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martedì 14 dicembre 2010

Gavallotti Cavallero, Il territorio a destra della Via Flaminia: Civita Castellana


GUIDA BREVE AI MONUMENTI DI ETA’ MEDIOEVALE E MODERNA
Di Daniela Gallavotti Cavallero
 
IL TERRITORIO A DESTRA DELLA VIA FLAMINIA
Civita Castellana
 
Gli abitanti dell’antica città falisca di Falerii Veteres si trasferirono, dopo la distruzione operata nel 241 dai Romani, in un sito adiacente, poi denominato Falerii Novi. Qui rimasero fino all’alto medioevo allorché, divenuto il luogo insicuro per le razzie dei barbari, ritornarono nell’insediamento originario. Questo, nell’VIII secolo, aveva preso il nome di Civita, cui si aggiunse poi l’aggettivo Castellana, la cui prima menzione è del 998, per il ruolo dominante sulle postazioni fortificate dei dintorni. Gli stessi vescovi della città si nominavano nei concili con l’attributo “Castellani”.
Le prime manifestazioni architettoniche che provano la rinnovata vitalità dell’abitato sono le chiese rupestri di Sant’Ippolito, San Cesariano (o Cesareo) e San Selmo.
Posta sulla via Flaminia e ultimo centro importante prima dell’arrivo a Roma, Civita Castellana partecipò delle vicende di Roma. Feudo dei di Vico, fu occupata nel 1240 da Federico II, ma nel 1266 ritornava agli antichi signori che la reggevano in nome del pontefice. Ebbe poi le mura restaurate e nuove torri per opera di Bonifacio VIII.
Alla metà del Trecento Giovanni di Vico vendette Civita Castellana ai Savelli ma già nel 1357 la conquistava il cardinale Egidio d’Albornoz. Dopo altre vicissitudini tornò nel 1426 nelle mani del pontefice Eugenio IV. Questi, come i pontefici che gli succedettero, ne affidò il governo a cardinali, fra i quali va ricordato Rodrigo Borgia, il futuro Alessandro VI, al quale si deve la costruzione della possente rocca sangallesca.
Il sacco di Roma non risparmiò Civita Castellana, che nel 1527 venne razziata dai lanzichenecchi, e quello stesso anno, il 27 di novembre, consegnata da Clemente VII a Carlo V.
Anche le vicende dell’impero napoleonico prima e dell’annessione al regno d’Italia poi non furono lievi per Civita Castellana, che fu la prima città occupata nel 1870.

Civita Castellana si raggiunge con l’autostrada del Sole uscendo al casello di Magliano Sabina. Si prende quindi la SS n. 3 Flaminia in direzione sud per km 13 e di qui la SS n. 311 per km 2.
Si percorrono le profonde gole corrose dal torrente Treja prima di raggiungere lo sperone lungo il quale si snoda l’abitato (fig. 76). Le prime manifestazioni architettoniche che provano la vitalità di Civita Castellana dopo le invasioni barbariche sono, come abbiamo già detto, le chiese rupestri di Sant’Ippolito, San Cesariano (o Cesareo) e San Selmo. La localizzazione di questi edifici ricalca quella di alcune costruzioni falische e comunque si avvale delle stesse protezioni naturali: San Cesareo sull’altura del colle del Vignale, nel nucleo originario di Falerii, Sant’Ippolito sulla dorsale discendente verso est (sotto lo sperone di tufo su cui si trova attualmente l’ospedale civico) e San Selmo vicino al santuario di Giunone sul colle di Celle. Tutte e tre le chiese si sviluppano secondo il medesimo schema, articolandosi in diversi vani. Furono centri monastici e di eremitaggio, probabilmente dipendenti dal centro benedettino del Soratte e furono forse aperti anche al culto degli abitanti del luogo. In San Cesareo, infatti, è presente nel terreno una cavità in guisa di primitivo fonte battesimale.
Pur essendo circoscritta al periodo altomedioevale, la datazione dei tre luoghi di culto è incerta. Sant’Ippolito è assai manomessa dalla costruzione della strada provinciale e da quella dell’ospedale. E’ costituita di vari ambienti, il primo dei quali conserva tracce di affreschi tardi e guasti. San Cesareo, che sorge a duecento metri da Sant’Ippolito, è composta di cinque ambienti in fila a copertura piana, sorretti al centro da un pilastro. Ebbe forse una prima destinazione cimiteriale, indicata dalla presenza di sepolcri ad arcosolio. Divenne quindi oratorio, come indicano gli affreschi, ormai svaniti, risalenti al secolo XIII. Un’epigrafe ora scomparsa (Ughelli, I, 598) ricordava la consacrazione di due nuovi altari in San Cesareo nel 1210, durante il pontificato di Innocenzo III. Assai meglio conservata è la chiesa di San Selmo, che sfrutta una grande cavità a triangolo irregolare con vari anfratti. Si articola su due livelli: nel vano superiore vi sono tombe a camera con loculi sovrapposti di epoca falisca, in quello inferiore è un pozzo profondo due metri. Le pareti sono adorne di affreschi deperiti e manomessi: una rozza Crocifissione del secolo XIV e un gruppo di tre Santi fra i quali è riconoscibile Santa Caterina d’Alessandria. La testa del Salvatore sul pilastro del primo ambiente è l’elemento di maggior interesse poiché mostra affinità con il Cristo di Sutri e indica che il cenobio di San Selmo era agli inizi del Duecento attivo e culturalmente partecipe delle manifestazioni artistiche e religiose del territorio.
Non va a questo proposito dimenticato che nella Tuscia sono numerosissimi gli insediamenti rupestri.

