny è stata accolta dagli storici del diritto e la storia del diritto in
circa centocinquanta anni ha dato frutti cospicui e pregevolissimi, specie se
consideriamo gli ottimi studi dedicati alla conoscenza dei fatti giuridici del
Medio Evo e dei giuristi di questa epoca definita giustamente di “rinascenza.”
Non
vogliamo riaprire una celebre “querelle” su questo termine riferito ai secoli
XII-XIV, ma è un fatto che il diritto di questi secoli - nel primo dei quali si
colloca la grande figura di Alessandro III - operò in profondità per la
trasformazione della società verso assetti nuovi e rivoluzionari. I giuristi tutti, dell’uno e dell’altro diritto
- romano e canonico - studiarono, come mai prima, tutte le istituzioni della
società, pervenendo - si pensi a Bartolo da Sassoferrato o Baldo degli Ubaldi -
a definizioni ancora oggi valide sia per la scienza giuridica più strettamente
intesa sia più in generale, per altre scienze sociali, tra le quali appunto
l’economia. Se di ciò gli storici del diritto sono consapevoli, non altrettanto
può dirsi per gli storici dell’economia e per gli economisti. E cosi un
patrimonio ricco e prezioso viene ignorato con grave pregiudizio per la esatta
e precisa conoscenza dell’evoluzione degli istituti della civiltà moderna e
contemporanea.
Per avere una prova che le cose stanno così, basti
leggere quel che sosteneva Achille Loira nel Palgrave’s Dictionary in tema di “Scuola economica in Italia”, per il quale se “risaliamo agli albori del
pensiero economico in Italia, troviamo che gli scarsi (!) scrittori, i quali fanno cenno delle questioni economiche (…)
lungi dell’analizzarle intimamente, ne fanno l’elogio o la critica da un
aspetto puramente teologico.” Che dopo oltre tre quarti di secolo da quando
questa discutibilissima proposizione fu pronunciata le cose non siano cambiate,
lo conferma l’autorevolissimo storico dell’economia medievale Raymond de Roover
allorché afferma che “molti dei manuali di storia del pensiero economico -
quando non omettono del tutto l’argomento e iniziano la trattazione con i
fisiocrati - dedicano poco spazio a ciò che chiamano economia medievale.” (…) Normalmente,
l’esposizione non solo è superficiale, ma zeppa di errori che si sarebbero
potuti evitare andando alle fonti invece di ripetere i clichès.
II
Qui
sta il punto veramente cruciale di ogni discorso sul pensiero economico
medievale. La conoscenza parziale e spesso mistificata che si ha della storia
di esso è imputabile al fatto che si è trascurato di inventariare e valutare tutte le fonti da cui poter trarre elementi utili e
significativi per la ricostruzione di un processo di pensiero il quale, checché
si pensi, non ha soluzione di continuità
nel tempo. Allora - ripetiamo - soltanto una ricerca di tutte le fonti
dalle quali sono germinate le proposizioni che a qualsiasi titolo - giuridico,
filosofico, politico, letterario, religioso - hanno contribuito al dibattito vivo
e sofferto sulle questioni economiche dell’epoca, e sui conflitti ai quali
davano luogo, solo una tale ricerca, dicevamo, può rappresentarci l’armonia
discorde di un’età di profondo e radicale mutamento.
Continuiamo
a insistere su questo aspetto perché gli storici - e gli storici dell’economia
in particolar modo - rimangono pervicacemente fedeli a schemi prefissati, e
sono per così dire colpevoli non tanto di dare la preferenza a testi e
documenti primari della loro scienza (quando e se lo fanno) - il che può anche
essere giustificato - quanto di trascurare altri documenti, opere letterarie,
testi giuridici, scritti scientifici e perciò tutte le testimonianze di vita
espresse in un dato momento storico. Mentre la soluzione del problema storico è
una visione ampia dei vari aspetti del periodo che si esamina. Si tratta,
quindi, come scrive E. Garin, di “non separare in compartimenti stagni le
molteplici manifestazioni dell’attività umana, ma di coglierne le radici
unitarie: di scendere al di sotto delle esperienze manifeste, al di là delle
dichiarazioni volute, oltre i problemi consapevolmente costruiti, per
sorprendere il moto primario da cui sono scaturiti il testo, il documento, il
monumento che ci stanno dinnanzi.”
Se
questa impostazione metodologica è valida e feconda per lo studio di ogni età
della storia dell’uomo, lo è ancor più per i periodi di transizione e di
rivoluzione i quali, proprio perché tali, si ribellano e sfuggono ad ogni
formula classificatoria e conclusiva che ad accoglierla comporta il rischio di
trascurare o negligere elementi che pure furono vitali e che in quanto tali
devono avere sempre cittadinanza nelle pagine che lo storico scrive. Questo non
è più rischio, ma diventa certezza quando, come si è fatto per la storia del
Medio Evo, l’ideologia, intesa nel senso più lato, è la sola a ispirare il
lavoro dello storico. Esempi significativi di quanto affermato sono da un lato
il lavoro del Sombart, dall’altro quello dell’Endemann e del Toniolo, e
naturalmente dei loro seguaci; potremmo chiamare, molto convenzionalmente,
l’uno l’indirizzo “storicistico”, l’altro l’indirizzo “romantico-cattolico.” I
lavori di questi indirizzi non reggono all’attenta e obiettiva analisi storica
perché prodotti sulla base di talune fonti, ignorate o neglette tutte le altre
fonti di pensiero - giuridiche, politiche, filosofiche - come pure le
espressioni della letteratura memorialistica, minore quanto si vuole, prodotta
dagli imprenditori e mercanti italiani - gli artefici del capitalismo
commerciale - i quali nei loro diari e nei loro libri di memorie fissarono
spontaneamente e sinceramente i loro pensieri di uomini reali, descrissero le
loro esperienze, espressero i loro dubbi, dichiararono le loro certezze.
Certe
pagine di Paolo Morelli, fiorentino, o di Giovanni Sercambi lucchese, come
quello di Franco Sacchetti sono per la storia dell’economia altrettanto
rilevanti e probanti quanto quelle di san Tommaso o sant’Antonino da Firenze,
cosi come quelle di Leon Battista Alberti lo sono quanto quelle di Poggio
Bracciolini e Leonardo Bruni. Perché, in breve, anche questi personaggi sono
significativi, e non poco, per cogliere i segni del mutamento tra l’età in cui
Innocenzo III esprimeva tutto il suo disprezzo del mondo, con ciò che questa
concezione metafisica comportava, e i primi decenni del Quattrocento in cui si
fece strada e s’affermò una “visione” dell’uomo all’insegna della felicità
dell’uomo.
Due
poli estremi, questi, che allo storico dell’economia sono ignorati o sembrano
non interessare, perché ritenuti estranei e irrilevanti al campo suo di
indagine. Gli storici alla Sombart e in qualche misura alla Schumpeter, hanno
ignorato il fermento d’idee e di passioni che travagliarono gli uomini, specie
in Italia, alla ricerca di un nuovo assetto civile e morale e quindi hanno
collocato, e collocano, il sorgere del paradigmatico homo oeconomicus in un’epoca posteriore a quella in cui esso
realmente apparve. A loro volta, coloro che hanno tentato, con scarsi o nulli
risultati, di confutare l’interpretazione sombartiana e soprattutto la
correlazione weberiana tra etica protestante e spirito del capitalismo, hanno
orientato la loro indagine in una direzione che appare essere quella non giusta
e che, anzi, quando attentamente ripercorsa senza paraocchi ideologici, risulta
portare acqua al mulino dei loro avversari, perché i pochi, e sempre gli
stessi, autori dell’epoca che essi studiano e propongono, per quanto
autorevoli, sono quelli che dichiararono una sostanziale chiusura verso l’homo
oeconomicus con tutto ciò che l’espressione
significa[3].
