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martedì 14 dicembre 2010

UNA TERRA NON PROTETTA: LE FORRE DEL TREIA



Copertina del libro


Una terra non protetta: Le forre del Treia.
Civita Castellana, Lega Ambiente [stampa Tipografia Punto Stampa di Civita Castellana], 1991.
219 p. : ill. ; 21 cm.
Collocazione: VECCHI LOC 24.14/TER

Summe deum, sancti custos Soractis Apollo,
quem primi colimus, quoi pineus ardor acervo
pascitur et medium freti pietate per ignem
cultores multa preminus vestigia pruna,
da, pater, hoc nostris aboleri dedecus armis,
omnipotens…  Virgilio, Eneide (XI, 785 – 790).

 
TESTI: Luigi Morganti, parte generale;  Gianluca Cerri, parte storica; Marco Cicconi, parte naturalistica;
Massimiliano Cicconi, illustrazioni.
CARTINE: Gianluca Cerri, Massimiliano Cicconi e Giorgio Grimaldi.
FOTOGRAFIE: Massimiliano Cicconi, Giorgio Grimaldi, Luigi Morgasnti e Luciano Primanni.
REDAZIONE TECNICA E COORDINAMENTO: Luigi Morganti.
COLLABORAZIONI: Alessandra Castellucci, Maria Vittoria Cavalieri, Luciano Primanni, Alessandra Ricci, Paola Rossi e Bianca Rossi Marcella.
SI RINGRAZIA: Luigi Cimarra, Stefania De Santis, Lega Ambiente del Lazio, Gruppo Archeologico Romano.

La stesura di quest'opera è stata possibile grazie alle attrezzature tecniche messe ma disposizione 
 dall'Interpro Engineering Consultants di Civita Castellana.

 



PREFAZIONE  
di Fabrizio Giovenale
(Comitato scientifico della Lega per l’Ambiente)

SAPER LEGGERE IL TERRITORIO: L’AREA DEL TREIA

       Dice l’ISTAT che in vent’anni, tra il 70 e il 90, la superficie agraria utilizzata in Italia è passata dal 69,8 al 66,4 %. Rispetto all’intero territorio nazionale s’è ridotta a meno della metà. Tra le cause principali: l’edilizia e le costruzioni di strade e autostrade. E si seguita a parlare di piani-casa, e dei 24.000 miliardi del piano autostradale Prandini…
       Che si tratti di un andazzo autodistruttivo e suicida, che si sia costruito e si vada costruendo e asfaltando al di là dei limiti di sopportazione del territorio, il fronte ambientalista lo va predicando da tempo. Antonio Cederna si sgola a ripetere che abbiamo costruito ormai il doppio di stanze rispetto ai nostri 57 milioni di abitanti, che abbiamo in giro un’auto ogni due persone, che è ora di darci una calmata… Cose sacrosante. E tuttavia troppi fatti vanno in direzione opposta e rischiano di peggiorare ancora la situazione al di là di ogni limite tollerabile.
       Nelle città le attività terziarie in vertiginosa espansione vanno occupando gli spazi abitativi centrali. D’altra parte sempre più gente da più parti del mondo è spinta dai propri guai a cercare asilo nel nostro paese creando altra domanda di alloggi e servizi, ed è dovere elementare di solidarietà umana offrir loro assistenza. Infine, i traffici in espansione e le disfunzioni ferroviarie vanno riversando quantità sempre maggiori di auto e Tir sulla rete stradale… Tutto questo fa si che ragionamenti urbanistici come quello di Cederna – legato ai soli bisogni di alloggio degli italiani – non bastino più.
       E allora? In base a quali criteri pianificare il territorio? Come salvarlo dal dilagare ulteriore delle costruzioni?
       La risposta c’è. E parte proprio dalla “lettura” del territorio stesso. Dalla constatazione lapalissiana che, perchè noialtri possiamo vivere, anche la Terra – la natura – deve vivere.
       Questo vuol dire che le alture devono esser protette dai manti boschivi contro erosioni e dissesti. Che il regime delle acque deve poter funzionare senza intoppi bacino per bacino, dagli spartiacque ai fondovalle, attraverso il lento filtraggio dalla vegetazione al terreno ed il deflusso non-ostacolato di torrenti e fiumi. Che le masse arboree devono mantenere forza e consistenza tali da purificare l’aria. E così via.
       Il che significa – sia chiaro – capovolgere i ragionamenti urbanistici tradizionali. Convincersi che, se non si salva la vitalità della Terra dalle manomissioni e dagli inquinamenti, nessun altro bisogno umano può essere soddisfatto, nessun altro programma ha senso. Vengono meno le condizioni indispensabili per vivere.
       E quindi: non partire dai bisogni di costruzione ma dai terreni che è indispensabile lasciar liberi. Intendere la pianificazione, di conseguenza, innanzitutto come conservazione e ripristino dei caratteri naturali (flora, fauna, assetti idrogeologici) e subordinare ad essi completamente il soddisfacimento dei bisogni umani attraverso le edificazioni. Usare e riusare le costruzioni esistenti, restaurare, rinnovare, “ricostruire il già costruito” piuttosto che occupare altre terre libere.
       E ancora: piantare alberi, re-integrare i manti arborei distrutti o depauperati, portare il verde negli abitati, tra la case. Dare così il nostro contributo alla “fabbrica d’ossigeno” della fotosintesi clorofillare, all’umidificazione dei microclimi locali, al libero evolversi delle interrelazioni vegetali e animali nella complessità del Sistema Vivente…
       Tutto questo richiede, appunto, di “saper leggere” il territorio. Idrologia, flora, fauna. Loro interrelazioni. Ma non solo.
       C’è l’opera dell’uomo. La storia. Dei popoli, dei loro modi di vivere, produrre, consumare. Dei loro costumi. Della loro cultura. Di come hanno saputo interpretare, lungo il corso dei millenni e dei secoli, i rapporti con l’evoluzione parallela degli scenari naturali.
   
      Bene, questa descrizione dell’area del fiume Treia e dei suoi problemi – intrapresa dal Circolo della Lega per l’Ambiente di Civita Castellana nell’alto Lazio – rappresenta un esempio eccellente, appunto, di “lettura del territorio”: dalla natura all’archeologia alla storia, su su fino ai problemi d’oggi, alle prospettive, ai suggerimenti per il che fare. Scritta con competenza, chiarezza, vivacità, consapevolezza spontanea delle interrelazioni. E con affetto profondo per quella realtà e quei luoghi.
       Se è vero (ed è vero anche troppo) che stiamo finendo soffocati dai nostri stessi rifiuti, che non possiamo più assolutamente fare a meno di drastici tagli alle attività generatrici dei rifiuti stessi, e che quindi dobbiamo necessariamente adoperarci per rimpiazzare certi valori quantitativi – legati ai modi attuali di consumare – con abitudini e attività basate su valori qualitativi… se è vero questo, indicazioni come gli itinerari archeologici e naturalistici proposti per l’area etrusco-falisca del Treia acquistano un grande valore.
       Sta proprio in cose come queste, a me sembra, il tipo di servizi che una formazione ambientalista può e deve offrire. A beneficio della collettività e del territorio.

INTRODUZIONE 
di Luigi Cimarra

Quasi una premessa…

Eravamo dèi silvestri, fauni fanciulli con l’incanto negli occhi e l’acqua, dove immergevamo il corpo ancora acerbo, era un’urna di trasparenze umbratili… un alito la brezza, appena percepita nel palpito argenteo dei pioppi svettanti sopra la galleria di vetrici… Il Treia… l’Albero Viola, un’infanzia magica, reversibile soltanto nella memoria.
Il tempo non concede recuperi… tutto scorre in un fluire perenne. Dove potremo ritrovare lembi incontaminati, per placare la nostra ansia in curve di silenzio e di riposo? Con i frantumi dei nostri sogni arrembanti potremo ricomporre la realtà? C’è ancora uno spazio nell’uomo per recuperare l’innocenza primordiale, l’utopia semplice della natura?
C’è la speranza ed è tenera di verde… Possiamo ritrovarci nel ritmo misurato della vita, rifiutando il tempo artificiale con il suo diagramma convulso ed impazzito. Esiste il tempo del fiore, dell’albero, della neve, dell’insetto, solo il tempo dell’uomo fa forzature.
Il tempo e questa nostra terra… immagini indelebili: il Soratte controluce, pietra che trafigge l’azzurro, la carezza calma dei Cimini, le fenditure perpendicolari delle forre, dove pulsano vene d’acqua sorgiva… il nume tutelare di Giunone Curite… si avverte ancora nel sentore d’ambrosia la sua presenza… la croce radiosa dei martiri… le spelonche, dove gli anacoreti maceravano in solitudine passioni e tormenti… ma le ferite inferte dall’uomo moderno, gli squarci nel tufo vivo, potranno rimarginare?
La via Amerina e le forre, un itinerario della storia, un percorso delle acque, presenze compatibili nel territorio, potranno essere salvaguardate? Sono le coordinate della nostra esistenza e della nostra esperienza, perchè l’avvenire sia di tutti e di ognuno… senza smarrirci.