Si entra in città dal luogo in cui si apriva la porta Falisca e si prende la lunga via Ferretti. Sulla destra è la chiesa di Santa Chiara, ora di Santa Maria delle Grazie e incorporata all’ospedale. E’ di impianto medioevale ma la facciata, come indica anche la data sul portale, è cinquecentesca e l’interno è barocco. Di fronte, rialzata sulla via, è l’abside romanica di Sant’Antonio che conserva all’interno un affresco rinascimentale con la Crocifissione e Santi. Sui due telamoni, murati fino agli inizi del secolo sotto il portico del duomo e comunque provenienti dalla chiesa di San Francesco, sono visibili due iscrizioni: sul lato sinistro Teneas cative iuta me, su quello destro Non possum quia crepo. Qualche studioso di Dante ritiene che il poeta possa essersi ispirato a questo marmo quando, nel canto decimo del Purgatorio (vv. 136 – 139) descrive la pena dei superbi, costretti a reggere enormi sassi, e fa dire a uno di loro “più non posso”.
Continuando lungo la via Ferretti, sulla destra si incontra Santa Maria del Carmine, già dell’Arco, tradizionalmente ritenuta la prima cattedrale di Civita Castellana e comunque uno dei primi edifici religiosi della città (figg. 77 – 78). Più volte rifatta, conserva un impianto riferibile ai secoli VII – IX, nel quale sono incorporate parti di edifici romani. Del periodo medioevale conserva il campanile a bifore del secolo XII e l’interno a tre navate divise da colonne scanalate di spoglio, come gli stessi capitelli. E’ interessante la copertura a capriate lignee della navata centrale, e a voltine a crociera nelle navate laterali, ora comunque di restauro. La chiesa è stata pesantemente alterata nel 1579. A causa della scarsità di sopravvivenze architettoniche medioevali nell’abitato, la chiesa del Carmine costituisce un’importante testimonianza per le tangenze tipologiche con la contemporanea edilizia romana e umbra. Il campanile, ad esempio, con la decorazione a modiglioni e denti di sega è affine a quelli del duomo di Nepi, della cattedrale di Narni, della chiesa di San Silvestro a Orte e dello stesso duomo di Civita Castellana. All’interno, la presenza di un’unica abside e la mancanza del transetto la accomunano all’aula romana di San Martino ai Monti, eretta tra l’847 e l’855. All’esterno, la chiesa è priva dell’originaria muratura in grandi blocchi di tufo, superstite solo alla base del campanile. Era preceduta da un atrio, ora alterato, ridotto e sistemato a giardino. Le lastre a decorazioni zoomorfe che si trovano nell’atrio, nel campanile e all’interno confermano la datazione al IX secolo.
Lungo la via Ferretti, poco oltre sorge il palazzo Petroni Trocchi eretto tra la fine del Cinquecento e gli inizi del secolo successivo.
Si giunge quindi alla piazza Matteotti, già piazza del Prato, sulla quale si affacciavano edifici porticati eretti per conservarvi derrate alimentari, poi trasformati in case di abitazione. Sulla piazza prospetta il palazzo Comunale eretto per volere di Leone X agli inizi del Cinquecento e più volte modificato. La facciata, privata dell’antica torre campanaria, è del 1854, ma sul largo Cavour è visibile la costruzione originaria.
Sulla stessa piazza si affaccia anche la chiesa duecentesca di San Pietro, a volte indicata come San Francesco per essere stato il convento attiguo a lungo retto dai francescani. L’interno, ripristinato nel Settecento, custodisce opere d’arte come il tabernacolo marmoreo dietro l’altar maggiore, opera fiorentina del secondo Quattrocento; al primo altare a sinistra è una tavola del senese Sano di Pietro raffigurante San Bernardino; al secondo altare a destra è collocata l’Adorazione del Bambino, di Antoniazzo Romano.
Al centro della piazza Matteotti è una bella fontana secentesca decorata con i grifi araldici di Gregorio XIII, durante il cui pontificato il cardinale Filippo Boncompagni eresse un acquedotto di cui resta memoria nella lapide marmorea posta a lato della fontana.
Dalla piazza Matteotti si dipartono le strade che conducono alla chiesa di San Gregorio (via della Tribuna), al ponte Clementino (via XII Settembre), al duomo (via Garibaldi).
Di qui la via Roma conduce alla rocca.
La piccola chiesa di San Gregorio, databile ai secoli XI – XII e restaurata in tempi recenti, conserva il campanile e l’abside affini a quelli di Santa Maria di Falleri, della basilica di Sant’Elia e dello stesso duomo di Civita Castellana. L’interno è a tre navate a croce egizia, con alto transetto e tre absidi. Conserva resti di affreschi quattrocenteschi.