Per
meglio spiegare quel che vogliamo dire, ci sia consentito prendere ad esempio
l’opera di sant’Antonino da Firenze, nella quale si sono voluti trovare
elementi non trascurabili per la storia degli istituti dell’economia politica
moderna. Però - ed è questo il nostro pensiero - se dall’esame di singole
tematiche economiche da quest’autore trattate - come pure da altri teologi e
teologi giuristi - passiamo, e qui sta il punto, alla “visione” cioè all’ideologia
sua, allora vediamo che l’homo
oeconomicus è da lui cacciato dalla
realtà terrena in quanto modello umano necessariamente incompatibile con la
civiltà del Vangelo. Certamente, il vescovo di Firenze ha rappresentato nei
suoi scritti la realtà mercantile e imprenditoriale di Firenze con toni
realistici ed efficaci, ha trattato - mutuandoli spesso da altri autori - i
temi del valore, del prezzo, della moneta, dell’interesse, e pertanto a lui
spetta un posto nella storia del pensiero economico, ma se si cerca di cogliere
la ratio che anima l’opera dell’allievo
di Giovanni Dominici - e citiamo un autore emblematico - allora il suo contemptus
mundi, il suo rifiuto del mondo, è
perfettamente identico a quello che due secoli prima aveva ispirato il De
miseria humanae condicionis d’Innocenzo III e
ciò perché sostanzialmente una è la “visione” dei due grandi ecclesiastici.
Non
si può storicamente affrontare l’esegesi dell’opera d’un pensatore del Medio
Evo e dare la spiegazione più obiettiva dell’intima connessione tra movimenti
teologici e filosofici, da una parte, e processi politici, giuridici ed
economici - gli uni e gli altri
strettamente connessi - e se non si pone mente a quel che fu la “rivoluzione”
- come la chiama il Luchaire - che i pontefici operano tra la seconda metà
dell’XI secolo e la fine del XIII, artefice, quindi, anche Alessandro III che
di tale “rivoluzione” fu un protagonista.
III
Frutto
di tale rivoluzione è la rinnovata immagine della Cristianità. Questa,
innanzitutto, si presenta come la società formata da tutti i cristiani sparsi nel
mondo intero, uniti sotto la sovranità spirituale del Papa. Vista in tale
ottica essa non differisce in nulla dalla Chiesa, ma tuttavia v’è un aspetto che la porta a distinguersi da
essa. I cristiani, in quanto membri della Chiesa, formano una società religiosa
di essenza soprannaturale, però, in quanto esseri viventi, costituiscono una
società temporale e di conseguenza un popolo.
Tale
società temporale non si confonde con nessuno dei corpi politici esistenti ed
essa stessa non è un corpo politico. Un corpo politico è composto di uomini
uniti per il conseguimento immediato di fini temporali, con mezzi temporali.
Differente è, invece, il popolo cristiano, perché, anche se esso è una realtà temporale,
i suoi legami costitutivi sono temporali; si serve di mezzi temporali solo allo
scopo del perseguimento di fini spirituali. La Cristianità dunque, è
l’insieme di tutti i Cristiani che su questa terra collaborano ai fini
spirituali della Chiesa. Concepita in tal modo, la Cristianità non si può
confondere con l’Impero, perché essa include tutti i Cristiani al di fuori
dell’Impero. Perciò l’Impero è nella Cristianità.
Era
il superamento dell’ambiguità che pesava sulla nozione agostiniana delle due città
che si può cogliere nell’opera d’Ottone di Frisinga, scritta proprio nell’età
di Alessandro III. Ottone dice di aver intitolato il suo libro De duabus
civitatibus e d’averlo condotto fino 1146, ben
sapendo che dopo di lui la storia sarebbe continuata, perché la fine delle due
città coinciderà con la resurrezione dei morti, allorquando sarà distrutto
l’Impero Romano, ma non prima. Però, sviluppata la storia dell’Impero a partire
da Costantino, Ottone poi dichiara di non “aver fatto una storia delle due città,
ma virtualmente di una sola, che io chiamo la Chiesa. Perché anche se gli
eletti e i dannati si trovano in una stessa dimora, io non posso dire che
queste città siano due, come ho fatto in precedenza, io devo dire che esse ne
formano una soltanto, benché essa sia mischiata come il grano lo è con la
paglia.”
Era
un cambiamento di prospettiva di
radicale ed inequivocabile importanza e significato che definisce
l’assorbimento della città terrestre da parte della città di Dio e quindi della
Chiesa quale fu caratteristico del XII secolo. Non solo, quindi, veniva
superata la teoria gelasiana delle due spade, alla quale formalmente si
prestava a continuare ossequio, ma anche della teoria agostiniana delle due
città. un punto, questo, sul quale non
soltanto lo storico della filosofia o lo storico del pensiero politico deve
meditare, ma anche della “scatola vuota” dell’“etica economica”. L’assorbimento
della città terrena nella città celeste portava con sé conseguenze
notevolissime che è facile immaginare e che ben compresero gli uomini
dell’epoca. L’esistenza di due città comporta quella di due rispettivi
ordinamenti giuridici, di due autorità,
di due giurisdizioni, di due codici valori, ecc., pur se tra loro collegati. La
dichiarazione dell’esistenza d’una sola città, essendo stata l’una delle due
assorbita, dà luogo ovviamente all’unicità di ordinamento, autorità,
giurisdizione. La norma che statuisce il comportamento è quella
dell’ordinamento della Chiesa; l’autorità che la emana e la fa vedere è il
Sommo Pontefice, il quale è anche giudice che risolve la controversia e
ristabilisce l’ordine turbato dal comportamento illecito, naturalmente illecito
secondo il precetto della norma della città celeste.
Della
Cristianitas profondamente rinnovata il
Papa era veramente e definitivamente il giudice supremo, il capo teocratico.
L’azione centralizzatrice si manifestava ormai in tutti i settori della vita e della
Chiesa. Da ciò discendeva, come logica ed interna conseguenza, che unicamente
coloro i quali erano qualificati potevano determinare e stabilire con certezza
che cosa fosse e che cosa non fosse male in un mondo cristiano. Solo il Papa
poteva pronunciare ciò che era male e ciò che non lo era. Per dare esecuzione
alla definizione papale del bene e del male i mezzi erano le leggi (decreta). Queste dal punto di vista formale erano, pertanto,
norme giuridiche, ma dal punto di vista del contento - e ciò va sempre tenuto
presente – erano concetti ideologici tradotti in legge. Le decretali erano,
insomma, una “teologia applicata”. In altri termini, “la legge papale non era
altro che la trasformazione della pura
dottrina (teologica) in una norma vincolante d’azione[4].”