LE FORRE DEL TREIA

       A valle della stretta di Orte, dopo aver ricevuto le acque del Nera, il fondovalle del Tevere si allarga gradatamente e, prima di compiere la grande ansa che si è dovuto aprire intorno al monte Soratte durante le prime eruzioni laviche del vulcano Sabatino, viene accresciuto, quasi nello stesso punto, a sinistra dall’Aia e a destra dal Treia. Questo luogo per secoli ha rappresentato il punto di contatto tra due importanti civiltà dell’Italia antica: quella Etrusco-Falisca, rivolta verso il mare, e quella Sabina rivolta verso le zone interne dell’Appennino.
       Il Treia è un modesto fiume a carattere torrentizio, che, dopo insignificanti origini alle falde dei crateri minori dell’apparato Sabatino, si ingrossa in fresche e limpide sorgenti e balza in pittoresche cascate. La più importante e celebrata è quella della mola di Montegelato, anche per la presenza di resti di costruzioni risalenti al medioevo: da questo punto il Treia inizia il suo vero e proprio corso, entrando nella stretta e profonda vallata, erosa nell’altipiano vulcanico, dove vi serpeggia per più di trenta chilometri prima di confluire nel Tevere, nei pressi del monte Soratte. Lungo il suo corso riceve le acque da innumerevoli affluenti, che scendono a raggiera dai monti Cimini e Sabatini; tra i maggiori sono da ricordare il Fosso della Mola, che scorre sotto l’abitato di Faleria; il Fosso del Cerreto, che si apre la strada nella sella che collega i due apparati vulcanici; il Fosso del Ponte, che ub medite da Sutri, tocca gli abitati di Nepi e Castel S. Elia; il Rio Vicano emissario del Lago di Vico; il Rio Maggiore, che da Caprarola giunge fino a Civita Castellana.
       Questo complesso sistema di corsi d’acqua formano un bacino idrografico piuttosto ampio, che storicamente coincide con la regione conosciuta come “Agro Falisco”, poiché era abitata da una popolazione preromana, i Falisci, di civiltà affine agli Etruschi, ma di origine e lingua Indoeuropea. Geograficamente è delimitato da una serie di colline che si aprono verso nord-est. La parte inferiore del bacino ha un andamento est-ovest, mentre la parte più alta tende verso nord-est. E’ in questo settore che si rinvengono i rilievi maggiori, quali la Macchia di Monterosi (m. 438), il Monte Roccaromana (m. 612) e il Monte Calvi appartenenti all’apparato vulcanico Sabatino; mentre il Poggio Cavaliere (m. 608), il Poggio Maggiore (m. 622) e il Monte San Rocco (m. 700) fanno parte del complesso Vicano.
       Nella parte inferiore del suo bacino, il Treia scorre essenzialmente verso nord, seguendo in senso inverso la direzione del primordiale corso del Tevere (Paleotiber), mentre, in prossimità dell’abitato di Civita Castellana, dopo il punto di convergenza degli affluenti più importanti, cambia bruscamente direzione, volgendosi verso est divagando con larghe anse in un’ampia valle prima di confluire nel Tevere.
       Una regione dominata dalla mutabile presenza del massiccio del monte Soratte, che si innalza con un aspetto estremamente tipico: quello di una grande isola calcarea che sovrasta il piatto paesaggio vulcanico che la circonda. Era la sede del Tempio di Soranus l’antico dio del Sole, che dall’alto protegge tutto l’Ager Faliscus. La sua mole solitaria ha colpito l’immaginazione di generazioni di poeti e di scrittori.
       Amministrativamente il bacino idrografico del Treia è compreso per la maggior parte nella provincia di Viterbo con i territori comunali di Bassano Romano, Calcata, Capranica, Caprarola, Castel S. Elia, Civita Castellana, Monterosi, Nepi, Ronciglione e Sutri. La parte restante comprende i comuni di Campagnano, Magliano Romano, Mazzano Romano, Rignano Flaminio e Sant’Oreste della provincia di Roma. Complessivamente la popolazione residente all’interno del bacino è di circa 60.000 abitanti e la sua estensione è di poco più di 500 chilometri quadrati.
       Tutto questo territorio oggi è sede di intense attività umane. L’utilizzazione prevalente è quella agricola. Le attività industriali sono concentrate nell’area che gravita intorno al comune di Civita Castellana. Altra attività molto diffusa e caratteristica è quella estrattiva, con la presenza di numerose cave di tufo, che in alcuni casi hanno modificato totalmente l’assetto originario del paesaggio.
       Per quanto riguarda gli aspetti colturali, si ha una netta divisione tra la parte alta del bacino e quella inferiore. Nella prima prevalgono i noccioleti e i castagneti, nella seconda i prati-pascoli e i seminativi. Un po’ ovunque sono distribuiti seminativi arborati, oliveti e vigneti. Nel territorio del comune di Nepi, dove maggiore è la disponibilità di acqua superficiale, è particolarmente praticata l’orticoltura. Tra tutte queste colture quella che presenta un maggiore impatto ambientale è il noccioleto, poiché, per poter utilizzare in modo più efficace le macchine aspiranti per la raccolta delle nocciole, vengono consumati notevoli quantitativi di diserbanti chimici, che, con il dilavamento del terreno, entrano nel ciclo dell’acqua.
       La ceramica è l’attività industriale più diffusa e il maggior problema derivato da questa produzione è l’inquinamento provocato dai residui chimici degli impasti, tra i quali desta molta preoccupazione la presenza del piombo e del cadmio. La quasi totalità delle industrie di ceramica è servita da impianti di depurazione delle acque di scarico, ma molto spesso non funzionano a dovere o nella peggiore delle ipotesi non vengono messi in funzione: di conseguenza si verifica, in alcuni fossi che defluiscono nel Treia, un preoccupante mutamento di colore dell’acqua, fino a diventare quasi bianca, causato dall’immissione diretta nelle condotte di scarico degli impasti ceramici non utilizzati o derivati dal lavaggio di locali e macchinari.
       L’inquinamento maggiore delle acque del bacino del Treia proviene dagli scarichi civili dei numerosi centri urbani che lo popolano. Le loro reti fognanti si riversano nei corsi d’acqua senza alcuna depurazione. Ormai da molti anni è entrata in vigore la legge per la tutela delle acque ( legge Merli), mettendo in evidenza una enorme contraddizione. Gli imprenditori privati risultano i più esposti e sono “costretti” a rispettare le leggi dello Stato, delle Regioni e i regolamenti Comunali di Igiene e Sanità, impiantando sistemi di depurazione delle acque, che gravano a fine anno sui bilanci delle piccole aziende. Gli Enti Pubblici, le USL, e i Comuni in primo luogo, sono quelli che nei fatti non le rispettano. Le Amministrazioni Comunali sono, nei fatti, i più grossi inquinatori del territorio. Il Treia e i fossi, che scorrono nelle immediate vicinanze degli abitati, sono stati ridotti da alcuni decenni, a delle vere e proprie fogne a cielo aperto.
       Un caso limite è rappresentato dal Centro storico di Calcata, che è privo di una vera e propria rete fognante ed ogni abitazione scarica direttamente nel sottostante fiume Treia. Quei “pezzi” di natura selvaggia, che si snodano sotto gli aggregati urbani dei centri del bacino del Treia e che un tempo hanno ispirato le visioni paesaggistiche dei pittori romantici in viaggio per Roma, oggi sono inaccessibili e pericolosi da visitare. Tra tutti vale da esempio il Rio Maggiore, che scorrendo sotto l’abitato di Civita Castellana, riceve un “carico” di fogne da sedicimila abitanti, una volta rigoglioso di vita acquatica, ormai è divenuto il regno incontrastato dei topi di fogna portatori di malattie infettive. Questo tipo di inquinamento mette in evidenza una situazione alquanto paradossale, che vede i Sindaci, come responsabili della salute pubblica, violare le Leggi esistenti in materia di tutela delle acque e di igiene ambientale. E’ una realtà non più sostenibile: diventa necessario adottare tutta una serie di provvedimenti intelligenti, capaci di salvaguardare l’integrità delle acque, come viene da tempo stabilito dalla legislazione esistente.
       Tra le trasformazioni indotte nel territorio dalla civiltà industriale ciò che appare più evidente è il mutamento subito dal paesaggio a causa dei vasti e profondi tagli di pareti verticali, alte decine di metri, operati dalle escavazioni del tufo. Intere colline sono state cancellate, vallecole intercollinari sono state colmate da cumuli di detriti, stravolgendo il regime idrogeologico. Sia nelle cave di origine più antica che in quelle dove l’attività estrattiva è cessata da poco, si nota uno stato di completo abbandono, con grave pregiudizio delle condizioni ambientali e igieniche. Molti di questi scavi si trovano a ridosso di nuclei abitati e vengono costantemente utilizzati per la deposizione di rifiuti di ogni genere. Anche se esiste una legge regionale che obbliga la bonifica delle cave, nessuna di quelle dismesse, è stata mai sanata. Questo fatto si ripercuote considerevolmente sulla degradazione dell’ambiente e sullo stato dell’inquinamento delle acque superficiali e sotterranee. Inoltre nella maggior parte delle cave oggi in funzione non viene effettuata la gradonatura delle scarpate, che permetterebbe il ripristino della vegetazione e assicurerebbe una migliore stabilità dei versanti, interessati da intense e grandi fratture, che provocano il distacco di enormi blocchi di roccia.
       Tuttavia, anche se questo vasto territorio è da considerarsi un ambiente fortemente antropizzato, si rinvengono ancora formazioni vegetali di tipo forestale molto interessanti, localizzate nella parte centrale del bacino del Treia, dove i corsi d’acqua, incidendo più o meno profondamente i depositi vulcanici, danno origine ad una serie di forre, che rappresentano l’unità morfologica di maggiore interesse naturalistico.
       Il paesaggio attraversato dal Treia appare, se visto da un’altura, come una distesa ampia e monotona, dominata dalla incontrastata dimensione orizzontale. Improvvisamente si aprono profonde spaccature, burroni ripidi e scoscesi. La continua ed inesorabile azione di erosione, prodotta da questi torrenti, sempre ricchi di acque in ogni stagione, ha formato alture tabulari, circoscritto penisole e isolato dorsali allungate tra due vallecole contigue e confluenti, determinando una morfologia, cui si è dovuta adattare la viabilità e, di conseguenza, gli insediamenti umani.
       Questo vasto tavolato è stato originato dalle poderose manifestazioni del vulcanesimo quaternario, che si è protratto fino in tempi relativamente recenti: fine del pleistocene (circa 60.000 anni fa). I materiali piroclastici hanno costituito dei ripiani declinanti dai centri eruttivi verso la periferia e il plateau vulcanico derivato è il frutto della demolizione operata dagli agenti atmosferici. Nei casi in cui i tufi si presentavano in formazioni incoerenti, gli agenti meteorici vi hanno agito in modo più intenso e questo tavolato, degradante verso il Tevere, è stato solcato da torrenti, in genere assai modesti, che nella parte centrale del bacino hanno scavato delle valli che assumono l’aspetto di vere e proprie forre. Le loro ripide pareti laterali sono l’indizio della “giovanilita” di questo paesaggio. Il fondo valle, dove sono messi a nudo gli strati più teneri pliocenici (argille, sabbie e conglomerati), è di solito ampio e piatto, molto di più di quello che ci si aspetterebbe da torrenti così modesti. I tufi, che costituiscono queste formazioni piroclastiche, sono di composizione molto diversa: tufi granulari, incoerenti o poco compatti, che offrono facile presa agli agenti atmosferici, talora litoidi come il caratteristico tufo da costruzione, chiamato “saxum quadratum” da Vitruvio, “il giallo a pomici nere”, noto anche come nenfro o  necrolito per le necropoli etrusche e falische scavate nella zona.
       Sulle ripide pareti tufacee sono state scolpite le necropoli e le dimore rupestri, caratteristica costante del paesaggio dell’Etruria Meridionale. Gli Etruschi e i Falisci trasformarono le rupi naturali in schiere di facciate architettoniche, creando delle vere e proprie città dei morti. L’operazione di scavo della roccia tufacea e il suo uso particolare ha rappresentato da sempre un archetipo del costruire e offre la immagine della continuità culturale delle popolazioni, che si sono avvicendate in questo territorio, e il loro modo di rapportarsi con l’ambiente naturale. Le forre del Treia e dei suoi affluenti rappresentano un paesaggio a sé stante e mettono in evidenza l’aspetto più tipico e selvaggio del cosiddetto “paesaggio etrusco”. Il fondo di queste vallate ancora oggi è occupato da una folta vegetazione, che, vista dall’alto, appare come un continuo e serpeggiante nastro verde.
       Se queste gole destano tuttora timore e stupore, non c’è da meravigliarsi se fosse di tali dimensioni abbiano creato suggestioni e animato fantasie tra gli antichi abitatori di queste terre. Le forre hanno avuto un’importanza fondamentale per tutta l’Etruria Meridionale e ne hanno condizionato la cultura. Le loro ramificazioni e interconnessioni costituiscono una specie di rete viaria urbana, un mondo sotterraneo che differisce nettamente dalla superficie esposta. Le forre ci trasmettono la sensazione di trovarsi “al di dentro”, ci riconducono alle forze generatrici della natura.
       Le valli del bacino del Treia furono abitate fin dalla più remota preistoria. Le prime dimore permanenti furono stabilite nelle grotte naturali incavate dai gorghi delle acque torrentizie, quando il livello dei fossi era più alto. Lungo i dirupi delle pareti tufacee se ne incontrano ancora numerose, isolate o a gruppi. In molte gli archeologici della fine dell’ottocento rinvennero utensili in pietra scheggiata e frammenti di vasi con segni di cottura. Il che dimostrò che furono abitate per un lungo periodo, che va dal neolitico all’inizio dell’età del ferro.
       Il primo vero e proprio villaggio risale al 1200 avanti Cristo ed era localizzato sotto la collina di Narce, proprio in riva al Treia. Da questo villaggio ebbe certamente origine la tribù dei Falisci, che, nel corso del tempo, si impadronì della regione del Treia, occupandola con tutta una serie di villaggi e dotandola di un efficace sistema viario congiunto a poderi agricoli. La celebre fertilità di questi suoli di origine vulcanica consentiva sia il pascolo che la coltivazione, i numerosi torrenti e le sorgenti garantivano abbondanti approviggionamenti di acqua, le foreste fornivano legna da ardere e foraggi, abbondavano i materiali da costruzione e le cave di argilla. L’agricoltore primitivo dell’Agro Falisco divenne ben presto abile nel perfezionare l’uso di tali risorse e nel sviluppare un tipo di cultura strettamente legata ai caratteri naturali del luogo.
       Il paesaggio è stato usato e trasformato attraverso passaggi graduali nel tempo, in modo da instaurare un rapporto equilibrato tra ambiente costruito e ambiente naturale.
       La funzione primaria delle forre fu quella di  matrice di luoghi ed i villaggi e le città beneficiarono di siti ben protetti in uno spazio identificato e delimitato dalle loro ramificazioni tra due fossi. E’ la cosiddetta “posizione etrusca”, inaccessibile sui due lati più lunghi e facilmente rinserrabile entro brevi mura sul lato più corto, dove era solitamente localizzata la porta d’accesso principale, che, attraverso una stradina tortuosa, incavata nella roccia, conduceva nella valle sottostante.
       L’Agro Falisco abbonda di siti naturali adatti alla edificazione di insediamenti fortificati. Molte sono le città e i villaggi che punteggiavano questo territorio, e tutte sempre in rapporto visivo con il Soratte e in collegamento diretto con il Tevere.
       Falerii, l’odierna Civita Castellana, anche se era la città più conosciuta e popolata, non era una vera e propria capitale ma rappresentava una specie di “primus inter pares”. Nepi, Sutri, Corchiano, Gallese, Narce erano le altre città più notevoli. Grotta Porciosa, Santa Bruna, Ponte del Ponte, La Rocchetta, Isola Conversina, Fogliano, Paterno, Filissano, Santa Maria, Castel d’Ischi, Castel Porciano, Castel S. Elia, Pizzo Iella erano comunità minori ma tuttavia abbastanza compatte da stabilirsi entro luoghi fortificati.
       La particolarità strutturale del territorio occupato dai Falisci ha condizionato il tipo di organizzazione sociale, basata su “pagi” semiautonomi tra di loro. Al contrario degli Etruschi non persero mai completamente il carattere di confederazione di comunità legate fra di loro da particolari vincoli di tipo culturale e religioso.
       Falerii, alta sopra uno sperone tufaceo ampio ed allungato, isolato tra le gole del Treia, del Rio Vicano e del Rio Maggiore, occupava il sito più ampio e protetto di tutto l’Agro Falisco. Per questi eccellenti motivi fu scelta per divenire la prima fra le città e la capitale riconosciuta della tribù dei Falisci, che assursero a dignità di nazione rappresentata nella dodecapoli Etrusca. Tale posizione si rivelò molto efficace nel momento di crisi determinato dalla politica espansionistica della città di Roma durante il primo periodo repubblicano. Il valoroso condottiero romano Furio Camillo, durante la campagna militare per la conquista delle città principali dell’Etruria, incontrò enormi difficoltà per occupare Falerii. A causa della sua posizione inespugnabile fu costretto a rimanere a lungo accampato fuori dalle mura, finché il tradimento di un maestro di scuola falisco gli consentì di togliere l’assedio ed ottenere una facile vittoria.
       L’insediamento di Falerii, dal punto di vista territoriale si qualificava come centro di “testata”. Era un caposaldo che dall’alto della sua fortezza naturale controllava la confluenza del Treia con il Tevere (di conseguenza anche il guado che permetteva di entrare in Sabina); era il punto terminale del percorso di crinale che partiva da Sutri. Questa città, che si qualificava come centro di “sella”, nel periodo di maggiore espansione della nazione etrusca, divenne il punto di passaggio obbligato dei percorsi che dal Tirreno conducevano all’entroterra appenninico.
       Il territorio controllato da Falerii era costituito da una fertile piana e più ad ovest dalla fitta vegetazione della Selva Cimina e forniva prodotti agricoli e legname in abbondanza, rappresentando una fonte di reddito non indifferente per tutta l’economia falisca.
       L’occupazione romana ebbe come conseguenza la distruzione di Falerii poiché il suo sito ben difeso, unito alla felice collocazione geografica ed a una fiorente economia, costituiva un fuoco di opposizione di inaccettabile pericolosità.
       Le città di Sutri e di Nepi vennero romanizzate e la popolazione residente negli altri centri venne dispersa nelle campagne.
       L’identità culturale del popolo falisco però rimase viva ed è testimoniata dal fatto che il suo più importante santuario, il tempio di Giunone Curite, nella valle a nord di Vignale, lungo il Rio Maggiore, fu venerato con solenni processioni ancora per molti secoli.
       La conquista romana portò a notevoli cambiamenti dando un’impronta duratura a tutto il territorio. Comparvero nuovi centri abitati, fu ampliata la rete stradale, nuovi terreni furono bonificati e utilizzati a fini agricoli. In poco più di due secoli i romani crearono un paesaggio completamente nuovo, destinato a persistere fino ai nostri giorni.
       Le più ragguardevoli testimonianze di questa epoca sono manifestate dalla città di Falerii Novi e dai resti della via Amerina. Di questa città, fondata ex-novo dagli urbanisti romani, secondo lo schema tipico della divisione in quarti lungo gli assi principali del cardo e del decumano massimo, restano visibili le poderose mura, dove ad intervalli regolari erano state disposte delle torri. Insieme a questo impianto difensivo della città, si sono conservate le porte, due delle quali risultano artisticamente lavorate. All’interno della cinta muraria si rinvengono solamente miseri resti di edifici, risalenti all’epoca romana, mentre la totalità della città giace sotto uno strato di più di due metri di terra. Nel secolo scorso, da alcuni antiquari romani e locali, sono stati fatti alcuni scavi che hanno portato alla luce bellissime statue, alcune delle quali sono esposte nel museo del Louvre. A Falerii Novi, come in tutte le città romane, vi erano stati innalzati maestosi templi, in onore delle antiche divinità falische, i cittadini potevano usufruire di un teatro, di un anfiteatro e delle terme, inoltre era abbellita da strade porticate e dal foro. Queste architetture non hanno ancora una esatta collocazione nella sua topografia. Solo da pochi anni un piccolo scavo ha individuato con sicurezza una parte del foro, all’incrocio dl cardo e del decumano massimo, ma ulteriori scavi potrebbero portare ad interessanti rinvenimenti.