Il ponte Clementino, eretto nel 1709 per volontà di Clemente XI, aprì all’andamento longitudinale di Civita Castellana una diramazione trasversale che, attraversando uno dei valloni tufacei, collegava il centro antico con i nuovi insediamenti. La forma attuale non è quella originaria, avendo sofferto nel 1861 della piena del Rio Maggiore e avendo quindi subito un rifacimento. La struttura settecentesca era costituita da sei arcate superiori e quattro inferiori, alte al culmine quarantotto metri. Dalla parte esterna, verso Quadamello, l’ingresso avveniva attraverso una torre. Studi recenti hanno individuato nei documenti il nome dell’autore, l’architetto romano Filippo Barigioni, che altre fabbriche in Roma aveva eseguito per il pontefice Clemente XI.
Il duomo di Civita Castellana è situato all’estremità dell’abitato medioevale e lo conclude sull’orlo dello sperone tufaceo. L’esistenza di una sede episcopale a Civita Castellana è documentata fin dal IV secolo, in una lapide dell’871 conservata al museo Diocesano. Nel sito del duomo, fin dall’VIII – IX secolo, esisteva un luogo di culto, documentato da lastre marmoree riutilizzate nella cripta (figg. 79 – 80).
Nel secolo XII la città fu coinvolta nella lotta fra papi e antipapi che vi soggiornarono e ai quali si deve forse la ricostruzione della cattedrale.
Il duomo originario era a tre navate divise da pilastri e colonne secondo lo schema due colonne un pilastro, tre colonne un pilastro. Le colonne avevano capitelli di varia foggia, come del resto le arcate, sopra le quali correva un cornicione. Il presbiterio, sollevato, era chiuso da una balaustra di marmo e vi si accedeva da due scale laterali. L’antica impostazione planimetrica è meglio rilevabile all’esterno, dove sono visibili nelle absidi e sul fianco meridionale le murature a blocchetti di tufo legati da sottili strati di malta. Interamente rifatto è il transetto. Un’ipotesi critica vuole che fosse simile a quello della vicina San Gregorio.
Le tre absidi sono coronate da una serie di archetti a tutto sesto che racchiudono raffigurazioni zoomorfe, floreali e antropomorfe di origine settentrionale, presenti all’epoca anche in Toscana, in Abruzzo e nel Lazio. L’abside centrale è l’unica che, pur essendo circolare all’interno è poligonale all’esterno, con cinque setti raccordati fra loro da lesene con addossate semicolonne a tutta altezza. Questa soluzione è analoga a quella adottata qualche anno prima in Santa Maria in Falleri.
Le firme di Lorenzo e Jacopo compaiono sui portali. Si tratta degli stessi marmorari che avevano firmato, qualche anno prima, il portale di Santa Maria in Falleri e che si qualificano in quelli del duomo in maniera leggermente diversa (figg. 81 – 82 – 83). Il campanile occupa alla base la seconda cappella a sinistra: dopo le manomissioni settecentesche subì gravi danni, per i quali crollarono gli ultimi due piani, ricostruiti nei restauri del 1960. E’ in laterizio, con bifore a pilastri, cornici a denti di sega e più in alto a beccatelli, databile alla fine del XII – inizi del XIII secolo. Presenta affinità con quello coevo della chiesa romana di San Lorenzo fuori le mura.
Il duomo conserva la pavimentazione primitiva a tessere cosmatesche, alcune sculture e la cripta, interessante ambiente diviso in nove navate. Il portico antistante la facciata segna il completamento dei lavori, nel 1210. Nel portico del duomo sono raccolti numerosi frammenti di decorazione architettonica, epigrafi e sculture di età romana, in gran parte provenienti da Falerii Novi. Si segnala in particolare l’ara rotonda con scene di sacrificio della seconda metà del I sec. a.C.
Nel 1736 – 1740 l’edificio cultuale subì estesi interventi di restauro. In conseguenza di quelli è ora a una sola navata, con cappelle laterali comunicanti fra loro. La sopraelevazione della parte terminale delle navate risale allo stesso intervento. All’altare del transetto sinistro è una Madonna di Misericordia del secolo XV; a quello del transetto destro una Madonna con il Bambino, trecentesca. Nella sagrestia vecchia si conservano due plutei marmorei appartenenti all’originaria iconostasi con sfingi scolpite da Deodato e Luca, figli di Cosma II, datati al 1237. Appartengono alla chiesa romanica anche gli affreschi duecenteschi.