Se
cosi è, allora, lo storico che voglia
registrare ed interpretare tutte le proposizioni della precettistica economica
della Chiesa che erano riferite a quello specifico contesto economico
medievale, non deve arrestarsi alle sole opere, grandi quanto si voglia, di
teologi e teologi giuristi, ma deve anche tenere conto e capire il senso
letterale e la ratio di tutte le norme,
che furono tantissime, prodotte dai pontefici per indicare agli uomini regole
di comportamento valide nella città celeste. Per questa via la storia del
pensiero economico si arricchisce e si completa di informazioni le quali, insieme
alle altre, rappresentano nella sua totalità e originalità il pensiero della
Chiesa in ordine ai comportamenti economici che essa voleva limitati e
ristretti in spazi angusti, perché non fosse messo in discussione il fondamento
sul quale poggiava l’ordinamento sociale ed economico che assicurava
l’esistenza della città celeste quale essa la concepiva.
IV
Sono state quelle fin qui svolte
riflessioni abbozzate e rapidamente esposte relative ai criteri metodologici
necessari per finalmente porre mano ad una storia della fonte del pensiero
economico che, liberata da schemi di scuola e da pregiudizi ideologici e
confessionali, possa servire alla ricostruzione oggettiva dei mutamenti profondi
di natura istituzionale, sociale e culturale, prodottisi tra l’XI e il XV secolo,
durante i quali si opposero, in un conflitto talvolta cruento forze della
conservazione e forze nuove e rivoluzionarie: la società feudale, nella sua
fissità e staticità, e la società emergente della borghesia mercantile ed
imprenditoriale dinamica e vitale delle fresche e giovanili energie. Si
urtavano in una cosciente lotta per il diritto alla vita il vecchio ordine
fondato su un tipo d’economia che accentrava nelle mani di pochi la ricchezza
prodotta dalla terra latifondisticamente e feudalmente posseduta ed il nuovo
ordine che esigeva e reclamava le sue pretese sotto la spinta irrefrenabile di
forme nuove di produzione della ricchezza.
Borghesi,
mercanti, artigiani, lavoratori liberi s’impegnarono in un luogo arco di tempo
nello sforzo, che alla distanza diede i suoi frutti positivi, di opporre alla
ricchezza immobiliare, terriera e fondiaria, e perciò alle istituzioni
giuridiche, politiche ed economiche a quella connesse, la forza e la novità della ricchezza mobiliare, frutto
dell’ingegno, dell’operosità, dell’audacia, dello spirito di intrapresa e di
sacrificio degli uomini fabbri della loro fortuna. Si opponevano agli antichi
rapporti intersoggettivi e agli antichi valori che li sorreggevano, nuovi rapporti
e nuovi valori: non più relazioni di sovra e sott’ordinazione, da padrone a servo,
da libero a non libero, ma rapporti tra eguali, tra uomini egualmente liberi.
Ė in un tale complesso
e contraddittorio quadro, dai toni ora
foschi ora luminosi - i quali richiederebbero una più minuta e precisa rappresentazione
- che vanno cercati con occhio vigile ed esperto, attento alle più tenui
sfumature, i segni primitivi e primigeni che sviluppati nei secoli successivi
formeranno, dopo un paziente e costante lavoro di giuristi, filosofi, scrittori,
politici, l’insieme organico che prenderà il nome di economia politica, la cui trama
può essere immaginata come formata da una infinità di punti ciascuno dei quali
è stato prodotto da tanti autori i più diversi per formazione culturale e
temperamento, i quali, per ciò stesso, a qualche titolo, hanno diritto ad
essere presenti in una storia delle fonti del pensiero economico. Ed è anche il
caso di Alessandro III.
V
Questo
grande pontefice finora è stato oggetto dell’attenzione degli storici della Chiesa,
degli storici del diritto, e non poteva essere diversamente per l’incidenza
della sua azione politica e per l’importanza del suo pensiero giuridico, ma mai,
a quanto ci risulti, dell’attenzione e dell’interesse dello storico delle idee
economiche. Ė vero che ogni lavoro che si rispetti sulla storia della
vexata quaestio che fu l’“usura” nel Medio
Evo rinvia sia all’opera del canonista di Rolando Bandinelli che a quella sua
di pontefice e più precisamente ai canoni del grande Concilio Laterano III del 1179,
ma ciò non è sufficiente a inficiare la nostra affermazione. Dal punto di vista
di una storia delle idee e dei processi economici ci pare che sia mancato
finora il tentativo di considerare nell’effettualità ed incidenza il ruolo che
Alessandro III ebbe nello schieramento di posizioni dottrinali ed ideologiche in
confitto, tanto come canonista che come pontefice.
Ė stato detto da uno
dei più attenti storici dell’opera di Rolando Bandinelli che alla storia della
Chiesa questi impresse una svolta fondamentale. Orbene, se ci si rende conto
che tale svolta non fu senza influenza sulle parti del conflitto in atto - la feudalità
è la borghesia - cioè, come già detto, tra l’ordine economico che poggiava
sulla proprietà immobiliare e sul feudo e quello innovativo che si realizzava
grazie alla ricchezza mobiliare, ai traffici, agli scambi, al denaro ed al
credito, allora per centrale o marginale che possa essere stato il pensiero di
Alessandro III in ordine alle questioni all’epoca dibattute circa la moneta,
gli scambi, l’“usura”, l’opera sua sia di canonista che da pontefice non può
essere ignorata o trascurata quando si studiano i fatti e le idee prodottisi
prima e dopo il suo regno, specie quando si pensi a quello che fu per
importanza e significato il Concilio Laterano III voluto e presieduto da lui con
autorità e prestigio sommi.
VI
Per
rendere più chiaro ed esplicito quanto ora affermato, basti meditare sul fatto
che il pontificato di Alessandro III rappresenta un punto mediano tra quelli di
Gregorio VII e d’Innocenzo III, ognuno dei quali scrisse un grande capitolo della
storia della Chiesa nel Medio Evo. La riforma gregoriana era stata certamente
l’alta espressione del rinnovamento interno, religioso e morale, della comunità
cristiana, ma anche l’inizio della politica “ierocratica” condensata nelle 27
proposizioni del Dictatus papae di
Ildebrando, che non si limitavano nel loro insieme a proclamare l’indipendenza
del papato e della Chiesa di fronte ai poteri laici, ma dovranno servire a
costituire anche e soprattutto una teocrazia pontificia. Il potere di Cristo a
Pietro di legare e di sciogliere non doveva rimanere una semplice formula
teologica: doveva essere esercitato nella realtà quotidiana. Poiché il
pontefice ha ricevuto da Cristo, attraverso il primo degli Apostoli, il potere
di sciogliere e di legare nella sfera spirituale, a maggior ragione egli ha
tale potere nella temporale che a quella è inferiore, perché più imperfetta
come lo è il corpo rispetto all’anima. Ogni papa perché è Papa, è santo e
perciò le sue decisioni sono infallibili.