Anche della via Amerina, importante strada consolare romana, che dalla Cassia conduceva ad Amelia quindi a Perugia, attraversando da sud verso nord l’Agro Falisco, restano notevoli testimonianze. Molti sono i resti dei ponti, tra i quali quello che scavalca il Fosso dei Tre Ponti è ancora ben conservato; diversi sono i tratti di strada che estituiscono in maniera quasi integrale la pavimentazione originaria; affascinanti sono le tagliate di tufo usate per attenuare il dislivello del terreno, dove molto spesso si possono ancora ammirare le necropoli con le tombe scavate alla maniera falisca e i mausolei di tipo romano, dedicati ai cittadini più illustri.
       Durante le invasioni “barbariche” i siti ben protetti dell’epoca preromana furono occupati nuovamente e la città fortificata con il castello furono gli elementi dominanti del paesaggio medioevale. Si tratta di città e villaggi ancora esistenti come Civita Castellana, Sutri, Nepi, Calcata, e di rovine abbandonate come Isola Conversina, Filissano, Castel Porciano, Castel Paterno, dove intono all’anno mille Ottone III, imperatore e re di Germania, stabilì il suo quartier generale sognando di restaurare l’Impero Romano, ma vi morì prematuramente.
       La struttura urbanistica di questi abitati era abbastanza semplice: una o due vie mediane longitudinali, attraversate da più strette vie trasversali; al centro, la piazza grande con la chiesa, il municipio e le abitazioni dei nobili; all’estremità, nella parte accessibile, era collocato il castello come baluardo difensivo sormontato da una torre di avvistamento.
       La loro architettura era ed è rimasta strettamente connessa al carattere naturale del territorio. Le case hanno di solito una forma prismatica elementare con tetto spiovente e appena prolungato al di fuori del muro esterno. Sono in genere raggruppate in maniera tale che non è facile distinguere le singole unità; hanno in comune la massa chiusa, e le finestre sono piccole e profondamente incassate entro le mura.
       Il materiale edilizio più diffuso è il tufo che compare in blocchi di colore variabile dal marrone al giallo. La malleabilità di questo materiale e le giunture irregolari dei blocchi fanno sì che gli edifici appaiono modellati, anziché costruiti, e l’effetto è ulteriormente accentuato dalle schiere continue e irregolari delle facciate. Le case così scaturite sembrano precisazioni delle forme naturali ed i paesi sono in genere situati in modo da sottolineare i lineamenti strutturali più salienti del paesaggio, quali i colli isolati e i promontori. Molti dei villaggi, occupati durante il medioevo, oggi non sono più abitati e le loro rovine si ergono nella campagna, a volte imponenti, a volte nascoste tra la vegetazione, che conferisce loro un carattere misterioso.
       In un’epoca di grandi sconvolgimenti, come il medioevo, era più sicuro abitare in posti piccoli e isolati. In epoche posteriori, una volta raggiunta una certa stabilità politica, questi luoghi furono abbandonati, perché lontani da importanti vie di comunicazione. Probabilmente è la stessa ragione che ha permesso, in epoca moderna, la conservazione di molte formazioni vegetali lungo le forre del Treia e dei suoi affluenti, terreni difficilmente utilizzabili per fini agricoli.
       Nelle spalle di tufo scoperte, dove questa roccia si infuoca nelle ore più calde della giornata, nidificano i passeri solitari, mentre la faina e il gatto selvatico riposano al sole sopra piccole spianate. Nelle cavità ricoperte da festoni di edera e di vitalba, si trovano il nido dell’allocco e del gufo e la tana invernale del ghiro. I ruderi dei villaggi e dei castelli offrono ripari ai tassi e alle volpi; nei fori dei muri nidificano i barbagianni. I grandi alberi, che si staccano dal fondo delle forre, e le crepe delle rocce più ripide permettono a rapaci come il falco lanario di nidificare. Le acque limpide di alcuni fossi ospitano il bel gambero di fiume, che, anche se si nasconde sotto i massi di tufo, è una facile preda notturna per la puzzola.
       Dentro queste vallate, al contrario di altre aree degradate e più densamente popolate del bacino, è ancora lecito parlare di fauna, sebbene corre il rischio di scomparire entro breve tempo.
       Le zone più interessanti dal punto di vista naturalistico sono quelle più distanti dai centri abitati. Una vastissima area, dove le erosioni si manifestano in tutta la loro straordinaria bellezza e dove anche la vegetazione si presenta in una condizione di assoluta naturalità per la scarsa presenza di interventi umani.
       Le formazioni vegetali caratteristiche del bacino del Treia sono rappresentate da quei popolamenti nei quali si mescolano alberi a foglie caduche con alberi sempreverdi, definiti dai botanici come boschi di transizione di querceti misti. Tali boschi sono chiaramente il risultato dell’incontro tra la flora delle regioni continentali dell’interno con quella del mondo mediterraneo, proteso verso il mare. Nella prima tipologia rientrano quegli alberi che hanno sviluppato la loro capacità di resistere alla fredda stagione invernale con la dormienza e la perdita delle foglie. Mentre la seconda si caratterizza per la presenza di specie con foglie persistenti e dure, atte a resistere all’aridità e alla calura estiva.
       Le direttrici, lungo le quali si snodano i graduali cambiamenti che condizionano la formazione di tali associazioni vegetali, sono individuate attraverso dei passaggi che vanno dal nord verso il sud della penisola, dall’interno verso le zone litoranee e dalle colline elevate verso il basso.
       Nel nostro caso alla presenza di querceti misti caducifogli-sempreverdi è connessa una situazione di microclima locale, determinata dalla particolare situazione orografica e di suolo. Il tipo di esposizione e di pendenza del terreno incide sulla qualità dell’ambiente, creando spazi adatti, in misura più o meno diversa, sia alle specie sempreverdi sia a quelle caducifoglie, che così si presentano mescolate in cenosi miste.
       Gli alberi guida di questi boschi sono per la parte sempreverde, il leccio, per la componente caducifoglia la roverella, il cerro, il carpino nero e l’acero campestre.
       La parte più alta e rocciosa delle forre è dominata dal leccio, che tra le specie arboree è senza dubbio la più importante nell’area mediterranea. Questa elegante e rustica quercia, se ben sviluppata, raggiunge notevoli dimensioni e la sua chioma di colore verde scuro risalta tra la vegetazione specialmente nel periodo invernale. La natura chimica del substrato roccioso dove il leccio è competitivo, permette solo lo sviluppo di una macchia cespugliosa, con essenze vegetali che si adattano a condizioni di aridità. Questo tipo di macchia annovera, fra gli accompagnatori del leccio, l’erica, arbusto con foglie aghiformi, che a primavera si carica di fiorellini odorosi di colore bianco; il corbezzolo, altro arbusto estremamente frugale, molto rigoglioso anche dopo gli incendi; il cisto, che si presenta con vistosi fiori bianchi.
       Più in basso, nel pendio meno acclive e nelle forre più ampie, dove aumenta l’umidità, il leccio lascia il posto ad un’altra quercia, il cerro, che si sviluppa notevolmente dove il suolo è più profondo, diventando particolarmente competitivo. Dove il terreno è composto da materiali detritici, al cerro si alterna il carpino nero. In certi casi la sua predominanza viene indirettamente favorita dall’uomo in conseguenza della ceduazione. Questo albero resiste bene ai tagli periodici, mostrando un elevato ritmo di accrescimento, a differenza di altre specie come le querce che hanno una crescita molto più lenta. Altra essenza arborea è l’acero campestre, che si presenta alquanto suggestivo in autunno, con una colorazione che passa dal rossiccio al giallo. E’ una specie che proviene dai climi più freddi di tipo continentale. Si è ben ambientato, specialmente dove il terreno è poco stabilizzato in quanto ritrova delle condizioni di umidità ottimali specie nei versanti rivolti al nord.
       All’interno di questa complessa flora arborea, che appartiene al tipo di vegetazione dell’area ub mediterranea (dove si possono annoverare i boschi europei più ricchi di specie legnose), figurano anche diversi alberi che hanno una distribuzione geografica molto ampia. Tra questi è possibile rinvenire il castagno, il bagolaro, l’albero di Giuda e il carpino bianco.
       Il sottobosco si presenta ricco e vario. Tra gli arbusti più frequentati sono i rinvenimenti del nocciolo, quindi del prugnolo, del corniolo, del pero selvatico e del biancospino, che aggiungono delle delicate tonalità di colore nella stagione primaverile. Molto vistose sono le formazioni di ginestra, accompagnate dai rovi e dalla rosa canina specialmente ai bordi dei boschi e nelle zone meno ombreggiate. La flora erbacea è di gran lunga più complessa e spesso notevolmente differenziata a seconda del microclima. All’interno, protetti dalla luce diretta del sole, crescono il pungitopo, l’asparago, l’agrifoglio, il ginepro e il bosso; che insieme ai vari tipi di felci, offrono delle tonalità di verde ai brunati colori invernali. Già dal mese di febbraio appaiono, con la loro timida presenza, i primi fiori, i bucaneve. Poi più tardi prendono il sopravvento, tappezzando di colori il terreno, le primule, le viole, gli anemoni, le pervinche e i ciclamini. Ad aprile non è raro incontrare degli esemplari di orchidea selvatica.
       Interessante, anche se le dimensioni e la portata del Treia non sono tali da prevedere un alveo primario e uno secondario, è la vegetazione arborea e arbustiva di greto. Molto evidente è la presenza dei pioppi neri, che si manifesta attraverso degli splendidi esemplari, accompagnati dal salice, dall’olmo, dal sambuco e dal pioppo bianco. Lungo i corsi d’acqua più piccoli si hanno le caratteristiche formazioni ripariali “a galleria”, composte essenzialmente dall’ontano.
       Il complesso delle formazioni boschive sopravvissute, che ricoprono parte dei pianori, è caratterizzato dalla cerreta. In questo tipo di bosco oltre al cerro, le essenze dominanti sono la roverella, l’orniello, e il carpino bianco. Purtroppo questi boschi, per il loro carattere di “ceduo”, ogni 10 – 15 anni vengono tagliati, per ricavare legna da ardere, e molti si presentano più come macchie cespugliose che come vere e proprie foreste.
       La loro distruzione provoca la scomparsa dei grandi uccelli rapaci, che solo sugli alti alberi riescono a nidificare.
       Il bosco non va inteso solamente ed esclusivamente nel senso di un gran numero di alberi: bisogna infatti tener conto di tutti gli organismi che con esso convivono; esso assume un’importanza primaria anche come elemento di difesa del suolo dal dissesto idrogeologico.
       La conservazione dei comprensori boschivi e degli animali selvatici comporta la necessità di una protezione globale di questa particolare area del bacino del Treia, considerandola nel suo insieme come un vasto ecosistema.
       Solo la conservazione degli ecosistemi può infatti garantire la sopravvivenza delle specie vegetali, animali e quindi dell’uomo.
       Questo territorio oggi è conosciuto maggiormente come l’area industriale più importante della provincia di Viterbo e da sempre le scelte economiche, politiche e sociali si sono indirizzate verso un potenziamento di questa vocazione ai danni dell’ambiente naturale.
       In questi ultimi anni, dopo un incontrollato sviluppo delle attività industriali ed artigianali legate alla produzione ceramica, si assiste ad una fase irreversibile di stagnazione, con conseguente calo di addetti e chiusura di stabilimenti che rimangono a segnare la fine di un’epoca come desolanti nuove rovine in preda ai rovi.
       Il modello di sviluppo economico di questi ultimi anni è sostanzialmente identificabile con un generale processo di decremento dell’occupazione nel settore primario e secondario (agricoltura e industria). Ciò ha determinato una progressiva perdita di peso economico di questi settori produttivi a favore di quello del commercio e dei servizi. Attualmente le più grandi strutture occupazionali sono individuate nel settore terziario (USL, Amministrazioni Comunali, Uffici Pubblici, ACOTRAL, Istituzioni Scolastiche, Banche ecc.), tendenzialmente in linea con il modello di sviluppo post-industriale dei paesi occidentali.
       E’ entrato fortemente in crisi un tipo di sviluppo basato sulla massima produttività con notevole spreco di risorse energetiche ed accompagnato da fenomeni di rapina e di degrado del territorio. Basti pensare alla localizzazione incontrollata delle aree industriali ed estrattive, alle scelte urbanistiche sbagliate, all’impoverimento delle campagne e al taglio incontrollato dei boschi, all’inquinamento delle acque, all’abbandono del patrimonio storico ed archeologico.
       Per decenni si è tenuto nei confronti dell’ambiente naturale un atteggiamento di sfida continua, considerandolo come una risorsa inesauribile e un contenitore senza limite dei nostri rifiuti. E’ indispensabile una vera svolta, se effettivamente si vuole proteggere questo territorio ed attuare una ristrutturazione ecologica dell’economia promuovendo un modello di sviluppo compatibile con le esigenze dell’ambiente naturale.
       Nella ricerca di interventi globali per la tutela delle risorse naturali e culturali del territorio come della qualità della vita dei suoi abitanti, la programmazione delle aree protette – riserve naturali e parchi – rappresenta lo strumento pianificatorio più efficace. L’istituzione dell’area protetta può essere considerata come l’avamposto di una nuova concezione del rapporto uomo ambiente e un laboratorio, per sperimentare un nuovo stile di vita “ecocompatibile”.
       Dal 1982 con una Legge Regionale – la n. 43 del 22/9/82 – è stato istituito il “Parco Suburbano della Valle del Treia”, una piccola ara protetta di circa mille ettari nei territori comunali di Mazzano Romano e di Calcata, che solo da qualche anno, può con grandi difficoltà, è entrato in una fase attuativa.
       Da anni la Lega per l’Ambiente di Civita Castellana si batte per un ampliamento dei confini di questo tipo di “Parco suburbano” poiché ritiene che la Legge Regionale ha escluso aree di particolare interesse naturalistico, archeologico e paesaggistico che fanno parte integrante dell’ ecosistema delle forre del Treia. L’attuale amministrazione può considerarsi un vero e proprio bluff poiché è tenuta in piedi solo da motivazioni clientelari e non riesce ancora ad avere una vera e propria struttura organizzativa (piano di assetto) a causa di controversie d’ordine politico esistenti tra i consiglieri dei due Comuni (Mazzano guidato da una coalizione di centro; Calcata da una di sinistra). Nel frattempo, mentre loro discutono sul numero delle poltrone da dividersi o sui miseri consensi locali da guadagnarsi, il degrado aumenta e i luoghi più appetibili da un punto di vista esclusivamente turistico (centro storico di Calcata e le cascate della Mola di Monte Gelato) vengono presi d’assalto da orde di visitatori domenicali.
       L’esperienza dell’attuale gestione, è tutt’altro che positiva, e tanto ha contribuito a creare quella cattiva fama di sfiducia intorno alla gestione consortile delle aree protette. L’aumento del degrado, legato in parte a questa “gestione allegra”, dovrebbe scoraggiare un suo ampliamento. Ma le continue aggressioni all’ambiente, impongono di partire proprio dall’ampliamento dell’area protetta, per cogliere il duplice obiettivo di tutelare l’intero ecosistema delle forre e superare l’attuale cattiva gestione.
       Se la Regione Lazio facesse propria la proposta di ampliamento della Lega per l’Ambiente avremo forse il maggiore ecosistema di acqua corrente completamente tutelato dell’Italia peninsulare, dalle aree sorgentizie alla foce sul Tevere. Se viene accettata questa idea di parco, potrebbe diventare, insieme con le altre aree protette istituite lungo il Tevere, un’esperienza significativa dal punto di vista della ricerca scientifica e delle prospettive occupazionali di un territorio altrimenti condannato al pendolarismo con Roma od ad attività ad elevato impatto ambientale. Tale proposta, inoltre, in linea con la Legge Regionale n. 43 del 22/9/82, tende alla realizzazione di un progetto di salvaguardia fattiva nei confronti dei continui attacchi che vengono perpetrati nei confronti della “integrità delle caratteristiche naturali della valle del Treia”.
      Il Parco, come strumento di controllo del territorio, da una certa opinione pubblica è visto come una limitazione della libertà di movimento che si attua attraverso l’imposizione di vincoli e vessazioni. Alcuni sono indispensabili sotto forma di norme di salvaguardia in quanto servono a limitare attività “eco incompatibili” come la caccia, l’apertura di nuove cave, lo sviluppo selvaggio di seconde case, sport rumorosi e inquinanti come il motocross, la distruzione di boschi, l’uso indiscriminato di sostanze chimiche in agricoltura. Dietro tali vincoli è possibile intravedere solo dei vantaggi collettivi derivati dalla possibilità che un numero crescente di cittadini, potrà liberamente disporre di risorse naturali quali, l’aria, l’acqua, il suolo, la vegetazione e la fauna.
       Un numero sempre maggiore di cittadini si pone oggi in maniera critica nei confronti della qualità della vita, che ci viene imposta da un modello di sviluppo che rinnega i valori più veri dell’uomo. Molti di questi costituiscono “l’utenza dei parchi”. Vanno alla ricerca, almeno per una giornata, di quei valori “sociali e culturali” perduti nell’angoscia del vivere quotidiano, così come desiderano trovare prodotti – agricoli zootecnici, artigianali – indenni dalla contraffazione operata dalle lavorazioni intensive. Il “Parco” assume il ruolo di garante dell’integrità e della naturalità dei prodotti acquistati, come se fosse un marchio di qualità. Se poi viene offerta la possibilità di risiedere in strutture ricettive realizzate recuperando il patrimonio edilizio storico, si intuisce come viene a formarsi il quadro dei vantaggi racchiusi dentro la parola così ostica per alcuni: parco.
       Diventa necessario raggiungere un rinnovato equilibrio tra le varie componenti del paesaggio controllando la coerenza delle prestazioni e l’uso dello ambiente attivando una pianificazione che programmi attentamente la salvaguardia e la valorizzazione delle risorse naturali attraverso l’organizzazione dell’agricoltura, il recupero dei centri e dei manufatti storici e archeologici, l’individuazione delle aree per il tempo libero e le zone di protezione integrale, il risanamento delle cave e la progettazione degli impianti di depurazione delle acque, delle infrastrutture viarie, degli insediamenti civili ed industriali.
       La bellezza del paesaggio è il risultato di interventi di progettazione dello spazio, che portano ad unità e coerenza i diversi elementi che lo compongono, tenendo conto delle esigenze sociali e culturali dell’uomo garantendo la qualità della vita.
       Una corretta soluzione di tali problemi in armonia con i valori della natura e della storia va anche cercata, osservando che i fenomeni della vita naturale e quelli della vita tecnico-economica di un territorio sono essenzialmente analoghi.
       E’ possibile, perciò, un modello di sviluppo economico nel rispetto dei problemi legati all’ecologia.
       C’è ancora, però, chi sostiene che la natura, le sue risorse, il paesaggio, le testimonianze del passato debbano essere sacrificate, se necessario, al fine di una crescita economica, intesa solo come possesso di merci, di macchine, di beni materiali.
       In realtà non è possibile un rispetto della natura se le condizioni degli esseri umani sono subumane; e non si possono godere i frutti del possesso delle merci in un mondo sporco, brutto e inquinato.