Si prenda la via Roma per raggiungere la rocca (fig. 84). I primi lavori per erigere il forte, sul luogo delle antiche mura castellane, sono documentati fra il 1494 e il ’97, allorché il pontefice Alessandro VI lo allogò ad Antonio da Sangallo il Vecchio. Nel 1499 l’architetto lavorava con Cola di Caprarola in qualità di faber lignarius, Perino da Caravaggio, Jacopo Donnasano e Jacopo Scotto. Durante il pontificato di Giulio II Antonio da Sangallo il Giovane continuò il lavoro dello zio. Di lui rimane il disegno 977 recto e verso agli Uffizi contenente l’abbozzo del perimetro attuale. Sue sarebbero la torre ottagona e la porta a bugnato rustico su cui è il nome di Giulio II. La paternità del cortile è stata invece dibattuta dalla critica fra i due Sangallo, il Vecchio (Venturi) e il Giovane (Giovannoni), anche se l’esecuzione, a volte scorretta, è dovuta a maestranze, fino a che è stato correttamente interpretato un documento conservato all’Archivio di Stato di Modena e datato 1500 e 1501, in base al quale l’attribuzione della paternità ad Antonio da Sangallo il Vecchio è indiscutibile. Lo stesso documento indica in Pier Matteo d’Amelia l’autore degli affreschi al piano terreno, nei quali appare ripetutamente il nome e l’insegna del papa Borgia.
La fortezza è un esempio di architettura difensiva di transizione, a seguito della diffusione delle armi da fuoco. E’ costituita da un alternarsi di cortine e bastioni, con grossi muri a scarpa. Agli angoli sono grosse torri, sia poligonali, sia circolari, non perfettamente adatte ai tiri incrociati. Al centro è un mastio ottagono alto ventiquattro metri. Dal ponte levatoio si accede alla Rotonda del corpo di guardia, con cammino monumentale. A sinistra è il Vestibolo, quindi il passaggio verso il terrazzo dei bastioni e il mastio. Dal Vestibolo si accede al primo cortile rettangolare. A sinistra è un ambiente che fu utilizzato nel secolo XIX, come obitorio, quando la rocca divenne carcere politico e fu pesantemente manomessa. Prima dell’unità d’Italia, tuttavia, nel 1846 Pio IX concesse un’amnistia che consentì la liberazione di molti dei prigionieri custoditivi. Al primo e al secondo piano sono ancora visibili alcune celle e, sempre al primo piano, lungo il fianco destro e con affaccio sull’invaso del mastio maggiore è l’appartamento papale, in cui soggiornarono Alessandro VI, Giulio II, Leone X, Adriano VI, Clemente VII, Paolo III, i cui nomi si leggono incisi sugli architravi delle porte. L’appartamento contiene tracce di decorazione a fresco nelle sale e nella cappella.
Il secondo cortile, o corte d’onore, è circondato da un porticato a doppio ordine. E’ questo il brano qualitativamente più cospicuo dell’intervento di Antonio da Sangallo il Vecchio, pur nell’esecuzione sciatta degli scalpellini. Il grande spazio rettangolare è delimitato da archi su pilastri inquadrati da lesene, doriche nel primo ordine e ioniche nel secondo. E’ evidente il richiamo a costruzioni romane come il Colosseo e il Teatro di Marcello e a monumenti quattrocenteschi, come il cortile di palazzo Venezia e la loggia delle Benedizioni in San Pietro. Tuttavia il Sangallo trasforma i rapporti reciproci degli elementi e le loro proporzioni in modo da porre l’opera come uno dei primi esempi di architettura cinquecentesca. Datato com’è al 1500 – 1501, il cortile sangallesco compete cronologicamente con il cortile del Bramante in Santa Maria della Pace a Roma, che fu peraltro terminato solo nel 1504. Eppure Bramante non si depura della tradizione quattrocentesca fino al punto in cui era giunto il Sangallo, al quale va ascritto, con l’opera civitonica, il primo affaccio formale nel nuovo secolo.
Le pareti e le volte sono ricoperte di affreschi, opera di Pier Matteo d’Amelia, in buono stato di conservazione. Al centro del cortile è un pozzo, la cui vera è formata da pezzi romani lavorati e commessi.