Tali
affermazioni di Gregorio VII esaltavano la funzione spirituale della Chiesa quale
potestà d’ordine. In quanto potestà d’ordine, la Chiesa romana aveva il
diritto d’essere arbitra della vita morale europea e questa sua funzione spirituale
non poteva tollerare opposizioni e contestazioni. L’età gregoriana, più di ogni
altra che l’ha preceduta, esprime questa decisa volontà di “regolare” tutta la
società e di penetrarla del suo ideale. Cristianizzare la società per Gregorio
VII e i suoi sostenitori voleva dire clericizzare il mondo laico o, come ebbe a
dire sant’Anselmo d’Aosta, “totum mundum in eremum convertere”. Ora, se riflettiamo che proprio in quegli stessi anni
della fine dell’XI secolo cominciava larvatamente, ma non per questo meno
vigorosamente, a prendere forma e consistenza un autonomo spirito laico in
concomitanza con il sorgere della borghesia e l’affermarsi del mondo del
commercio e dei traffici, appare - ci
sembra - sufficientemente chiaro che la riforma gregoriana non poteva
non interessarsi di quello spirito laico e della morale mondana e - diciamo
pure il termine - economica che s’andava codificando se non in opposizione
quanto meno a lato di quella ufficiale, ortodossa e cristiana. Erano i primi
segni, già percettibili, d’una antitesi che nel tempo si sarebbe fatta sempre
più radicale tra due “visioni” o - se si vuole - tra due “ideologie”:
metafisica, teologica, ierocratica, l’una, terrena, filosofica, democratica
l’altra. Naturalmente, la prima relegava nella sfera del peccato ogni
comportamento motivato da spirito di lucro per modesto che fosse; la seconda non solo attivava questo spirito
di lucro, ma mirava a dare ad esso un fondamento di legittimità, sottraendolo
in ogni modo al giudizio ed al potere di controllo della Chiesa. Ė dal confronto dialettico di queste ideologie che
l’economia lentamente acquista una sua connotazione propria e si libera dalle
ipoteche che su di essa faceva gravare la teologia.
Quanto
ciò sia esatto lo si riscontra nell’azione e nell’opera d’Innocenzo III che portò
alle estreme conseguenze il pensiero dei suoi grandi predecessori, Gregorio VII
appunto ed Alessandro III. Se Ildebrando
di Soana si era contentato di essere il
vicario di Pietro, per Innocenzo III il pontefice
è il vicario di Cristo e persino di Dio. In quanto tale, il papa sulla terra dispone
di una autorità assoluta e universale. Oltre che universale, la giurisdizione
sua è anche immediata.
Con
fine abilità di politico e di giurista Innocenzo III riuscì ad affermare il
programma del papato e ne realizzò le profonde aspirazioni a divenire l’unica
istituzione europea alla quale fare riferimento
per tutto quanto riguardava le questioni religiose, morali, politiche,
sociali. Il papato era il motore d’una società omogenea, la Cristianità , la cui
base ideologica era la fede cristiana da esso predicata. Acuto giurista e fine
uomo politico, tuttavia egli non affrontò apertamente e palesemente il problema
del rapporto tra potere spirituale e potere temporale. Evitò sempre qualsiasi
accenno diretto ed esplicito alla supremazia del primo, lo spirituale; sul
secondo, il temporale, almeno formalmente, ma sostanzialmente lo affermò con l’elegante
ed onnicomprensiva formula che ratione peccati il papa ha il diritto ed il dovere d’intervenire
nelle questioni temporali; quindi, il pontefice ha il diritto di decidere
relativamente alle materie in cui in qualche modo entri il comportamento
peccaminoso, non potendosi mettere in dubbio che la giurisdizione su tale
questione appartenga legittimamente a lui. Per tale via Innocenzo III aprì un
varco che gli consentì di conoscere tutte le questioni temporali e venne cosi a
realizzare nella sostanza un assoluto potere giurisdizionale, come ben comprese
Cino da Pistoia - il grande giurista laico e poeta amico carissimo di Dante -
il quale dirà, di lì a non molto ripetendo un giudizio d’Accursio, che la Chiesa “ratione peccati” aveva usurpato tutta la giurisdizione. Innocenzo III basava la plenitudo
potestatis sul presupposto che il peccato distrugge
la società cristiana. Dunque, ogni volta che v’era peccato entrava in gioco la
giurisdizione della Chiesa. Ratione peccati
questa aveva diritto d’intervenire come arbitra di ogni disputa, fosse essa
spirituale o secolare.
Fu
in nome di questo formidabile e sottile principio che la
S. Sede , sola interprete e vigile custode
della legge morale cristiana, intervenne per disciplinare tutti i comportamenti
economici ed i rapporti intersoggettivi di scambio, che il nascente capitalismo
nella sua espressione di potere impersonale - e perciò estraneo alla tradizione
della Chiesa cristiana - andava realizzando.
In
quanto potere “impersonale” - contrariamente a tutte le forme di potere - il
potere economico capitalistico non può essere regolamentato eticamente. Il
potere “impersonale” - economicamente razionale ma appunto perciò eticamente
irrazionale - delle relazioni economiche finisce per urtare - e non può essere
diversamente nelle religioni come quella cattolica - contro una profonda diffidenza
più o meno espressa, ma sempre chiaramente sentita. In altri termini, mentre
una relazione semplicemente personale, di qualsivoglia genere, può venire regolata
eticamente, l’oggettivazione dell’economia
sulla base dell’associazione di mercato - ed era quello che stava avvenendo al
tempo di Alessandro III – segue, ha scritto M. Weber, la “sua propria legalità
di fatto, la cui inosservanza comporta l’insuccesso economico, e, alla lunga,
il fallimento del commercio”.
Ci
sembra di poter affermare che è su questo punto che la storia della Chiesa medievale
in generale e quella personale d’Alessandro III in particolare si collega alla
storia delle idee sociali ed economiche. Il non tenere conto di ciò dà luogo -
come ha dato luogo - ad una storiografia agiografica, eccellente quanto si
vuole, che però altera la fisionomia degli avvenimenti storici e misinterpreta il
processo di idee come pure la genesi di ideologie destinate nel corso dei
secoli ad incidere nelle coscienze dell’uomo occidentale. Se cosi è, come crediamo
che sia, nessuna meraviglia che anche lo storico delle idee economiche e
sociali che sia riuscito consapevolmente a pervenire alle sorgenti del metaforico
fiume che trasporta le idee e le dottrine da lui studiate, non solo ha titolo legittimo
per occuparsi di decretali, concili, summe teologiche e manuali per confessori,
ma pure, e soprattutto, il dovere di studiare attentamente le connessioni tra
gli aspetti spirituali e temporali dell’azione della Chiesa, quando questi
hanno significato univoco e inequivocabile ai fini della conoscenza e della
interpretazione dei fatti materiali e delle enunciazioni giuridiche e
dottrinali che furono espressioni specifiche dell’opposizione e resistenza
della Chiesa nella sua totalità ai modi di essere e d’esprimersi del potere
impersonale delle nuove forme d’agire economico.
Non ha senso - o forse ne ha uno per quelli che sono interessati a produrre una
storia “ideologizzata” o “confessionale”
- trattare di fatti o di autori dell’epoca in questione, isolandoli dal contesto degli avvenimenti e dai movimenti di
pensiero coevi. Non ha valore, o ne ha uno molto ridotto, studiare la storia
dell’“usura”, come da molti egregi storici è stato fatto, senza un rapporto con
la storia della Chiesa, da una parte, per esempio, e dei comuni italiani, dall’altra,
e dei conflitti che opposero questi a quella, oppure ignorando la storia della
teologia o delle traduzioni e delle interpretazioni della Bibbia nel Medio Evo,
o ancora la storia dei Concili.