IL PERCORSO STORICO

La Via Amerina

       Il percorso storico che viene descritto segue il tracciato della via Amerina nel tratto , meglio conservato, che va dall’Isola Conversina a Falerii Novi.
       La Via Amerina fu costruita dai Romani dopo la conquista definitiva dell’Agro Falisco nel 241 a.C. per un facile accesso attraverso questo territorio e per un diretto collegamento della via Cassia con il Tevere  l’Umbria meridionale.
       La strada si avvale di parti costruite ex novo dagli ingegneri romani come nei tratti a sud e a nord di Falerii Novi e tratti che sicuramente seguono una via preesistente come a Corchiano e a sud di Nepi, dove il percorso assume le caratteristiche di una strada etrusco-falisca, rimessa in uso con poche modifiche, che probabilmente collegava Veio e Nepi.
       A partire dal III SEC. a.C. i Romani attuarono un vigoroso programma di ampliamento della rete stradale: si progettarono verso nord arterie importanti come le vie Clodia, Flaminia e Cassia. Nello stesso progetto rientra la costruzione della via Amerina.
       Uno degli scopi principali era quello di disperdere nella campagna gli abitanti dei vecchi nuclei insediativi, per fondare nuove fattorie, incrementare il livello della popolazione rurale, annientare allo stesso tempo le potenzialità di rivolta delle città conquistate con maggiore difficoltà come fu l’esempio di Falerii Veteres. Non a caso le vie Flaminia e Amerina aggirano il vecchio centro preromano.
       Il tracciato della via Amerina si può individuare facilmente seguendo l’eccezionale documento storico che è la Tabula Peuntingeriana. Quella che possiamo osservare oggi non è altro che la copia medievale (XI – XII sec.) di una carta di età imperiale disegnata, con insolita precisione, su un pergamena di m. 6,80 e larga all’incirca 30 cm. La carta riporta a colori tutta la viabilità dell’impero romano con indicazione delle “stationes”, tra le quali è anche segnata la distanza in miglia romane (m. 1478 circa). Sulla carta possiamo leggere le località attraversate dalla via e le distanze tra esse: VACANAS; NEPE m VIII; FALEROS m V; CASTELLO AMERINO m XIII; AMERIA m VIIII; TUDER m VI; VETTONA m XX; PERUSIA m XIIII; CLUSIO m (?).
       La via Amerina, quindi, si distaccava dalla via Cassia all’altezza della Valle del Baccano in corrispondenza della grande Mansio ad Vacanas, superava il ciglio del cratere in prossimità del Monte dell’Impiccato e poi per circa 5 km correva parallela alla Cassia per dirigersi definitivamente verso nord in prossimità del Fosso del Fontanile. Successivamente toccava i centri di Nepi, Falerii Novi, Corchiano (presso la Madonna del Soccorso), Vasanello, Orte (presso il porto di Seripola – forse Castellum Amerinum), dove attraversava il Tevere per dirigersi ad Amelia (l’antica Ameria), per collegarsi, forse, alla via Flaminia nei pressi di Perugia, dopo aver attraversato Todi e Bettona.
       Tra le strade costruite dai Romani la Cassia e la Flaminia assicuravano un collegamento diretto tra Roma e la parte nord della penisola, quindi a lunga distanza; in origine esse hanno avuto scopi principalmente militari. E’ interessante osservare il percorso della via Cassia uscendo da Roma a Ponte Milvio, non incontra nessuna città per circa 40 km fino a Sutri; lungo tutto questo tratto, ricco di fiumi, la strada si avvale di un solo ponte. Questo denota una grande perizia dei progettisti romani, la loro notevole capacità di economizzare gli sforzi pur garantendo un collegamento veloce e comodo. Le strade, come la Clodia e l’Amerina, servivano a bisogni locali contribuendo a creare quel reticolo di percorsi, anche minori, come la via Annia e Cimina, che resero gli scambi commerciali e culturali intensi tra i grandi centri e le fattorie sparse nel territorio.
       La via Amerina si avvale di tracciati più antichi, sia preromani che successivi, comunque sempre precedenti al 241 a. C., come quello che collega Baccano con Nepi, codificato e sistemato quando la città divenne colonia latina nel IV sec. a.C. Con la conquista di Falerii Veteres, i romani edificarono Falerii Novi proprio lungo l’asse della via Amerina, per una scelta precisa e preordinata, portando a termine il loro progetto di controllo dei territori conquistati.
       Dobbiamo però considerare che solo l’alta capacità ingegneristica sviluppatasi nel III sec. a.C. permise di attraversare con una strada rettilinea e veloce questi territori, che per la loro morfologia si presentano pieni di ostacoli. Da questo fatto deriva la predilezione per le tagliate lunghe e diritte scavate nel tufo, l’uso di ponti con archi in pietra, la pavimentazione in basalto e le innumerevoli cave di tufo poi riutilizzate come necropoli. Tale perizia e determinatezza nel superare gli ostacoli doveva forse anche rammentare alle popolazioni conquistate la schiacciante risolutezza della ROMANITAS.
       In seguito alla completa pianificazione della rete stradale la strategia di insediamento territoriale si modifica radicalmente. Nascono, sia in maniera spontanea che dietro esplicita volontà romana, una serie di siti minori posti in prossimità degli incroci stradali, e stazioni lungo le arterie principali. Diminuiscono di numero i grandi centri etruschi e falisci, abbandonati in seguito alle scelte politiche romane; si dirada il reticolo di centri commerciali e culturali che prima erano fulcri dell’attività economica del territorio. Crescono di importanza nuovi centri sorti come stazioni stradali poste ad una distanza l’una dall’altra di una giornata di viaggio. Acquaviva è un centro di questo tipo che si pone lungo la Flaminia, a pochi chilometri da Civita Castellana che vide il suo apogeo tra il I sec. a.C. e il II d.C.
       Il corso della via Amerina è intersecato da una grande serie di diverticoli stradali che portavano ad altrettante fattorie, ma è lungo la strada ed in prossimità delle maggiori città come Nepi e Falerii Novi che troviamo i resti delle necropoli più interessanti.
      Negli approfondimenti della strada in prossimità dei ponti, in aree limitrofe al percorso come slarghi naturali o cave di materiale utilizzate per la costruzione della strada stessa, i massi tufacei ci appaiono lavorati e incavati in innumerevoli tipologie tombali. C’è da riflettere davanti agli scempi perpetrati, in questi ultimi decenni, contro il territorio, paragonati al rispetto dei luoghi dimostrato dagli uomini di quell’epoca che hanno saputo sfruttare le molteplici possibilità di un materiale versatile come il tufo.
       Nel tratto della via Amerina che viene descritto in questo percorso storico, sono presenti e recuperate le tipologie tombali che sottolineano le tipicità degli insediamenti rupestri preromani, strettamente connesse al carattere naturale dei luoghi, come tombe a camera, loculi e fosse. Nuove tipologie sepolcrali come mausolei, arcosoli e colombari danno al paesaggio un carattere formale di estrema ricchezza e peculiarità. Notevoli e degni di attenzione sono gli accorgimenti di carattere scenografico e architettonico: false murature, lesene, capitelli, scale, volte a crociera e a botte ricavati nel tufo e pitture ad affresco con forti gradazioni cromatiche. Così sistemazioni idrauliche a protezione dei manufatti e della viabilità stessa denotano una cultura raffinata e sapiente nel trasformare una parte di territorio al di fuori le mura in brani suburbani perfettamente risolti. Troviamo sistemazioni analoghe nelle necropoli delle maggiori città romane che ricreano ad arte l’immagine urbana e piena di vita con vie, case e piazze.
      Il tracciato di una nuova strada veniva determinato da architetti e geometri militari che valutavano attentamente le caratteristiche del terreno scegliendo poi varie soluzioni tecniche. La prima fase dei lavori, eseguiti dai militari e raramente appaltati a privati, prevedeva lo scavo di un canale fino a raggiungere uno strato di terreno compatto; dentro il canale venivano stesi in successione vari strati (fino a 4) di pietrame e terra pressata sopra i quali poggiavano i lastroni di basalto, leucite o altri tipi di pietra locale. La pavimentazione non era piana ma leggermente displuviata lungo i lati per permettere lo smaltimento delle acque piovane entro apposite canalette o per filtraggio mediante vespai laterali alla carreggiata. I margini della stessa erano fissati da blocchetti rialzati che fungevano anche da paracarri: crepidini.
       I ponti vennero costruiti per superare i torrenti ed i fiumi più profondi; viadotti e terrapieni, rivestiti di blocchi di tufo, venivano usati per rialzare la sede stradale nel superamento di valloni e depressioni del terreno. I ponti romani, sia realizzati con blocchi squadrati di tufo a secco sia costruiti in muratura, hanno sempre un’impalcatura di legno – centina – di sostegno. Le parti più delicate della struttura erano naturalmente i piloni, che, per resistere alla spinta dell’acqua, venivano muniti di speroni e aperture, chiamate occhi da ponte, attraverso le quali poteva defluire l’acqua.
       I Romani preferivano costruire le loro strade sempre in rettilineo, ma a volte i dislivelli e le curve non potevano essere evitati. Quando la pendenza superavano il 20% la strada saliva a tornanti con raggi molto piccoli e con pendenze del 15%. Queste asperità potevano essere superate da carri leggeri e non molto carichi.
       La larghezza della strada doveva essere di due metri e mezzo in rettilineo e di quattro metri e mezzo nelle curve. Così stabilivano le leggi ma, a seconda delle necessità del traffico, potevano essere anche variate. Quasi tutte le strade militari di grande importanza avevano la carreggiata di 4-5 metri, in modo da permettere lo scorrimento del traffico su 3 piste. La velocità dei trasporti si aggirava sui 7-8 km all’ora e i percorsi che si potevano effettuare in una giornata non superavano i 50 km.
       Ai tempi dell’impero romano erano responsabili della manutenzione delle strade di grande importanza i CURATORES VIARUM, mentre di quelle secondarie si interessava il magistrato che amministrava la provincia. Le distanze erano calcolate dal punto del Foro Romano dove Augusto aveva fatto collocare il MILIARIUM AUREUM, considerato il centro di Roma. Con il termine MILIARIUM si indicava una pietra, generalmente di forma cilindrica, alta anche due metri, che posta sul ciglio di una via pubblica fissava la distanza da Roma. Le distanze erano calcolate in miglia romane.
      Per compiere dei brevi viaggi vicino alle città ci si serviva del CARPENTUM, un veicolo a due ruote usato anche per i trasporti funebri. Era coperto da una tenda e decorato da ricami e dipinti, tirato da due muli; carri usati per funzioni religiose erano i PILENTA e quelli per i trionfi i TENSA. Nessun veicolo era munito di sospensioni, quindi i sobbalzi erano continui e il rumore era assordante sul selciato. Per i lunghi viaggi veniva usata la CARRUCA, un carro a 4 ruote, con le due ruote anteriori montate su un asse girevole che consentiva la manovra. La CARRUCA poteva portare 6 persone ed era interamente coperta di tela o di pelli. I più ricchi, o coloro che dovevano compiere dei viaggi molto lunghi, sistemavano sul carro un materasso e allora la CARRUCA prendeva il nome di DORMITORIA. Per il trasporto di merci o animali ci si serviva del PLAUSTRUM, veicolo molto resistente, rinforzato da un’armatura di ferro. Con un carro a 2 ruote il viaggio era scomodo, ma veloce; con 4 ruote più confortevole, ma lento.
       Coloro che compivano lunghi viaggi trovavano, lungo le strade, luoghi dove potevano ristorarsi e dormire: CAUPONAE, HOSTERIAE o DEVERSORIA quando erano di bassa categoria. STABULUM era invece l’albergo dove trovavano alloggio e ristoro anche le cavalcature.
       Il servizio postale fu statalizzato da Augusto, quindi lentamente si perfezionò, con la costruzione lungo le vie pubbliche di posti fissi di sosta ogni 10 o 15 km detti MUTATIONES, vere e proprie stazioni di posta dove i viaggiatori potevano cambiare cavalli e rifocillarsi. In media ogni 5 MUTATIONES ve n’era una più grande e più comoda chiamata MANSIO, che aveva anche stanze da letto. Questi alberghi erano gestiti da funzionari dell’amministrazione imperiale, con personale addetto a vari servizi: terme, scuderie, depositi e addirittura cocchieri, veterinari, medici. Accanto ad ogni MANSIO c’era un posto di polizia stradale, i militi si chiamavano “stazionari”. Chi poteva permettersi di viaggiare con i carri o i cavalli erano i ricchi, la plebe si spostava raramente e a piedi.
       Con la decadenza delle strutture militari e politiche dell’impero, massicce ondate migratorie di popolazioni nord-europee e centro-asiatiche penetrano nella penisola impartendo ai Romani rovinose disfatte. L’avvenimento che turbò più profondamente questa regione fu il sacco di Roma inferto nel 410 d.C. dai Visigoti guidati da Alarico, discesi da Ravenna lungo la Flaminia. Queste invasioni segnarono definitivamente la fine della PAX ROMANA.
       Le vie consolari come la Clodia, la Cassia, la Flaminia e l’Amerina divengono teatro di battaglie e veicolo di aggressioni verso Roma e i territori limitrofi a nord. La via Flaminia costituì l’asse portante sul quale si giocarono i maggiori avvenimenti bellici. In particolare il tratto della strada che attraversava l’Agro Falisco cadde presto in mano ai Longobardi, che avevano fondato il Ducato di Spoleto. Per tale motivo perse importanza nelle comunicazioni tra il nord e il sud della penisola. La via Amerina al contrario, in questo stesso periodo acquista un ruolo di primaria importanza poiché divenne l’asse viario che, unitamente alla Flaminia settentrionale, consentiva la comunicazione tra Roma e Ravenna.
       Il collegamento tra il Papato e l’Esarcato della Pentapoli Bizantina avveniva tramite una fascia di territorio rimasta ai Bizantini che divideva il Ducato di Spoleto e i territori longobardi a sud (Ducato di Benevento) con il Regnum Langobardorum. Il corridoio di città fortificate altomedievali a difesa di questo passaggio e quindi della via Amerina, occupate nel 592 dai Longobardi (Perugia, Todi, Amelia e Orte) viene ripreso subito dopo dai Bizantini come testimonia Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum, libro IV. “…..ROMANUS PATRICIUS ET EXHARCHUS RAVENNAE ROMAM PROPERAVIT. QUI DUM RAVENNAM REVERTITUR, RETENUIT CIVITATES QUAE A LANGOBARDIS TENEBANTUR, QUARUM ISTA SUNT NOMINA: SUTRIUM, POLIMARTIUM, HORTAS, TUDER, AMERIA, PERUSIA, LUCEOLIS, ET ALIAS QUASDAM CIVITATES…..” (“…..romano, patrizio ed esarca di Ravenna, si recò a Roma. Poi nel ritorno, occupò alcune città in mano longobarda i cui nomi sono: Sutri, Bomarzo, Orte, Todi, Amelia, Perugia, Luceoli ed altre…..).
       Allo stesso modo anche il CASTRUM di Nepi, la rocca di Ponte Nepesino e il CASTRUM di Gallese divennero tra il VI e il IX secolo centri fortificati a difesa della via Amerina contro i Longobardi.
       Alcune delle antiche stazioni viarie rivestirono una grande importanza in età tardoantica, ad esempio Acquaviva e Ad Baccanas. La prima divenne addirittura per un periodo sede di una diocesi. Ad Baccanas ospitò invece un importante santuario in onore dei martiri.
       La forte contrazione degli insediamenti nelle campagne, che si verificò in questi secoli, non portò ad uno spopolamento radicale né all’abbandono totale dei siti. Nell’VIII secolo insieme alle DOMUSCULTAE vi è una presenza diffusa di FUNDI, MASSAE, CASALES. Altri luoghi come Ponte Nepesino e Isola Conversina presentano già un precoce fenomeno di incastellamento già dal VII secolo.
      L’incastellamento del periodo iniziale dell’Alto Medioevo (VII-VIII secolo) è un fenomeno urbano dovuto da uno stato di guerra permanente lungo i confini tra Longobardi e Bizantini e proprio su quella frontiera costituita dalla via Amerina. Un ricorso generalizzato agli insediamenti chiusi e fortificati, posti su speroni tufacei, rimane limitato ai castelli di confine come Blera, Nepi, Sutri, Bomarzo, Gallese ed Orte, che sono centri di origine etrusca con fortificazioni molto antiche. Alle spalle di questa “frontiera” non vi sono castelli in questo periodo, come dimostra la Domusculta di Capracorum a Monte Gelato presso Mazzano. Solo più tardi, intorno al IX-X secolo, sorgono dei centri su posizioni molto più difese come Mazzano, Calcata, Faleria, Civita Castellana, Formello.
       Questa nuova frontiera, più arretrata, probabilmente viene a costituirsi quando Liutprando, portando il dominio longobardo al massimo splendore, si spinge, in seguito al decreto contro il culto delle immagini (Iconoclostia 726 – 843) sino ai confini del Ducato Romano (739) per strappare la Pentapoli e l’Esarcato a Leone Isaurico imperatore di Bisanzio. Successivamente gli stessi attacchi vengono portati anche da Astolfo fino alla definitiva sconfitta dei Longobardi da parte di Pipino re dei Franchi, chiamato in aiuto dal Papa. La totale trasformazione degli insediamenti sparsi di impianto tardoromano – ville – in insediamenti accentrati e difesi – castelli – comparirà definitivamente solo nel XIII secolo.
       Da questo momento in poi il territorio entra definitivamente nella sfera politica del Papato e affronta un lungo periodo di assestamento dovuto alle furenti lotte tra le famiglie nobili romane che si contendono i numerosi possedimenti e castelli. La via Amerina perde importanza, sino a diventare una piccola strada di collegamento tra piccoli centri e fattorie. Nel XVIII secolo è definitivamente abbandonata e dimenticata. Oggi è possibile incrociare la via Amerina al km. 10 della s.s n. 216 Nepesina, a circa 6 km. fuori da Civita Castellana in direzione di Nepi, dove la strada compie una curva verso destra, in prossimità di un boschetto di pini e di una recente lottizzazione con casette a schiera.
       Il tracciato di questa antica strada è qui completamente irriconoscibile perché “tagliato” in due dalla statale e frammentato dalle coltivazioni. La sua bellezza inizia ad intravedere dopo aver percorso per una cinquantina di metri una strada sterrata tenendo la sinistra al nuovo complesso abitativo.
       Rasentando un muro in tufo ci si rende conto che dalla parte opposta la strada si abbassa considerevolmente di livello. Si tratta di una tagliata, ovvero di un tipo di sistemazione stradale, che spesso si incontra lungo questa via consolare. Le tagliate nel tufo venivano usate dai Romani e precedentemente dai Falisci come abile sistema per limitare il dislivello del terreno in prossimità di un attraversamento fluviale, nel punto in cui la strada doveva attraversare una forra. Scavando nel tufo sia da una parte che dall’altra della parete tufacea, si scendeva gradatamente di livello sino al punto in cui un ponte permetteva l’attraversamento del corso d’acqua. Le pareti così scavate venivano utilizzate come necropoli.
       Immediatamente sulla destra, lungo la parete tufacea, si nota una tomba (depredata recentemente dai clandestini) di forma alquanto singolare, che ospitava diversi cinerari incassati nella roccia.
       Inoltrandosi nella tagliata e guardando verso la forra, si ammira lo sperone di roccia denominato Torre dell’Isola dove si erge ancora, a controllo del territorio, una torre medievale meta del tratto iniziale del percorso.
       All’interno della tagliata, con ancora in sito tracce di basoli si può scorgere un arcosolio sulla destra e dalla parte opposta una sepoltura oggi sopraelevata rispetto al piano stradale e con il caratteristico incavo rettangolare che presumibilmente conteneva una targa con iscrizione. Sulla destra si apre un’altra tomba a camera, con spazio per tre deposizioni, poste su letti ricavati nel tufo.
       La tagliata si è conservata soltanto nella metà superiore come è visibile dalla base molto rovinata e dall’eccessiva sopraelevazione delle tombe.