Una scala conduce alle terrazze dei bastioni da cui lo sguardo si estende sulla campagna fino al monte Soratte. Nel mastio è un piccolo cortile, e una loggetta a tre archi in corrispondenza del portico di accesso.
La rocca è stata restaurata negli anni Cinquanta. Era stata, infatti, ancora utilizzata come carcere negli anni fra Otto e Novecento. Durante e dopo la seconda guerra mondiale (1943 – 58) fu sede di sfollati, che la abitarono e ne coltivarono i bastioni a orto; attualmente è sede del museo Archeologico dell’Agro falisco.
Varcato il ponte Clementino e attraversato l’abitato di Quadamello, quartiere di Civita Castellana, si svolta a sinistra, si attraversa la ferrovia laziale Roma – Viterbo e la si costeggia. Dopo circa 6 km si incontra l’antico insediamento romano di Falerii Novi, circondato di belle mura. Dalla porta Giove si raggiunge la chiesa, ora diroccata, di Santa Maria di Falleri, che insieme all’adiacente abbazia, rappresenta il solo inserto medioevale nell’omogeneo tessuto romano (fig. 85).
Sorse forse sul sito dell’antica cattedrale, poi chiesa dell’abbazia benedettina, insediatasi nel 1036. I cistercensi vi sopraggiunsero nel 1143 o ’45. Un’epigrafe dipinta e molto restaurata conservata nell’ultima cappella del transetto ricorda la consacrazione di quattro altari nel 1186. La chiesa ha un paramento in tufo con aggetti in nenfro, decorato all’esterno da archetti su mensole, in gran parte perduti o di restauro e da semicolonne su paraste nell’abside centrale. Ha tre navate, un transetto sporgente coperto a botte con cinque cappelle semicircolari.
Come indica una lettera di Bonifacio IX il monastero fu soppresso nel 1392, dopo circa due secoli di attività. La visita apostolica del vescovo Pietro de Lunel, l’8 marzo 1571 la indica quasi distrutta. Il tetto crollò nel 1829. Oggi rimane soltanto la copertura a botte del transetto e, in parte, quella delle navate laterali.
E’ un esempio di architettura cistercense, nella quale sono aboliti gli elementi decorativi a favore della funzionalità dell’edificio. Non è casuale, bensì rispetta le regole architettoniche dell’ordine, il fatto che l’ingresso del convento sia in asse con la romana porta Giove e che la chiesa appoggi il suo transetto sul decumano dell’antico insediamento distrutto.
Non sono pochi i problemi cronologici legati all’edificio ecclesiale e soprattutto alla sua parte absidale. L’ipotesi che la pianta semicircolare delle absidi appartenesse al precedente insediamento benedettino, espressa da alcuni studiosi di scuola tedesca, è stata confutata dall’osservazione della morfologia delle cinque absidi, semicircolari ma disposte secondo moduli cistercensi come quelli della chiesa abbaziale di Flaran (1180 – 1220). La soluzione di raccordo fra il coro e la volta richiama quella dell’abbazia di Fontenay (1139 – 1147). Difficile è ipotizzare la copertura della navata centrale, poiché il sistema di pilastri alternativamente a sezione a croce e quadrata, sostituiti questi ultimi da colonne nelle due campate più prossime all’abside, giustifica sia una copertura a botte che a crociera. La facciata, coerente con lo stile austero, è decorata solo dalle membrature marmoree del portale di accesso. Queste ultime sono firmate sul montante sinistro dai marmorari romani Lorenzo e Jacopo. E’ una concessione alla loro origine l’elaboratezza dei capitelli e la lunetta ad arco ribassato, insieme al vertice a conchiglia della finestra absidale, memore di modelli arabi sul tipo di quello della Cuba a Palermo.

Da L’Agro Falisco. Di Maria Anna De Lucia Brolli. Contributi di Daniela Gavallotti e Maurizio Aiello. Collana: Guide territoriali dell’Etruria meridionale.
Roma: Quasar, 1991. [96-107] p. : ill.


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