Inoltre, perché le ragioni e gli obiettivi della precettistica
giuridico-economica, della quale quella dell’“usura” è una parte importante, possano
risultare in tutta la loro espressione ed estensione, dobbiamo evitare di “omogeneizzare”
secoli di storia e perciò considerali come tutti eguali tra loro, almeno dal
punto di vista dalla storia delle idee sociali ed economiche, come invece
spesso si fa. Altrimenti, si corre il rischio di non collegare le differenze,
che ci furono e notevoli, tra eventi e personaggi storici, con la conseguenza o
d’ignorare o di sottovalutare il contributo di taluni di loro, stemperandosi
cosi nel grigiore dell’appiattimento e dell’anonimato la peculiarità e la
individualità loro.
Per
esempio - ed è un esempio autorevole - leggendo le pagine scritte dal Le Bras
per la Storia Economica di Cambridge si finisce
per intendere quel che non fu realmente, perché in esse il discorso storico è
svolto secondo un modulo monocorde che tutto livella e minimizza. Perciò, ad
accettare la sintesi storica dell’autore francese diventa difficile dare valore
e peso all’opera di Alessandro III, perché non si fa distinzione tra un prius
e un posterius tra i quali la riforma gregoriana fa da spartiacque.
Ugualmente si vanifica il valore dell’opera d’Alessandro III se accogliamo la
tesi di quei medievisti che possono solo pensare che qualcuno possa trovare
strano “che la preoccupazione di tanti canonisti e teologi si sia polarizzata
per secoli su di un aspetto apparentemente secondario della vita economica.”
Altro
che strano, altro che secondario! Semmai è strano, per non dire sospetto, il
tentativo di minimizzare un capitolo della storia delle idee che agli storici
di tendenza “romantica” ancora risulta
scomodo come ai tempi della polemica dalla quale si dovette difendere nel
Settecento Scipione Maffei. Indubbiamente “pesa in questo la traduzione antica
della storiografia ecclesiastica, nata come historia salutis, e
perciò inevitabilmente apologetica, e pesa anche il fatto che per gran parte i
suoi cultori muovono da posizioni e da interessi puramente personali.” Osserva il
Miccoli, del quale sono le ultime parole, che chi parte dal presupposto dell’identificazione
della storia della Chiesa con la historia
salutis “potrà forse essere mosso dal
desiderio di escludere da tale storia, mascherando il loro vero carattere,
fatti e vicende introdottisi surrettiziamente in essa. Resta forte però il
rischio di continuare a capire assai poco e di creare solo confusione ed
equivoci[5].
Se,
senza sovrapporre l’idea attuale della Chiesa alla Chiesa reale del passato, si
storicizzano gli avvenimenti di quest’ultima grazie ad uno sforzo sempre più
approfondito ed articolato, si avverte che la controversia intorno all’“usura”
non fu un fatto secondario, come si vorrebbe far credere. Dire che la storia
dell’“usura,” cioè la storia dell’opposizione della Chiesa alle forme economiche
moderne di acquisizione della ricchezza, è secondaria, significa distogliere l’attenzione
dalle asprezze del conflitto cui diede luogo. Fu quella invece storia
complessa, che solo una storiografia di
maniera e “ripetitiva” ha potuto stereotipizzare e travisare, tramandando ed
accreditando una visione dei fatti e delle idee non poco edulcorata, la quale
ha confuso la causa con l’effetto e ha fatto degli autori racchiusi in 13
secoli di pensiero cristiano tutto un unico fascio.
Per
capire le intenzioni di papi quali Gregorio VII, Alessandro III, Innocenzo III
e Gregorio IX, Innocenzo IV, per citare i maggiori, o di teologi quali san
Tommaso o Egidio Colonna, per esempio, e di canonisti come l’Ostiense, dobbiamo
denunciare un tale modo di fare la storia e ciò è possibile interpretando ed
esponendo i fatti nella loro corretta successione storica in connessione con
tutti gli altri fatti coevi.
VII
Orbene i fatti ci dicono che vi fu un primo periodo della
storia della Chiesa - che va fino all’800, in cui essa, sotto l’influenza del
pensiero di sant’Ambrogio, sant’Agostino, papa Gelasio I, cercò un rapporto
equilibrato con il potere politico e la realtà mondana. Il principio filosofico
che stava a fondamento di tale deduzione pratica, conforme all’insegnamento di
sant’Agostino, fu che la distinzione tra spirituale e temporale costituisce
parte essenziale della fede cristiana e perciò deve essere norma di ogni
governo che segua la legge cristiana. In tal lungo periodo, pur condannando,
sulla base dell’Antico Testamento, per bocca dei suoi teologi le forme
dichiarate di lucro, non prende ufficialmente posizione salvo che per l’attività
degli ecclesiastici. Così il Concilio di Nicea (325) nel cui canone XVII si
legge esplicita la condanna dell’”usura” praticata dai religiosi. Solo degli
ecclesiastici parla anche l’altro concilio tenuto contemporaneamente ad Arles,
pure da Graziano introdotto nel suo Decretum. I concili posteriori a quello di Nicea, cioè il concilio di Laodicea,
che generalmente si ritiene tenuto nel 372, il concilio di Cartagine, 397, e il
secondo concilio di Arles, forse nel 443,
rinnovarono soltanto il divieto agli ecclesiastici di praticare il
prestito, Parimenti il concilio di Tarragona del 516; anche il canone che
Graziano cita ex concilio Martini papae
non fa che confermare il divieto del concilio di Nicea diretto contro gli
ecclesiastici.
Dopo
l’800 qualcosa cambia. L’impero carolingio rappresenta un interludio di breve
durata nel quale, si badi bene, la
Chiesa sposta a suo favore il rapporto. Alcuino poteva dire
in termini superbi: “Sacerdotum [est] verba Dei non tacere. Vestrum est o
princeps, humiliter obedire diligenter implere.” Il nono secolo si chiude con
il pontificato di Nicola I, che spesso è stato presentato come il primo difensore
di quella che venne chiamata - a torto secondo alcuni - la teocrazia medievale.
Ebbene proprio nel nono secolo, in coincidenza sintomatica con il primo tentativo
di affermazione della concezione
teocratica si hanno concili locali che vietano anche ai laici l’attività di
prestito: così il concilio di Costanza (814), Parigi (829), Pavia (850).
La
crisi dell’Impero carolingio rischiò di metter in pericolo la stessa Chiesa. I
tristi secoli che seguirono furono veramente travagliati fino a quando, recuperando
le sue energie migliori, essa non diede vita a quella potente riscossa che fu la
riforma gregoriana, alla quale abbiamo già fatto cenno, e dalla quale prese via
la grande lotta tra le forze spirituali e quelle temporali laiche.
Se
nel IX secolo s’era attuato il progetto d’una società nella quale la Chiesa fosse di fatto e di
diritto la potenza prima e direttiva della respublica christianorum, esso sembrò all’epoca di Ildebrando fattibile,
anche perchè il patrimonio prodotto a partire dal IX secolo non era andato
disperso. Era sempre presente la grande lezione di Incmaro di Reims il quale
aveva scritto: “Si difendano pure, se vogliono colle leggi terrene o con le
consuetudini umane; ma sappiano, se sono cristiani, che del giorno del giudizio
non dalla legge romana saranno giudicati né da quella salica, ma dalla legge
divina apostolica. In un regno cristiano anche le leggi dello Stato dovrebbero essere
cristiane, conformi cioè al cristianesimo e ad esso proprie.