       Più avanti è necessario voltare a sinistra per seguire il sentiero, poi un nuovo tornante che volge a destra permette di scendere nella valle sottostante. Qui, guardando attentamente verso la rupe, si può scoprire l’originario tracciato stradale che, a seguito di una frana, oggi risulta coperto da massi e da una fitta vegetazione.
       La via Amerina, uscendo dalla tagliata, scendeva a valle tramite un piano inclinato scavato nella roccia. Al di sopra di questa frana si possono scorgere delle sepolture a camera che ora si trovano ad un altezza molto elevata rispetto all’originario livello stradale.
       Quando si giunge in prossimità del corso del Fosso dell’isola, la Torre appare in tutta la sua imponenza.
       I costruttori della strada, per attraversare il torrente, dovettero affrontare non pochi problemi. Questo luogo difatti è circondato, per tre lati, da ripide pareti formate dalla congiunzione tra il corso principale – Fosso dell’Isola – ed un suo affluente – Fossicello. Per superare tale passaggio, la strada fu prima condotta oltre il Fosso dell’Isola tramite un ponte e poi, con un ponticello o un terrapieno, al di là del Fossicello. Il ponte più grande è costruito con un’anima di calcestruzzo e pietrisco e rivestito con blocchi di tufo a corsi orizzontali. Del ponte più piccolo oggi rimane visibile solo la struttura medievale, ma si può intuire che era ugualmente realizzato in calcestruzzo sopra una fondazione di blocchi di tufo.
      Attraversando il Fosso dell’Isola si cammina nel letto asciutto del Fossicello cosparso di basoli e blocchi di tufo del ponte crollato. Si sale voltando a sinistra dove inizia un ripido sentiero che conduce verso il castello medievale di Isola Conversina. In questo punto viene abbandonato il tacciato della strada romana, che continuerà invece verso Nepi.
       Questo luogo ha ospitato nell’Alto Medioevo un incastellamento per il suo carattere di sito difeso naturalmente quindi come fortificazione lungo la via Amerina durante le guerre tra Bizantini e Longobardi. A seguito di questi sconvolgimenti bellici i villaggi di epoca preromana, collocati su alture inespugnabili, vengono occupati nuovamente e arricchiti da difese artificiali come fossati, mura e torri.
       Il castello di Torre dell’Isola (Castrum Insulae) si erge su un isola di roccia lunga circa 300 m., separata dal plateau vulcanico principale verso sud-est da una sella boscosa; solo in quest’ultima direzione poteva esserci un accesso più facile, perciò qui, fu protetto con un grosso muro di blocchi di tufo squadrati e con un taglio artificiale nel tufo il cosiddetto VALLUM. Giunti sull’Isola è evidente come l’intera opera effettuata dall’uomo sia analoga e riconciliante con quella della natura che sta riprendendo il dominio sull’innumerevoli costruzioni.
       La forma urbana consisteva probabilmente in una via principale longitudinale, attraversata da più strette vie trasversali. Al centro la piazza grande con la parrocchiale, il palazzo del governo ed alte abitazioni importanti; all’estremità, nella parte di accesso, era collocato il castello come baluardo difensivo, sormontato da una torre di avvistamento.
       La tipologia dell’insediamento è quella dei villaggi medievali dell’Agro Falisco ricostruiti su siti di origine preromana con profonde radici nella preistoria. Villaggi che rappresentano quella CONSUETUDO con i moderni abitati per l’esistenza di cavità naturali, per la semplicità e l’economicità delle esecuzioni degli scavi, che hanno indotto l’uomo di tutti i tempi a creare unità abitative, ricorrendo più al vuoto nel pieno che al pieno nel vuoto.
       Il villaggio è “tagliato” in due settori dal VALLUM di difesa dal quale è obbligato l’accesso. Sulla parte destra, ad est, vi è, separata dal resto, una fortezza: al centro di questa si erge la torre costruita in blocchi di tufo e malta cementizia molto friabile, nella austerità della fattura possiamo notare i cornicioni decorati con laterizi. A fianco della torre si apre una posterula, che conduce alla valle sottostante.
       Dall’altra parte del VALLUM vi sono numerose costruzioni in blocchi di tufo a secco edificate su cantine e cisterne a rappresentare la loro architettura in negativo da cui hanno avuto genesi. Sempre su questo lato resta in piedi l’abside con cornice in peperino di una chiesa. Si può percorrere l’Isola in tutto il suo perimetro costeggiando i margini rinforzati e consolidati da mura. Da qui lo sguardo può spaziare verso i lunghi corridoi formati dai fossi e ricoperti da una rigogliosa vegetazione; in questo luogo si avverte una piena sensazione di protezione dell’insediamento strategico medievale, arroccato su un altura a controllo di una arteria di traffico.
       Dell’Isola Conversina si hanno notizie scritte sin dal 989, quando il Monastero dei S.S. Cosma e Damiano ricevette il CASTRUM in locazione con il mulino annesso, che sembra sia stata la fonte principale degli introiti. E’ annoverato come feudo nepesino con il nome di CASTRUM INSULA CONVERSINA.
       Alla fine del XIII secolo le milizie romane aiutate dai cornetani posero l’assedio al CASTRUM; questo episodio è da collegare probabilmente al tentativo dei Colonna di impossessarsi della vicina Nepi. Agli inizi del XIV secolo è tassato per un focatico di un fiorino, segno che la popolazione era molto scarsa, risulta tassato, nel Registro romano-senese, per 10 rubbi di sale. Nella tassazione successiva, quella del 1416, il sito non è nominato.
       Con un atto del 1423 si riporta la donazione del castello dell’Isola, fatta da Giovanni de Matteo de Insula a Giacomo Orsini, signore della città di Nepi. Successivamente il figlio di Giacomo Orsini, Rinaldo, cede nel 1427 l’Isola ad Antonio Colonna, signore di Salerno. In questo atto si legge CASTRUM INABITATUM……INSULAE CONVERSINE e vi si dice che il CASTRUM vantava diritti di pertinenza verso Corchiano e verso la Montagnola, ossia verso il ricchissimo feudo dei Vico. Non si conoscono le motivazioni dell’abbandono del sito, ma come tutti i luoghi fortificati limitrofi può farsi risalire o ad un bisogno di protezione dagli attacchi degli eserciti delle varie famiglie romane che si contendevano il territorio o a pestilenze, molto comuni in quell’epoca.
       Nel 1435 i feudi dei Colonna vengono confiscati dal papa Eugenio IV e dal cardinale Latino Orsini e al conte Dolce di Anguillara in pegno; ma nell’anno 1449 il papa Niccolò V li riscatta. Nel frattempo però, sin dal 1445, la località si ripopola e solo sul finire del XV secolo inizia l’abbandono definitivo dell’Isola, i cui abitanti si stabiliscono a Nepi.
       Lasciando questo luogo suggestivo, si torna indietro per dirigersi verso nord incontro a Falerii Novi e alla storia antica.
       Dopo aver attraversato la statale 216 la via Amerina segue un andamento decisamente rettilineo senza alcuna deviazione. Oggi il primo tratto attraversa dei campi ed è stato quasi completamente cancellato. Per ritrovare l’antico tracciato bisogna inoltrarsi per una strada sterrata a destra della statale e percorrerla sino al punto in cui devia verso sinistra. Qui la via Amerina è ancora visibile in tutta la sua lunghezza.
       Come nel tratto precedente gli architetti militari romani si avvalsero di tagliate e ponti per attraversare ben quatto forre prima di giungere a Falerii Novi.
       La prima tagliata, con le pareti punteggiate di tombe, è stata realizzata per scendere al ponte che scavalca il Fosso dei Tre Ponti. Si tratta di un ponte ancora in piedi, danneggiato in parte dalla vegetazione. Per osservare questa imponente costruzione si scende sulla riva del torrente.
       Il ponte è interamente costruito in blocchi di tufo, disposti senza malta; le facce esterne sono disposte in file di testa (diatoni) e taglio (ortostati). La parte interna, che per analogia con gli altri ponti di questa strada, era certamente in muratura, non è visibile in alcun luogo. C’è un ricorso di pietre che si getta in avanti all’interno dell’arco, che serviva per sorreggere la centinatura durante la costruzione; non si vedono buchi di ponteggio. La caratteristica distintiva è data da due gruppi di contrafforti rettangolari: due coppie esterne che salgono al punto più alto del ponte, una su ogni faccia delle due spalle e due altre più interne che si alzano verso la gettata dell’arco incorporandola per dargli, presumibilmente, un assetto più ampio e stabile. La struttura del ponte è totalmente uniforme, senza traccia di successive modifiche o riparazioni. L’uso di ponti con tale aspetto e dimensione è usuale lungo il tracciato di questa strada consolare. Tra tutti i particolari costruttivi sorprende trovare le fila esterne dei conci di tufo incastrate in quelle dei mattoni contigui piuttosto che descrivere un circolo concentrico con l’intradosso. La datazione è omogenea per tutti i blocchi facenti parte della costruzione e può essere fatta risalire agli ultimi decenni del terzo secolo a.C.. In considerazione di queste attestazioni è evidente che il ponte sia contemporaneo alla costruzione della strada.
       Proseguendo nel percorso storico si attraversa una seconda tagliata che conduce alla sommità del crinale dove la vista si apre sul paesaggio dominato dalla superba presenza del Monte Soratte. In lontananza la strada sembra terminare davanti ad un bosco, ma si restringe penetrando nella vegetazione. Lungo questo sentiero ombreggiato si aprono sia a destra che a sinistra delle tombe a camera, alcune delle quali presentano ancora tracce di colori ed evidenti segni di saccheggio operati da clandestini che hanno asportato le pitture parietali.
       La tecnica pittorica usata sulle pareti di queste tombe si chiama affresco (a fresco, o fresco). E’ un sistema di pittura molto antico, non è possibile precisarne le origini; la stessa parola era utilizzata dai Greci e significava proprio “sull’umido”. E’ una tecnica molto amata dagli Etruschi nelle loro tombe e dai popoli dell’Asia Minore nei grandi complessi pittorici. Il metodo consiste essenzialmente nel dipingere sopra un intonaco di calce fresca prima che si secchi con colori semplicemente macinati e diluiti con acqua; spesso l’affresco viene adoperato insieme alla pittura a tempera con colori stemperati in colla, uova o latte. Per effetto dell’idrato di calcio che è presente nella calcina, si fissa gradualmente fino a rendersi insolubile come avviene nei marmi colorati esistenti in natura.
       In epoca preromana l’intonaco di preparazione era molto sottile. Col tempo le tecniche si trasformano: lo spessore del supporto per la pittura aumenta sempre di più sino a divenire di parecchi centimetri, come si può verificare negli esempi presenti nelle necropoli lungo la via Amerina. Talvolta in quelle tombe di epoca anteriore, come accade spesso in Etruria, la preparazione non esiste e il colore veniva dato direttamente sulla pietra. Questa tecnica, non più “a fresco”, è molto meno resistente agli agenti atmosferici e a volte le pitture non sono riuscite a conservarsi sino ai nostri giorni. Probabilmente alcuni particolari architettonici lungo la necropoli erano dipinti secondo questo metodo più semplice, creando insieme agli intonaci colorati che possiamo ancora ammirare, degli effetti cromatici e luministici di notevole suggestione.
       Il sentiero più avanti inizia ad allargarsi e la vegetazione diventa meno fitta fino a formare un ampio spazio che probabilmente nell’antichità era una piazzola sacra che si apriva per ospitare magnifiche sepolture. Sulla sinistra vi sono due tombe sovrapposte con tracce di pittura mirabilmente conservata. Sullo stesso lato l’area sepolcrale presenta una piattaforma, raggiunta da gradini scolpiti nel tufo dove sono ospitate, lungo la parete sud, quattro nicchie per urne cinerarie. Un’altra sepoltura si apre sulla parete nord, e sul pavimento trovano posto sei piccole fosse, per incinerazione, anticamente chiuse da un tegolone in terracotta. L’uso di questo piccolo colombario sembra databile tra la fine del I sec. a.C. e i primi decenni del I sec. d.C..
      Sempre lungo questo lato appaiono le fondazioni di quattro monumenti funerari allineati su di una ampia platea tagliata nel banco tufaceo che per convenzione sono stati indicati con le prime lettere dell’alfabeto.
       I monumenti A, B e C sono del tipo ad “ara” o a “dado”, (databili tra il I e II sec. a.C.) a pianta quadrangolare, costruiti con blocchi squadrati di tufo. L’interno era riempito con terra pressata entro cui erano alloggiate le sepolture generalmente ad incinerazione.
       Il monumento D è un mausoleo a “fregio dorico”, unico nel genere fino ad oggi rinvenuto in area falisca ed in buono stato di conservazione. Il basamento è a pianta quadrata con nucleo “a cementizio”, rivestito da blocchi di tufo e peperino sormontati da un fregio e da una cornice. Sul basamento poggiava una struttura circolare o semicircolare di cui si conservano ancora nella posizione originaria tre blocchi della cornice modanata di base. L’uso di questo tipo di monumento era particolarmente diffuso in ambiente italico tra la fine del I sec. a.C. e l’inizio del I sec. d.C..
       Particolarmente sorprendente è la parete di tufo che fa da “quinta” scenografica ai monumenti. E’ stata scolpita ad immagine di un muro con grandi blocchi. La parete evidentemente fu utilizzata per l’estrazione dei blocchi di costruzione del complesso sepolcrale. Questa è una soluzione architettonica che ricorre spesso lungo questo percorso storico.
       Dalla parte opposta a questo complesso funerario vi è l’entrata, oggi crollata, di una tomba a camera con portico che tipologicamente ricalca altre meglio conservate nella parte opposta del Rio Maggiore. Un altro gruppo di sepolture invece si può rinvenire alla sinistra del complesso, tra cui risulta interessante una tomba con anticamera, dove la cella funeraria, vera e propria, è ancora parzialmente chiusa da un grosso blocco di tufo squadrato.
       L’originario tracciato della strada deve essere nuovamente abbandonato per scendere verso destra per gli antichi canali di drenaggio delle acque fino alla sponda del Rio Maggiore. Evidentemente la via Amerina non seguiva questo sentiero di “fortuna”, ma con un mirabile ponte scavalcava il torrente da una notevole altezza.
       La forra del Rio Maggiore dovette rappresentare un grosso ostacolo per i costruttori della strada, a giudicare dai resti delle due spalle del ponte. Anche se non molto ampio in larghezza, esso deve aver avuto una solida massa di pietre con la strada carrozzabile che passava a 12-15 m. sopra il corso dell’acqua.
       Nella spalla sud è visibile una piccola parte della faccia e dell’interno del ponte, che è costruita con in file alternate simili a quelle del ponte sul Fosso dei Tre Ponti. Una parte della spalla poggia su una fondazione di cemento, consistente in frammenti di tufo inseriti in una malta grigio-bianca e piuttosto friabile. Dall’altra parte, a destra, la spalla è costruita in modo da incorporare le tre file più basse di una struttura precedente realizzata con blocchi di tufo molto più grandi, disposti in file alte circa un metro. Il muro verticale è composto prima di tre e poi di quattro file di blocchi di tufo accuratamente tagliati (ogni fila è alta 58-60 cm.). La facciata di questo muro diminuisce progressivamente di spessore andando verso l’alto.
       Un “occhio da ponte”, ricavato nella facciata, ha reso visibile la sezione di parte dei blocchi, mostrando lo spessore del muro che pertanto risulta di m. 1,20. All’interno la muratura consiste in un amorfo riempimento di terra e massi irregolari di pietra.
       Il modo in cui sono stati risolti i problemi strutturali di questa spalla, dagli ingegneri romani, rappresenta un approccio più sofisticato ed economico rispetto a quello applicato, in epoche posteriori, nel solido massicciato ricostruito a seguito del crollo del muro originario dovuto a fondamenta difettose.
       Oggi il Rio Maggiore è “scavalcato” da un modestissimo ponte in legno e ferro, quindi il percorso storico prosegue, inerpicandosi su di una salita, che inizia in corrispondenza di due stupendi pioppi, per arrivare preso un’altra eccezionale area sepolcrale.
      La piccola “piazzola”, recentemente ripulita dai volontari del Gruppo Archeologico Romano, mostra due magnifiche sepolture a portico. La prima a destra, denominata “Tomba della Regina”, si  presenta con un portico a tre arcate di cui una crollata, dietro le arcate si apre un atrio a soffitto piano e delimitato da una cornice a gola rovescia che forse incorniciava una iscrizione dipinta. Molto interessante la struttura della porta con un chiaro riferimento agli ingressi delle abitazioni, da notare i due scudi scolpiti ai suoi lati. La camera sepolcrale è preceduta da un piccolo atrio-corridoio con un condotto verticale che conduce ad una terrazza superiore, la camera a forma di “U” ospita loculi scavati nelle pareti e sicuramente, in origine, chiusi da lastre fittili.
       Accanto alla “Tomba della Regina” se ne apre un’altra del tutto simile alla prima. Procedendo verso il tracciato della via Amerina, una terza versione delle due precedenti ma più semplice con un piccolo atrio esterno ed una camera rettangolare.
       Poco prima di incrociare nuovamente la via Amerina, il percorso passa proprio accanto al cosiddetto “pozzo” di comunicazione, al di sopra dell’ingresso di una tomba, che probabilmente, si apre sul ciglio del burrone. Si tratta di una sepoltura da poco portata alla luce, ma saccheggiata in antico. La tomba, simile alle precedenti, è composta da una semplice camera rettangolare ed un atrio con condotto verticale.
       Ora si torna a percorrere la via Amerina forse nel suo tratto più suggestivo.
       Lasciato alle spalle il ponte sul Rio Maggiore, la via consolare proseguiva il suo corso verso Falerii Novi attraverso una tagliata, oggi nominata dagli archeologi Cavo degli Zucchi. La prima tratta mostra per diverse decine di metri la sua pavimentazione originaria, conservata dal terreno che si è accumulato nei secoli del suo abbandono.
       La strada risulta realizzata con eccezionale cura, come attestano le perfette connessioni tra i blocchi di basalto secondo le tecniche costruttive dell’epoca. La pavimentazione visibile non è che una minima parte di quella che ancora rimane nascosta sotto uno strato di circa un metro e mezzo di terreno.
       Si tratta di un ottimo esempio di strada lastricata romana del periodo repubblicano, di due metri e mezzo di larghezza. La sua sezione è leggermente incurvata – più alta al centro, più bassa verso l’esterno – in modo da permettere lo smaltimento delle acque piovane che venivano poi convogliate in canali laterali. Lungo i margini, ad una distanza regolare di un metro (tre piedi romani), sono rimasti in situ dei blocchi rialzati, le crepidini, che fungevano anche da paracarro.
       In questo punto si apre il Cavo degli Zucchi, recentemente riportato alla luce dal Gruppo Archeologico Romano. Questa tagliata, come la precedente, funge da raccordo tra il ponte e la cresta del raccordo superiore. Lungo le sue pareti sono state collocate decine di sepolture di epoca romana.
       La prima interessante tomba ad essere incontrata consta di una camera rettangolare con due loculi funerari laterali; il soffitto è piatto e presenta tracce di intonaco scolorito. La facciata, oggi in parte crollata da un lato, fu intagliata in modo da rappresentare una muratura a blocchi di tufo alti 24 cm. A destra dell’ingresso si intravede un’iscrizione: IN AGR(O) P(EDES) XVIII, che probabilmente indica che l’appezzamento di terreno, che si sviluppa oltre la tomba, è di proprietà della famiglia sepolta.