Il
risveglio del IX secolo non fu che un bagliore; ma frattanto nella Chiesa stavano
avvenendo trasformazioni tali che rendevano più effettive le pretese dello
Stato cristiano quando sopravvenne il risveglio più duraturo dell’XI secolo.
Erano, queste, trasformazioni che interessavano in parte l’accentramento
dell’autorità papale e l’organizzazione ecclesiastica, in parte la maggior
serietà e partecipazione degli ecclesiastici alla ricerca dell’ideale
cristiano. La prima di queste trasformazioni è legata alla creazione nel nono
secolo delle false decretali pseudoisidoriane, la seconda alle riforme
cluniacensi del decimo, Le false decretali non ebbero la diretta intenzione
d’esaltare l’autorità papale, né s’ottenne immediatamente un tale effetto, ma
nell’XI secolo, tuttavia, quando le false decretali erano credute autentiche,
esse offrirono “una miniera di argomentazioni per l’indipendenza della Chiesa
dal controllo secolare e per l’autorità sovrana del papa nel governo
ecclesiastico.” Il secondo fatto, del quale abbiamo già parlato, che vale ad accrescere
dapprima il desiderio d’autonomia della Chiesa e poi l’estensione totalizzante -
secondo gli auspici di Incmaro di Rems - delle leggi cristiane a tutte le forme
ed espressioni della vita, fu il movimento di riforma cluniacense al quale
seguì tutto un processo di rinnovamento in sede filosofica e giuridica.
Non
si possono ignorare questi tre momenti della storia millenaria, nel progressivo
moto espansionistico della Chiesa, lungo lo spazio di tempo che va dall’editto
di Costantino fino a tutto il XIV secolo - un millennio circa - quando si
studiano gli aspetti politici più generali come quelli specificamente di
pensiero ed ideologici. In ciascuno di questi tre momenti fu peculiare il
rapporto che la Chiesa
stabilì con il mondo temporale e laico; perciò, in essi fu parimenti peculiare
la riflessione della Chiesa sulle questioni economiche, pur su un fondo di
sostanziale coerenza. Non sappiamo se altri abbiano già detto queste cose e se
perciò sia stato messo in rilievo come la dinamica delle relazioni tra il
potere spirituale ed il potere temporale abbia influito sulle soluzioni
relative alle questioni che chiamiamo genericamente economiche. Non ci risulta,
anche perché la quasi totalità delle opere che s’occupano dell’argomento
sogliono far partire la loro analisi dall’XI secolo, forse perché in questo si ha un
generale risveglio economico come anche la vigorosa rifioritura degli studi. Il
punto di partenza sono stati il Decretum
di Graziano e le Sentenze di Pietro Lombardo,
come pure le prime opere dei decretisti, sulla base dei lavori dei quali si è
finito poi per rappresentare genericamente tutto il periodo precedente.
Ė questo un errore di
prospettiva storica almeno per due motivi. Il primo, per noi di grande importanza,
è che le stesse definizioni e gli stessi
concetti in tempi ed in contesti socio- economici diversi finiscono per
significare cose diverse. Per esempio, san Girolamo si serve di versetti del
Levitico allo stesso modo di un Alessandro Bonini, ma i risultati sono diversi
anche le intenzioni lo stesso. Ora, il fatto che l’uno e l’alto utilizzino le
stesse fonti - Levitico, Esodo, Ezechiele,
ecc. - può fare pensare - come è accaduto - a identità di posizioni e di
visioni, il che non è, per la ragione che differente, profondamente differente,
fu il contesto storico nel quale visse l’uno e l’altro autore, come diverso fu
il programma politico della Chiesa nel V e nel XIV secolo.
Il
secondo motivo fu che il Papato, a partire dall’XI secolo si pose la
realizzazione di un obiettivo - connaturato alla sua essenza – che, come s’è
già detto, pur presente in tempi precedenti per ragioni storiche non poté
essere reso esplicito, cioè la realizzazione d’un potere ierocratico. Tale
programma massimale (che vide impegnati pontefici quali Gregorio VII,
Alessandro III, Innocenzo III, Innocenzo IV, Bonifacio VIII) era la deduzione
peculiare delle legge cristiana. La dottrina del potere ierocratico si
risolveva in una pretesa di sovranità universale, per cui il papa diventava il
capo di tutto il sistema giuridico e fonte dello stesso.
La letteratura teologica di san
Bonaventura, san Tommaso, Egidio Colonna, Giacomo da Viterbo, e si badi proprio
coloro sui quali s’è soffermata superficialmente l’attenzione degli storici
dell’economia, furono gli stessi che contribuirono a dare fondamento alla
concezione del potere ierocratico. Basterebbe quest’ultima nostra affermazione
ad offrire, come oggi si ama dire, una chiave di lettura della letteratura economica
del basso Medio Evo per tanta parte strettamente e indissolubilmente
compenetrata con la letteratura politica ierocratica. Se ci fosse possibile
coniare un’etichetta, per tale genere di letteratura, considera nella sua
globalità, preferiremmo parlare di “ierocratismo economico” perché meglio e più
dell’equivoca espressione “etica economica” coglie tutte le connessioni con i
processi politici in atto e con le finalità di questi secondo i progetti imperialistici
del papato bassomedievale.
VIII
Dello
ierocratismo economico - cosi da noi
definito - Alessandro III fu certamente un grande artefice e uno dei più
autorevoli rappresentanti, che seppe dare coerenza e organicità alle formulazioni
innovative prodotte a partire dalla riforma gregoriana in coincidenza con il
risveglio economico alla vigilia della “rivoluzione commerciale.”
Fu,
infatti, verso 1050 che nella precettistica economica della Chiesa si risvegliò
un significativo mutamento di rotta. Intorno al 1066 Anselmo d’Aosta nella sua
collezione di canoni fu il primo a trattare in modo specifico l’usura come un peccato
contro il settimo comandamento ed a chiedere la restituzione delle “usure”
considerate al pari di merci rubate. Fu, comunque, nel 1139 il Concilio
Laterano II - con l’autorità e il prestigio propri d’un concilio ecumenico -
per la prima volta estese anche ai laici il divieto di praticare l’“usura”. Esso
formulò - in un periodo estremamente significato della storia politica del
papato - il primo decreto esplicito di proibizione universale emanato da un
collegio episcopale avente l’autorità assoluta di concilio generale
infallibile. Fu anche il primo Concilio che dichiarò l’“usura” condannata sia
dal Vecchio che dal Nuovo Testamento.
Se
i divieti e le condanne avessero avuto per specifico oggetto l’attività “usuraria”
in senso stretto - cioè la riscossione di interessi esorbitanti e iugulatori -
non v’è dubbio che essi sarebbero stati fondati e avrebbero avuta una decisa funzione
moralizzatrice. In verità - e proprio
Alessandro III ci fornisce gli elementi
utili di intepretazione - il termine “usura” aveva una più ampia latitudine di
significato e comprendeva forme di
prestito che usurarie non erano, mentre
si collocavano sullo stesso piano della vera e propria usura attese e forme di guadagno
e profitto oggi perfettamente lecite. Cosi nello Stroma di Rolando Bandinelli si
legge, alla Distinctio XLVII: “De usuris et usuris “De et temporalibus lucris deservientibus et de cupidis.”