       Più avanti, rimanendo sempre sulla destra della tagliata, si incontra una tomba, con piccola anticamera, simile a quelle del gruppo della “Tomba della Regina”, ma senza condotto verticale. I loculi sono disposti su tre lati. Sul soffitto piatto fortunatamente resta dell’intonaco dipinto che mostra ancora lo schema decorativo originale: ampie fasce rosse che dividono le pareti bianche in pannelli. Lo schema di questa tomba segue una forte e consolidata tradizione etrusca ancora viva in epoca romana.
      Verso la parte terminale della tagliata è stata recentemente riportata alla luce una scalinata monumentale scavata nel tufo che consentiva l’accesso ad una tomba a camera ed ad alcuni loculi ricavati sulle pareti della tagliata stessa.
       Risalendo la tagliata emergono sulla destra i resti imponenti di un mausoleo; attualmente si conserva solo l’interno, costruito con blocchi di tufo rettangolari uniti da malta grigia. La facciata del mausoleo era rivestita da travertino ed  era rifinita con elementi rastremati verso la sommità.
       Oltre il mausoleo termina il “Cavo” e il percorso giunge sulla sommità del crinale delimitato dal Rio Maggiore e dal Rio Calello. Qui la via Amerina aveva un andamento pianeggiante ed il suo reale corso ormai è irriconoscibile a causa di pesanti lavori agricoli che hanno divelto i basoli della pavimentazione. Si può comunque intuire il tracciato percorrendo la striscia residua di vegetazione spontanea che miracolosamente è rimasta a segnare la presenza dell’antica strada.
       Quando il percorso penetra all’interno di una piccola boscaglia, si ritrovano tracce della pavimentazione. Questo lembo superstite dell’antica macchia che ricopriva questa parte di territorio, oggi area marginale della lottizzazione di “Parco Falisco”, sembra proteggere i resti della strada che, avvalendosi di una ennesima tagliata cosparsa di tombe, purtroppo adibite a depositi di rifiuti, si accinge a oltrepassare il Rio Calello.
       Il Rio è molto piccolo d il ponte segue lo schema consueto: tagliata, spalla, arco singolo, spalla, tagliata, ma di ampiezza minore dei precedenti. La freccia dell’arco (ora crollato) era di circa 4-5 m. Per osservare la struttura, si può scendere verso destra lungo la spalla del ponte, dove si ritrovano dei blocchi di tufo identici a quelli dei due già visti.
      Oltre questi resti si prosegue in leggera salita, e sul lato ovest della tagliata (a sinistra), è situata una ennesima piazzola con due pareti tufacee modellate con sepolture, loculi, arcosoli e colombari con evidenti tracce di pitture.
       La via Amerina prosegue il suo tracciato ai margini dell’area residenziale; oltrepassata la “torre” dell’Enel che, come un novello mausoleo, chiude la strada, per cui obbliga a passare all’interno di un noccioleto, lasciando la strada romana sulla destra. Anche in questo punto, i Romani realizzarono una tagliata che, al momento, non è praticabile a causa dell’intricata vegetazione arbustiva.
       Al limite del noccioleto ritorna il bosco che ricopre i versanti della forra del Rio Purgatorio. Attraverso uno stretto passaggio tra la vegetazione si arriva al cospetto di due grandi mausolei in opera cementizia. Anche in questo luogo si può rintracciare il punto dove passava la strada, da alcuni segni evidenti quali i basoli affiorati dal dilavamento dell’acqua, come dai resti dell’imponente ponte che attraversava l’ultima forra prima di entrare a Falerii Novi.
       Il ponte fu il più ambizioso tra quelli precedentemente descritti, anche se segue gli stessi schemi costruttivi. La spalla, molto massiccia, è edificata con solidi blocchi di tufo di dimensioni insolitamente grandi (68-70 cm.). Dalla sponda opposta il ponte si avvale di una piattaforma di roccia sporgente che si proietta dal dirupo verso il torrente formando quasi una spalla naturale, su cui si è adattato il tracciato stradale per entrare direttamente nella città attraverso la porta sud. La dislocazione della porta e quindi di una delle strade assiali della città di Falerii Novi fu condizionata da questo affioramento roccioso.
       Il sentiero, che scende verso il corso del Rio Purgatorio, da la possibilità di ammirare, immerse nella rigogliosa vegetazione e scavate nella parete tufacea, alcune sepolture, tra cui una enorme voltata a botte e divisa in due da un muro intonacato.
       Poiché non è possibile accedere nella città di Falerii Novi da questa direzione, si rende necessario tornare indietro sino in prossimità della “torre” Enel e, attraversando la zona residenziale del “Parco Falisco”, dirigersi verso l’entrata ovest dell’antica città romana di Falerii Novi.
       Prima di attraversare il ponticello moderno sul Rio Purgatorio, si volta a sinistra, tenendosi sulla riva destra. Un sentiero appena tracciato conduce alle catacombe dei SS. Gratiliano e Felicissima che all’epoca della loro maggiore frequentazione contavano quasi un migliaio di salme. Nei confronti di questi martiri esistono notevoli problemi agiografici. Sono noti esclusivamente nelle tarde leggende del VI-VII secolo, in una PASSIO ambientata sotto Claudio il Gotico che narra del loro martirio, avvenuto “….FORAS PORTAS CIVITATIS…..NON LONGE AB URBE FALARIS IUXTA RIVUM…” (….fuori dalle porte della città…..non lontano dalla città di Faleri vicino ad un ruscello…).
       Il monumento, scavato all’interno di una collina, si compone essenzialmente di quattro gallerie, grosso modo parallele, aperte su una scoscesa parete di tufo che prospetta su una spianata, dove tra la vegetazione, si scorgono le strutture dell’abside di una chiesa. La caratteristica più saliente dell’impianto cimiteriale è certamente la grande larghezza delle gallerie, che in alcuni punti è superiore ai tre metri; particolare è anche la struttura a gallerie parallele. Per la cronologia generale del cimitero non si dispongono elementi particolarmente significativi ma si suppone che può essere stato frequentato dal IV al VI secolo. La localizzazione delle catacombe nel territorio e quindi lo sviluppo del Cristianesimo non a caso segue i tracciati delle maggiori vie consolari. Il grande numero di sepolture collocate nelle catacombe dei SS. Gratiliano e Felicissima fanno altresì supporre che siano state utilizzate come area comunitaria a servizio dei vari insediamenti sparsi lungo la via Amerina come ville e fattorie rustiche.
       In questo cimitero tutte le sepolture sembrano ricordare un tenore di vita delle comunità piuttosto modesto: non vi sono monumenti degni di nota, né pitture di pregio. Una testimonianza è rappresentata dall’uso dei tegoloni in terracotta per chiudere i loculi, che poi venivano intonacati di bianco e quindi facilmente utilizzabili per le iscrizioni.
       Proprio in prossimità delle necropoli romane, pagane, è stato impiantato un cimitero paleocristiano che ne ricalca le forme e la tipologia. Tra le necropoli falisco-romane e le catacombe esiste una continuità storica e un modo analogo di rapportarsi all’ambiente naturale.
       Il nuovo modello culturale definito dal Cristianesimo, con le tipologie insediative e sepolcrali che ne seguono lo sviluppo, può essere rintracciato, già entro la fine del V secolo, quando, per certo, Nepi e Acquaviva (465) sono sedi di diocesi. Dopo circa 100 anni si trova menzionata la diocesi a Falerii Novi (595 – 600). Più tardi, al contrario, scompare la sede vescovile di Acquaviva per motivazioni legate all’invasione dei Longobardi (non è più attestata sin dal 502). Alcuni autori ipotizzano l’esistenza di un’altra sede vescovile nella Statio Ad Baccanas al XXI miglio della via Cassia.
       Importanti in questo periodo sono i cenobi di S. Silvestro sul Monte Soratte e nella Valle Subpentonia, presso Castel S. Elia.
       Si deve proprio ai monaci la costruzione di insediamenti rupestri che hanno svolto un ruolo fondamentale nella riconnessione del tessuto sia urbano che territoriale di questa parte del Lazio. Questi primi eremiti occuparono i siti abbandonati di epoca falisca ed, adattandoli a funzioni religiose ed abitative, riuscirono a recuperare delle preesistenti entità agricole già dal III-V secolo. Successivamente queste dimore vennero modificate in vere e proprie chiese rupestri dedicate ad un martire. Piccoli nuclei quindi si formarono di solito in corrispondenza di nodi viari, dando vita poi in alcuni casi a nuovi centri urbani.
       Questi caratteri di vita monastica sono riscontrabili anche in altre località molto lontane tra di loro come addirittura in Cappadocia, al centro della Turchia, fino in Siria ed in Palestina. In Italia sono presenti stupendi esempi di insediamenti rupestri nelle Murge, sia in Puglia che in Basilicata.
       I monaci rilevano nelle forme chiuse delle tombe e delle abitazioni trogloditiche l’esempio da ripetere per i loro rifugi e scavano anch’essi nel tenero tufo la loro grotta. Per essi quindi la grotta rappresenta un nascondiglio sicuro ed anche la possibilità di un completo isolamento che, unitamente al contatto con la nuda pietra, mortifica il corpo ed eleva lo spirito in una vita puramente contemplativa.
       La vita religiosa scopre nelle profonde forre dell’Agro Falisco l’ambiente idoneo alla meditazione e questi luoghi divengono presto un richiamo per i votati alla vita ascetica. Questi primi centri rupestri contengono, nelle loro forme articolate, negli schemi degli spazi liturgici e a volte iconografici, l’essenza dell’incontro del mondo bizantino con quello latino. Il processo evolutivo di questi insediamenti parte dalle forme degli eremi, semplici celle degli anacoreti caratterizzate da modesti spazi ipogei con planimetrie informi ed architetture povere. Generalmente con ingressi rifiniti, angusti e protetti, arroccati in luoghi scoscesi, isolati e difficilmente raggiungibili. L’interno presenta pareti nude, abbellite da qualche croce graffita, un giaciglio e qualche nicchia per deporvi i pochi oggetti personali. Successivamente vi è il passaggio ad una vita comunitaria prima con la laura, poi con il cenobio.
I cenobi si presentano con vari molteplici e comunicanti, ricavati con tagli nel masso tufaceo; vi sono i giacigli, scanni, luoghi di preghiera oltre a strutture per usi quotidiani, tra cui le cisterne per l’acqua e i pozzi per la conservazione delle provviste alimentari. Non è raro trovare accanto a questi cenobi, i più importanti, cappelle funerarie o piccole chiese monaulate e tombe dei monaci. Di solito le pareti vengono impreziosite da affreschi che testimoniano l’alto grado di cultura raggiunto da queste comunità monastiche.
       Può essere interessante “allontanarci di qualche passo” dal nostro percorso per seguire il filo conduttore degli insediamenti monastici: esso ci porta dalla lontana Anatolia al nostro territorio. In Anatolia nasce S. Basilio Magno, precettore della via cenobitica, e lì fonda i primi monasteri; ma già nell’VIII secolo il mondo cristiano orientale con la lotta iconoclastica vede la persecuzione e la chiusura di vari monasteri ed il trasferimento delle comunità in altri luoghi come l’Italia meridionale e centrale: luoghi simili alle terre originarie per il loro aspetto geografico, che ospitano in un lungo peregrinare queste comunità, legate fra loro oltre che dalla Fede, da un comune senso di “paesaggio dell’anima”, che proprio le forre scoscese e impervie dell’Agro Falisco possono ben testimoniare. Dobbiamo infatti rilevare, ad esempio, che il Monastero di S. Silvestro de Capite in Roma, con vasti possedimenti nel nostro territorio, è stato sino al XIII secolo soggetto alla regola dei monaci basiliani e solo successivamente ai benedettini.
       E’ grazie ai monaci benedettini, che tornano ad insediarsi in questi antichi siti rupestri, che viene a formarsi quel reticolo di scambi e di attività sociali che porterà al recupero di centri abbandonati, aggregando la popolazione sparsa sul territorio in piccole comunità.
       Un altro tipo di insediamento religioso molto importante, per gli sviluppi futuri del nostro territorio e per l’accrescimento del potere papale, è la domusculta. Papa Adriano I nel 780 creò la domusculta di Capracorum presso Monte Gelato. In genere si tratta di grandi tenute agricole con una serie di centri rurali alle sue dipendenze gestiti direttamente da un signore (DOMINUS) senza ulteriori passaggi tra varie categorie di subaffittuari. Le domusculte sono collocate strategicamente lungo tutte le principali vie di accesso a Roma e rappresentano uno dei primi esempi di signorie politiche medievali organizzate sotto la guida del papato. Questo tipo di comunità contribuì alla formazione di villaggi nel momento in cui la campagna si spopolava. Inoltre fu parte di una strategia condotta dal papato per tenere a freno la crescita del potere dei vari signorotti locali.
       Abbandonate le suggestioni paleocristiane evocate dalle catacombe, si riprende la strada asfaltata per giungere nei pressi di quello che rimane di Falerii Novi, città romana fondata nel III sec. a.C. Oggi la porta principale è quella posta ad ovest, denominata di “Giove” per l’effigie scolpita nella chiave di volta dello stupendo arco, realizzato con conci radiali di peperino. L’originale della testa è conservato nel Museo Archeologico Nazionale dell’Agro Falisco di Civita Castellana.
      Falerii Novi, per millenni, è stata semplicemente indicata con il toponimo di Falleri essendo
Novi e Veteres una recente specificazione erudita utilizzata per distinguere la città romana dalla falisca (Civita Castellana). I Romani, difatti, distrutta la Falerii falisca, nel 241 a.C., trasferirono la popolazione superstite in un luogo meno difeso naturalmente, rendendo necessaria la costruzione di mura perimetrali. Questa nuova città rappresentava un importante caposaldo per la colonizzazione romana del territorio dell’Etruria Meridionale e rispondeva a delle precise esigenze di strategia militare.
      Dalla fondazione, o forse dal 219 a.C., sino all’89 a.C. Falerii è città federata governata da due PRAETORES, inviati da Roma. Nell’89 a.C. ottiene lo stato di municipio della tribù Horatia ed è governata da QUATTUORVIRI. L’imperatore Gallieno (260-268 d.C.) la eleverà al rango di Colonia con l’appellativo di Iunonia.
       Falerii Novi è una città progettata ex novo, sgombra da precedenti insediamenti di una certa consistenza. L’impianto urbano, ricostruito ipoteticamente sulla base delle evidenze archeologiche e dalle fonti conosciute, è impostato su una maglia ortogonale, dove la via Amerina, costituisce  il suo asse portante orientato nord-sud, il cosiddetto Cardo. Probabilmente tutta la città era stata impostata secondo questa strada e le porte, che volgevano a sud e a nord erano le più importanti e imponenti, perché la prima era in direzione di Roma e l’altra di Amelia.
       Non si è certi del nome del Decumano Massimo, l’altra via principale, che sicuramente era porticata. Probabilmente la parte verso ovest veniva chiamata via Cimina e quella verso est via Annia. Questa strada, oggi totalmente scomparsa, era legata alla memoria storica degli abitanti. Dalla porta, che guardava verso il Soratte, partiva la via Sacra che conduceva alla “Valle dei Templi” nei pressi della Falerii falisca, dove ogni anno si svolgevano le solenni processioni in onore della dea Giunone, come ci attesta il poeta latino Ovidio negli “Amores” (I.II.935).
       La “Forma Urbis” della Falerii romana, delimitata dal circuito delle mura, che misura circa km. 2,5, si definisce vagamente come un trapezio, o meglio ancora, un quadrilatero, che si è dovuto adattare alla conformazione dei luoghi, principalmente con la forra del Rio Purgatorio. Le mura erano rinforzate da 63 torri e l’insieme non aveva una funzione strettamente difensiva dato che vi erano ben sette porte e da quella principale si accedeva tramite un ponte. L’unica porta che manteneva un carattere più arroccato era quella oggi chiamata “Bove” e anticamente forse “Puteana”. In alcuni punti le mura si conservano ancora in tutta la loro altezza. L’intera struttura è realizzata, alla maniera falisca, in opera quadrata con blocchi di tufo rosso ben squadrati e posti a secco alternando la posizione di taglio a quella di testa.
       All’incrocio tra il Cardo e il Decumano, l’ombelico della città, vi era localizzato il Foro, centro politico, economico e culturale della città. Un recente scavo condotto della Soprintendenza ha messo in evidenza la struttura di un vasto edificio di m. 50 per 40 di probabile uso pubblico. All’interno della città non sono più visibili le strutture riportate alla luce dagli scavi ottocenteschi e dei primi anni del ‘900, ma è possibile rintracciare l'avvallamento, in prossimità della porta “Bove”, corrispondente all’antico teatro (età Augustea), che i relatori dell’epoca (1830) giudicarono costruito secondo il tipo greco, con le gradinate per gli spettacoli (cavea) appoggiate al pendio naturale del terreno e non sostenute da strutture in muratura come sempre avviene per i teatri di tipo romano. Presso la porta nord, un ultimo scavo ha messo in evidenza un riadattamento successivo dell’accesso originale, allo scopo di migliorare la difesa e i controllo di coloro che accedevano alla città, nel periodo del tardo impero. Fuori delle mura, ad est della porta nord, una depressione del terreno di forma ellittica, circondata da arbusti, indica la posizione dell’anfiteatro, anch’esso in parte scavato dai primi studiosi.
       Tutta l’area archeologica di Falerii Novi è stata nel corso dei secoli utilizzata per trarre i materiali occorrenti per le fabbriche medievali e, più recentemente, sotto il dominio papale, saccheggiata da ripetuti scavi, al solo scopo di cercare tesori ed opere d’arte, che hanno costituito intere collezioni ora disperse in ogni parte del mondo.
      La grande costruzione, che si incontra appena superata la porta di Giove, è l’antica abbazia di S.  Maria di Falleri. Il complesso costituito dalla chiesa e dalla primitiva abbazia è stato ampiamente rimaneggiato in epoche successive. La scarsità e la confusione delle fonti non ne permettono una sicura ricostruzione storica. La tradizione locale vuole, che i fondatori del monastero, fossero i padri Benedettini, e, che intorno al 1160-70, il complesso passasse ai monaci Cistercensi. La struttura complessiva della chiesa è di “stile” cistercense. La nitida facciata è arricchita, da un magnifico portale in marmo bianco, fiancheggiato da quattro eleganti colonne, e perfettamente conservata. Il portale, come afferma una incisione, è opera di Lorenzo e Iacopo, appartenenti alla famiglia dei Cosmati famosi marmorari romani che realizzarono anche l’elegante portico e le decorazioni policrome del pavimento del duomo di Civita Castellana.
       Trovarsi all’interno di questo edificio al tramonto, quando il sole dorato invade le navate della chiesa attraverso il portale, è un’esperienza carica di suggestioni, di mille valori e di intima serenità.
       Il percorso storico termina proprio qui all’interno dell’abbazia. La via Amerina, come una macchina del tempo, ha permesso di viaggiare attraverso i secoli. Un viaggio che partendo dall’antichità, dai Falisci, ha rivelato la grande civiltà dei Romani, ha fatto conoscere la vita dei primi Cristiani e le vicissitudini legate alla dominazione dei Longobardi, quindi alla rinascita della vita sociale ed economica nei castelli e nei monasteri.
       Tutta l’area del percorso storico dalla Torre dell’Isola, alla via Amerina fino alla città di Falerii Novi è attualmente proprietà privata. Ogni visita è condizionata dagli umori dei proprietari, in particolar modo questo vale per l’area di Falerii Novi, dove il complesso abbaziale è una fattoria.
       E’ auspicabile che un’area così importante per la ricerca scientifica e così vicina al cuore della gente, che in essa ritrova le proprie radici e il filo della storia, venga restituita alla popolazione attraverso la creazione di un “Parco Archeologico della Via Amerina e di Falerii Novi”,  per offrire nuovamente dignità ai luoghi, a riscatto delle troppe ingiurie subite.



IL SENTIERO NATURA

La forra del Rio Maggiore


    LA FUNZIONE DEL SENTIERO NATURA

Il sentiero natura ha principalmente una rilevanza educativa, serve a prendere un contatto più diretto e qualificato con l’ambiente naturale del nostro territorio.
       Percorrere correttamente un sentiero natura significa fermarsi ad ogni luogo che può presentare dei particolari caratteri naturalistici, accostarsi all’ambiente naturale che ci circonda, alla vegetazione, per conoscere i suoi segreti, capire che va salvaguardato perché patrimonio di tutti, perché fa parte di un mondo che ha una storia, dei valori fondamentali di vita, un equilibrio biologico delicato, che non può essere ulteriormente alterato.
       Questo sentiero natura rappresenta un esperimento volto soprattutto a sensibilizzare le coscienze sull’importanza della conservazione dell’ecosistema delle forre ed è particolarmente indirizzato ai ragazzi quali futuri utenti dell’ambiente, oltre a tutte quelle persone a cui interessa avvicinarsi più strettamente e direttamente alla natura.
       La forra del Rio Maggiore si presta ad essere percorsa in quanto conserva molti aspetti tipici dello ecosistema delle forre. La vegetazione in certi casi si presenta ancora integra, in altri modificata dalla ceduazione ed in altri ancora in una fase di recupero dell’assetto originario. Per quanto riguarda la fauna, si può affermare che si presenta in uno stato di decadimento delle popolazioni animali, pertanto si spera che, una maggiore protezione, potrà condurre alla reintroduzione di specie da tempo ormai scomparse.
       Per questo non sarà trattata immediatamente la descrizione del sentiero natura, ma verrà illustrata l’importanza dell’ecosistema della forra e i problemi derivanti dall’inquinamento.