Nella
sua Summa Rolando, commentando la famosa
quaestio III e IV della Causa XIV del Decretum di Graziano, riconferma quanto già detto da Anselmo d’Aosta che l’“usura”
è peccato: “Nullicet peccatum mortale
committere: usuram autem exiger peccatum mortale est: non ergo licet usuram
exigere.” Dove egli accetta la definizione di Graziano di “usura” come
qualunque cosa, quindi anche di levissima entità, aggiunta al capitale ricevuto
in prestito, col che anche un interesse dell’1% diveniva usurario (come di lì a
poco specificherà Rolando da Cremona). Ma poi senza darsi la pena di valutare
il problema dal punto di vista della filosofica morale, seguendo Graziano, il
canonista Bandinelli ammetteva l’eccezione che i laici possano prestare a “usura”
agli eretici, agli infedeli e in generale a tutti coloro che apertamente
attaccano o comunque minacciano la
Chiesa.
Se
in sede di Summa il contributo di
Bandinelli non è notevole né rimarchevole, limitandosi egli a sistemare il
materiale fino allora prodotto, non altrettanto può dirsi della produzione normativa
sua quale pontefice. Ė stato detto con
fondamento che merito d’Alessandro III fu di dare forza di legge al contenuto
del Decretum di Graziano.
La
primitiva e in qualche misura semplicistica precettistica del Decretum si trasforma anche grazie - se non soprattutto -
alle sue decretali che tentano di dare soluzioni ai problemi sempre più
complessi posti alla Chiesa dal risveglio economico dell’XI e XII secolo.
Per
sottrarsi alle regole rigide che il papato andava elaborando, ed alle loro
gravi sanzioni, gli uomini
dell’epoca, specie delle fiorenti e dinamiche città italiane, escogitarono
forme di contratto che mascheravano il prestito e ciò anche per sottrarlo al
giudizio dei tribunali ecclesiastici. Era così da tempo divenuto normale contratto
che il prestatore d’una somma di denaro si facesse dare in pegno dal debitore
un bene immobile del quale percepiva i relativi frutti. Alessandro III,
attentissimo ai fenomeni giuridici nuovi, nel 1163, tenendo il Concilio di
Tours, stabilì che i frutti del pegno dovevano essere imputati al capitale,
tenuto contro delle spese di produzione. Concetto ribadito in una lettera
all’arcivescovo di Canterbury con la quale vincolava tutti sia ecclesiastici
che laici.
Il
sospetto che l’“usura” potesse venire simulata e perciò disattesa la
proibizione canonica preoccupò Alessandro III che finì per dare la soluzione
più restrittiva anche alla compra-vendita a termine, a proposito di un quesito
postogli dall’arcivescovo di Genova. Non v’è chi non sappia cosa significò la
città ligure per lo sviluppo dell’economia italiana del basso Medio Evo e cosa
rappresentò il credito nel processo della rivoluzione commerciale. La celebre In
Civitate, così chiamata dalle prime parole, che
sarebbe stata inserita da Bernaldo Baldi (da Pavia) nella Compilatio Prima e da Gregorio IX nelle Decretali, sarebbe divenuta oggetto per tutto il restante
Medio Evo di attenti commenti da parte di canonisti e teologi. In essa
Alessandro III non giunse a definire il contratto a termine come usurario; le
variazioni del prezzo di mercato possono lasciare un dubbio sul valore di
scambio della cosa al momento del pagamento; però - qui sta il punto - se non
v’è tale dubbio i contraenti incorrono in peccato (“nihilominus tamen veditores
peccatum incurrunt, nisi dubium est, merces illos plus minusve solutionis tempore
valituros”).
Altre volte il contratto
di prestito era confermato dal giuramento del debitore: questi giurava di
pagare gli interessi (“usurae”) ed al
tempo stesso di rinunciare a valersi delle sanzioni previste dal diritto
canonico. Ė ancora una volta Alessandro III a risolvere drasticamente
l’imbarazzante questione. La Decretale
Debitoreres (Decr
L. II, tit. XXIV, de jerejurando, c. 6) dice che il debitore, legato a Dio dal
suo giuramento, è tenuto a pagare ciò che ha promesso, onde essere liberato dal
credito; però, pagati gli interessi, il creditore deve, se necessario, essere
costretto dal rigore ecclesiastico a restituirli. Questo della restituzione era
un capitolo importantissimo di tutta la complessa e tormentata tematica, a cui
Alessandro III darà il suo sempre fondamentale contributo, sostenendo in una
lettera all’arcivescovo di Salerno, posteriore al 1179, che coloro i quali
estorsero le “usure” sono costretti a restituire a quelli ai quali le
estorsero; la sanzione egli la estese, in una lettera all’arcivescovo di
Piacenza, anche agli eredi del creditore, fossero parenti o no.
Ė comunque
nell’importante Concilio Laterano III del 1179 - canone 25 - riportato quindi nelle
Decretali, che Alessandro III, confermando
la condanna del Laterano II, tradisce, se così possiamo dire, le reali, seppure
inespresse, motivazioni dell’atteggiamento assunto dal Papato ierocratico nei
confronti della vexata quaestio, che
sono essenzialmente motivazioni d’ordine economico e sociale. Il canone 25
afferma nella sua prima parte: “Quia in omnibus fere locis ita crimen usurarum
invaluit ut multi, aliis negotiis praetermissis, quasi licite usuras exerceant, et qualiter utriusque testamenti pagina condemnentur nequaquam attendat, ideo
etc.” Chiaramente - non sappiamo se altri l’abbiano già rilevato. Alessandro
III, impegnato a consolidare la politica ierocratica esprime la preoccupazione
del Papato circa gli effetti sia economici che sociali derivanti dal
trasferimento di forze lavorative dal settore dell’agricoltura e delle attività
tradizionali verso le più remunerative anche se rischiose forme di guadagno
derivanti dall’esercizio del credito (usurario e non).
Gli
strumenti per cogliere la ratio
autentica di questo importantissimo canone di Alessandro III ci sono forniti
dai canonisti e dai teologi posteriori i
quali più e meglio di noi potevano comprenderne il significato e l’estensione e
perciò gettare luce chiara su quello che abbiamo chiamato “ierocratismo
economico.” Una prima lezione ce la dà il
grandissimo Innocenzo IV che della politica di Alessandro III fu il più
rigoroso conseguente continuatore. Sinibaldo dè Fieschi, anch’egli sommo
canonista, colpendo più vigorosamente l’”usura” esternò espressamente il suo
timore per l’abbandono delle campagne da parte di quanti cercavano forme più
lucrative di guadagno. Fu una linea di
pensiero che continuò fino al Quattrocento, come dimostra il cardinale
Francesco Zabarella il quale senza mezzi termini, quando ormai il capitalismo commerciale
aveva dato i suoi frutti, condannerà l’agricoltore che preferisce piuttosto
prestare il suo denaro, per ottenere un maggior profitto, che investirlo nella
terra, “ac sic non curaret homines seminare seu metere, ac ex hoc fame frustraremur,
ac fames mundum devastarent.” Dove si vede - all’interno di una continuità di
pensiero - la cui fonte primigenia è nella decretatale d’Alessandro III che le
ragioni di ordine teologico, morale e religioso non erano le sole a motivare la
precettistica economica, o se si vuole l’“etica economa,” ma anche, se non
soprattutto, quelle materiali ed economiche connesse alla conservazione e alla
stabilità delle società feudo-fondiaria e ripartita nella tre classi dei “sacerdotes,”
“bellatores” ed “agricoltores.”
Che
i pericoli avvertiti da Alessandro III - e dopo di lui da una lunga schiera di
canonisti e teologi - fossero attuali e reali, che il potere impersonale e irrazionale
dell’economia del profitto stesse mettendo in crisi l’ordine tradizionale
fondato sul potere personale e razionale (richiamando lo schema weberiano sopra
descritto) il Papato lo accertava oltre che dai fatti e dai comportamenti invidividuali
e di massa, che esso decisamente condannava, anche dagli ordinamenti giuridici che
i Comuni, specie italiani, si davano e nei quali non soltanto veniva affermata
la loro autonomia, ma soprattutto erano normativamente fissate le regole che
disciplinavano i rapporti intersoggettivi, fondate su un principio di sovranità
assoggettava tutti, laici ed ecclesiastici, al potere politico senza ammettere
immunità o esenzioni da gravami fiscali.
Si
comprende facilmente allora l’ostilità del Papato e della letteratura
ecclesiastica verso le città mercantili e borghesi e l’opposizione di queste
verso le ingerenze del potere ecclesiastico negli affari temporali e nella
disciplina di materie, quali le
economiche, da quelle città ritenute di propria esclusiva competenza. A Milano,
per esempio, il podestà aveva rivendicato alla sua giurisdizione le cause che
interessavano le “usure” e le decime, nonostante i divieti dei Concili
Lateranensi e specie del Terzo, quello appunto presieduto da Alessandro III, il
cui canone 29 proibiva l’imposizione di oneri fiscali a carico degli
ecclesiastici. Mentre il regime feudale aveva accettato le immunità reali di cui
gli ecclesiastici godevano, le città, invece, avevano preso coscienza dell’esclusività
dei loro diritti sovrani. Ma l’aspetto economico era più urgente e pressante di
quello politico. Al riparo delle loro immunità i chierici facevano concorrenza
ai mercanti ed artigiani borghesi. Perciò i Comuni fiamminghi lottarono con
feroce energia per la soppressione della case abbaziali e claustrali che
vendevano in franchigia i loro prodotti. Fu cosi che nelle città si manifestò
la volontà di sottomettere gli ecclesiastici al potere pubblico. La copiosa decretalistica d’Alessandro
III, è ricca di ingiunzioni rivolte ai poteri pubblici perché desistessero dalla
loro linea di condotta lesiva degli interessi dei membri della Chiesa. A metà
del Duecento Odofredo Denari, il grande giurista laico, proprio riferendosi al
canone 29 voluto da papa Bandinelli al Concilio Laterano III, dirà che le città
italiane non volevano sentire parlare delle disposizioni in quel canone come in
altri simili contenute, fermamente decise a sottomettere anche gli
ecclesiastici alla sovranità fiscale del potere
pubblico: “civitates (...) nolunt hec verba audire imo congunt ecclesias
et clericos solvere collectas.”
Non
è perciò difficile comprendere perché i comuni divenissero bersaglio dell’establishment ecclesiastico. In alcuni casi la parola “comune” veniva
persino usata in senso dispregiativo; dirà un contemporaneo d’Alessandro III: “commune
autem novum ac pessimum nomen.” L’avversione ecclesiastica verso il libero
comune cittadino, e tutto ciò che esso rappresenta, trova nel XII secolo la sua
legittimazione nel pericolo che la società di popolo rappresenta per il primato
ecclesiologico; poiché, come ha scritto G. Volpe[6],
in quell’epoca operano, più vigorosamente che altrove, da una parte il popolo
che si rinnova socialmente, vario, mobile, appassionato, pieno di contrasti,
capace e voglioso di mettere il proprio suggello su tutto l’ordinamento civile
e chiesastico; dall’altro la
Chiesa che mira ad una sistemazione gerarchica sempre più
rigida, identificandosi col papato e con la Curia romana; che vuole essere interprete e
maestra esclusiva delle verità religiose; che è immersa nella politica e nelle
gare dei partiti; che considera beni, giurisdizioni, potenza terrena come
inerenti all’ufficio pastorale, assimilati a questo e protetti con le stesse
armi.” Sono essi due mondo che hanno “fini propri, propri intessi e abiti mentali
e intuizioni del divino. Tendono ad organizza ognuno per sé, escludendo o
limitando ognuno l’ingerenza dell’altro nel proprio cerchio. Antitesi
insanabili si sprigionano ogni giorno dal loro operoso sforzo di vita, d’ordine
morale e dottrinario, politico ed economico.” Antitesi che noi, a distanza di
otto secoli, possiamo tanto meglio capire ed intepretare quanto più
intelligibili ci si fanno anche la figura e l’opera sia di canonista che di
pontefice, di Rolando Bandinelli.
Estratto dal volume in bozze:
Alessandro III papa nell’ottavo centenario della morte. Civita Castellana, Forte Sangallo, 1981. Atti del Convegno.
Trascrizione di Ilenia Ranfi
Bozze e impaginazione di Alfredo Romano
Biblioteca Comunale di Civita Castellana, 28 ottobre 2013
[1]
Cfr.: O. Nuccio, Una questione attuale
di alcuni secoli: la indicizzazione (breve
excursus storico analitico), in «Rivista di Politica Economica», novembre 1981.
[2] Non si fa torto a nessuno dicendo che non v’è un
lavoro storico seriamente scientifico, sistematico ed esaustivo sulla storia
delle teorie monetarie, che copra il periodo che va dal XII secolo alla
Rivoluzione francese. Discreto, ma lacunoso è il vecchio lavoro di A. E. Monroe
(Monetary Thory before Adam Smith);
insufficiente è pure il lavoro di R. Gonnard (Histoire des doctrines
monetaires, ecc.). La storiografia italiana, se
si fa eccezione di taluni ottimi studi di caratteri giuridico, quali quelli di
Ascarelli e Grossi, non ha data, incredibile a dirsi, ricerche storiche ed
analitico-economiche degne di particolare considerazione, trattandosi, anche
nella letteratura specificatamente storico-economica più recente, di mere e
superficiali rassegne su taluni noti monetaristi, e perciò di poca o nulla
utilità.
[3] Cfr.; O. Nuccio, L’Homo oeconomicus di Poggio Bracciolini (nel VI centenario della
nascita), in “Rivista di Politica Economica”, giugno 1980.
[4] Per questa parte abbiamo seguito soprattutto le
ottime lezioni contenute nei lavori magistrali di W. Ullmann, tra i quali
citiamo: Principi di governo e politica nel medioevo, trad. it., Bologna 1972, passim.
[5] Cfr.: G. Miccoli, La storia religiosa, in Storia d’Italia, vol. II: Dalla caduta
dell’Impero romano al secolo XVIII, parte
prima, Torino, Einaudi.
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