L’ECOSISTEMA DELLA FORRA

       Gli ecosistemi sono degli spazi di territorio omogenei, caratterizzati da un certo popolamento animale e vegetale, a cui corrispondono determinati fattori ambientali.
       Un ecosistema è per esempio una piccola isola o una pozza d’acqua, la semplice striscia erbosa che riveste la scarpata della forra, il torrente ecc..
       Per comodità, tuttavia, viene preso in esame un ecosistema più ampio, che è certamente meno preciso, ma lo stesso significativo, quello della forra.
       Pensando ad un ecosistema, ci vengono in mente organismi viventi (piante, animali) che lo popolano, ma un ecosistema è fatto anche di energia e di materiali non viventi.
       Per quanto riguarda l’aspetto energetico, l’ecosistema è aperto. Questo significa che, essendo l’energia utilizzata dagli organismi, quasi tutta di origine solare, il suo ciclo è aperto; il sole infatti continua ad inviare energia alla terra in quantità sempre uguale, nonostante il consumo degli organismi.
       Tutta questa energia viene utilizzata in vario modo dagli organismi viventi: i primi ad usufruirne sono le piante verdi, che la elaborano, attraverso il processo di fotosintesi, trasformando sostanze inorganiche in materia vivente; i secondi ad utilizzarla sono gli erbivori che si nutrono delle piante; i terzi sono i predatori e i parassiti che vivono a spese di erbivori e di altri carnivori. C'è dunque tutta una scala di utenti diretti (le piante) e indiretti (erbivori e carnivori) dell’energia solare.
       L’energia dunque passa da un anello all’altro della catena alimentare che caratterizza ogni ecosistema. Un esempio di catena alimentare relativo alla forra, può essere quella proposta nel disegno.
       Nella catena alimentare proposta si osserva come le piante verdi (graminacee) producono sostanze alimentari per gli insetti, il topo e l’arvicola; gli insetti a loro volta vengono mangiati dal riccio e dal pettirosso; infine il topo, l’arvicola, il riccio e il pettirosso sono predati dalla volpe e dall’allocco che sono al vertice di questa catena; tutti gli organismi sono poi decomposti dopo la morte da batteri e altri agenti di decomposizione.
       Ad ogni tappa da un organismo all’altro si calcola che vada perduto in media un 10% di energia. Per questo il carnivoro occupa il posto più alto della catena alimentare. Il cosiddetto superpredatore non viene predato da nessuno. Non perché la volpe o l’allocco o, in altri ecosistemi, il leone, il lupo e la tigre siano animali invincibili, ma perché producono poche calorie e non vale la pena di mangiarli. Il lupo percorre ben 30 chilometri ogni giorno, per riuscire a trovare l’energia necessaria per sopravvivere (un animale da mangiare); una tigre che ha un territorio di caccia di centinaia di chilometri quadrati. In tali condizioni un predatore sarebbe in grado di fornire talmente poche calorie che non meriterebbe di essere cacciato.
       Per quanto riguarda i materiali, l’ecosistema è chiuso. Infatti i materiali utilizzati dagli organismi come acqua, fosforo, carbonio passano alternativamente dagli organismi all’ambiente e viceversa. La pianta verde preleva materiali abiotici dall’ambiente e tutti gli organismi viventi, quando muoiono, restituiscono all’ambiente ciò che avevano prelevato.
       Ogni materiale non vivente ha un suo ciclo: per esempio il ciclo del carbonio. Il carbonio si trova nell’aria sotto forma di anidride carbonica (CO2). La CO2 viene prelevata dalle piante verdi con la fotosintesi e trasformata in composti chimici organici e quindi in materia vivente; gli erbivori si procurano il carbonio mangiando le piante; i carnivori mangiando gli erbivori, infine il carbonio ritorna nell’aria sotto forma di CO2 per effetto della respirazione di tutti gli organismi animali o per la decomposizione della sostanza organica.
       Un ruolo importante all’interno dell’ecosistema viene rivestito dai funghi, in quanto, essendo organismi eterotrofi, vivono a spese di altri vegetali, vivi o morti, oppure associandosi alle piante. L’unità di base dei funghi è rappresentata dall’ifa, elemento filamentoso con struttura microscopica, sempre ripetutamente ramificato ed il cui insieme costituisce il micelio. In questo “organo” si differenziano le strutture riproduttive, che portano alla formazione del corpo fruttifero preposto alla produzione di spore.
       Il corpo fruttifero si differenzia spesso sulla superficie del suolo con strutture macroscopiche diversissime, e, per le sue forme assai eleganti e curiose, attrae l’attenzione dei naturalisti come pure dei raccoglitori per i caratteri organolettici spesso pregevoli.
       Dalla germinazione delle spore ricomincia il ciclo biologico con la formazione di nuove ife.
       Per le loro strutture, per la peculiarità del ciclo biologico e per l’eterotrofismo che li caratterizza, i funghi sono sistematicamente delle tallofite e come tali distinti in un regno a parte delle piante.
       Parassiti, saprofite e simbionti svolgono tutti un ruolo importante ed insostituibile per la conservazione dei nostri boschi. Essi infatti sono dei formidabili regolatori degli equilibri biologici, condizionando la vita di tutti gli altri organismi. A parte i parassiti, ai quali si può attribuire un ruolo di regolazione dello sviluppo degli altri organismi, i saprofiti preposti alla degradazione della sostanza organica, cioè dei residui vegetali ed animali, sono responsabili diretti della conservazione della fertilità del suolo. Importante è pure il ruolo dei simbionti, che si incaricano di assorbire i nutrimenti dal suolo cedendoli alle piante in un mirabile rapporto simbiotico.
              Tutti i funghi sono necessari ed il raccoglitore dovrà rispettare sia gli eduli, osservando i limiti di raccolta imposti dalle leggi, come pure i velenosi, perché anche tra questi ultimi si trovano importanti simbionti necessari per la vita delle piante.
       Dopo aver esaminato l’ecosistema della forra nelle sue linee generali, che rispecchiano quelle di altri tipi di ecosistemi, merita chiedersi quale effetto ha l’inquinamento su di esse.
       L’ecologia definisce l’inquinamento come una errata collocazione di risorse per alterazione dei cicli biogeochimici. Tenendo presente che i cicli biogeochimici sono quelli che negli ecosistemi hanno organismi viventi (catena alimentare), energia e materiali non viventi (cicli dei materiali): l’uomo inquina quando altera questi cicli, determinando una distribuzione sbagliata delle risorse di cui gli organismi hanno bisogno.
       Per comprendere questa definizione, è necessario chiarire che l’inquinamento altera la distribuzione dei materiali in due modi:
1)      modificando la velocità di flusso dei materiali fondamentali;
2)    2) introducendo nuovi materiali sotto forma di nuove molecole artificiali, che le specie di decompositori non riescono ad aggredire.
      Un esempio del primo modo di inquinare che si verifica soprattutto nel tratto a valle del Rio Maggiore che attraversa Civita Castellana, sono gli scarichi urbani, che immettono nell’acqua un’eccessiva quantità di materiali nutritizi quali nitrati, fosfati e vari residui organici. Questo provoca un’alterazione della catena alimentare dell’ittiofauna, che subisce trasformazioni profonde. Solo poche specie riescono ad adattarsi e non si conosce neanche per quanto tempo.
      Un esempio del secondo modo di inquinare è dato dai materiali nuovi che gli organismi non sono in grado di aggredire, come ad esempio, i detergenti. Pur non essendo tossici, i detergenti artificiali causano un grosso inconveniente: formano grosse masse di schiuma, che impediscono e ostacolano notevolmente la vita di innumerevoli organismi viventi nelle acque.
      La parte a monte del Rio Maggiore ha una situazione migliore; i tipi di inquinamento sono gli stessi, causati da situazioni diverse, quali la presenza di insetticidi e diserbanti usati nelle aree coltivate in prossimità della forra. Ma quantitativamente l’inquinamento è minore.   
      A conclusione, è necessario ricordare che tutti gli ambienti, non solo quello della forra, sono estremamente fragili. Non si può fare una cosa, pensando che non abbia ripercussioni sull’ambiente sia che si tratti di abbattere un albero o uccidere un animale.
      Una volta un ecologo disse: “Gli effetti di qualunque apprezzabile intervento in un ecosistema sono come le onde che si propagano in uno stagno dal punto in cui è stato gettato un sasso: non finiscono mai”.


IL SENTIERO NATURA

       Non molto lontano dall’abitato di Civita Castellana esiste ancora un luogo che potrebbe essere definito, senza esagerazioni eccessive, un angolo di paradiso perduto, un piccolo relitto di natura selvaggia, rimasto intatto fino ai nostri giorni. Per essere più precisi, si potrebbe parlare di “inferno”, poiché il paesaggio che si mostra ai nostri occhi ci porta immediatamente alla memoria le descrizioni dantesche delle “selve selvagge e oscure”. Probabilmente Dante, quando scriveva la sua Divina Commedia, aveva presente il paesaggio delle “forre” dell’Etruria Meridionale che aveva attraversato nei suoi viaggi per Roma.
       Questo luogo incantevole e suggestivo è la forra del Rio Maggiore, il fosso che delimita a nord il centro storico di Civita Castellana, e, in prossimità del Ponte Clementino, riceve le acque del Rio Purgatorio, formando, con la loro confluenza, il promontorio tufaceo del Castellaccio.
       Il sentiero natura lungo questa forra si sviluppa per circa cinque chilometri e non risulta eccessivamente difficoltoso; tutto ciò che serve è avere un pomeriggio libero, dotarsi di un sufficiente equipaggiamento da campagna (è importante avere a disposizione anche un paio di stivali di gomma), armarsi di buona volontà e partire, avendo cura di rispettare coscientemente l’ambiente.
       Il miglior periodo per conoscere questa forra è quello che va dall’inizio del mese di marzo fino alla metà di giugno: la vegetazione non è molto rigogliosa e permette di osservare meglio i lineamenti del paesaggio, fioriscono molte varietà di piante, il clima è ideale.
       L’inizio del sentiero natura è stato stabilito dove termina la via del laghetto alla Fontana Quagliola, che è raggiungibile con i mezzi del servizio urbano della Vitertur. Attraverso un camminamento ricavato dalla roccia, sfruttando i terrazzamenti naturali, si scende nella valletta sottostante, dove, fino a qualche anno fa, c’era un invaso d’acqua, il “laghetto”, formato dallo sbarramento artificiale che serviva ad alimentare una centralina elettrica. Oggi lo sbarramento è stato aperto, la centralina non è più funzionante e il Rio Maggiore forma una bella cascata di circa otto metri di altezza.
       Proseguendo a valle della cascata, si potrebbe giungere sotto il centro storico di Civita Castellana, ma questo itinerario per ora è sconsigliabile in quanto i segni della civiltà dei rifiuti sono disastrosi, anche se lo scenario naturalistico, che ora si può solo intuire, sarebbe molto interessante da osservare.
       Al contrario, andando verso ovest a monte della cascata, il paesaggio si mostra in tutta la sua naturale bellezza e i segni dell’inquinamento sono ancora deboli.
       La prima parte del sentiero natura si snoda attraverso un primo tratto pianeggiante finché si giunge nei pressi di una strozzatura dove il Rio Maggiore, con una leggera ansa, sfiora il versante destro della valle, quindi diventa necessario guadare ben due volte per ritornare lungo la via destra. Si percorre poi una piccola spianata, occupata da arbusti di sambuco, che viene quasi subito abbandonata, per salire leggermente lungo la scarpata. Il sentiero natura assume un andamento di mezzacosta, alto sopra il fosso, e sfrutta delle opere realizzate in epoche precedenti quali una stretta e suggestiva tagliata scavata nel tufo. Dopo questo angusto passaggio la forra si fa più profonda e si mostra nella sua bellezza più selvaggia.
       Il fosso si muove a fatica, con strette anse, impedito nel suo scorrere da affioramenti rocciosi e da grossi massi di tufo, caduti dalle pareti della valle, formando numerose cascatelle e gorghi.
       La vegetazione è quella tipica delle forre: lungo il corso d’acqua crescono bellissimi ontani, più distante il bosco è formato da cerri, carpini, aceri ed eccezionalmente da castagni; sul versante esposto a sud, più assolato e riparato dai venti freddi, si insedia un tipo di vegetazione più mediterranea formata di lecci, eriche e corbezzoli.
       Dopo una mezzora di marcia si giunge in un luogo dove, lungo le pareti della forra, si sono formate delle grotte naturali che probabilmente, stando dai resti ritrovati al loro interno, furono abitate nel neolitico.
       Nei pressi di queste grotte, risalendo il Rio Maggiore, è nuovamente necessario guadare e questo luogo si presta ad una gradevole sosta per poter gustare di uno degli angoli più suggestivi della forra.
       Il sentiero natura ora corre per un lungo tratto sulla riva sinistra fino ad oltrepassare una discarica di una vecchia cava di tufo, che rappresenta il segnale più vistoso del degrado ambientale lungo questa forra, dopodichè si guada di nuovo per tornare sulla riva destra.
       Prima di giungere in vista di una nuova testimonianza storica, si gode della visione di stranissime formazioni rocciose, che sembrano essere state modellate da mani umane.
       Seminascosto dalla vegetazione, si intravede, nella parete di tufo, un ampio e profondo taglio: è l’accesso della via cava di Fantibassi che, dalla spianata sovrastante permetteva ad una strada falisca di superare agevolmente il profondo dislivello della forra. Dalla parte opposta risaliva sfruttando il più lieve pendio della valle del Rio Calello. Si tratta di una strada che si snoda in forma sinuosa per circa 190 metri con una profondità che in media si aggira sui 10/14 metri. Entrandovi, si avverte una profonda sensazione di meraviglia e si rimane affascinati da questa imponente opera. La strada si presenta larga dai tre ai quattro metri circa, con una pendenza media del 15%, una misura non eccessiva per il traffico carrabile di allora. Nel suo corso centrale, dove il fondo stradale non è ancora interrato dai detriti, si mostra divisa in un passo più approfondito e segnato dai solchi lasciati dalle ruote dei carri, e un passo più alto con funzione di marciapiede. La sezione del taglio si presenta con un profilo a bottiglia che non solo ha permesso di risparmiare nello scavo, ma offriva anche una maggiore protezione dalle intemperie. La vera caratteristica di questa via cava è la presenza di una grande quantità di segni, lettere alfabetiche ed iscrizioni incise sulle pareti.
       Il sentiero natura prosegue, a volte rasentando il corso del Rio Maggiore, a volte allontanandosi, ma sempre in piano. In alcuni tratti, quando la forra si restringe, è necessario scavalcare piccole scarpate e passare, sopra dei sassi, a pelo dell’acqua. La natura del paesaggio non esaurisce mai di stupirci, mostrandosi nei suoi aspetti più particolari: nuove cascatelle, angoli pittoreschi tra rocce dalle forme suggestive, vegetazione sempre molto rigogliosa, splendidi esemplari di ontani e cerri.
       Alla confluenza del Fosso dei Tre Ponti si incontra una sorgente d’acqua, che invita ad una piacevole sosta prima di intraprendere l’ultima parte del sentiero natura.
      Anche questo tratto della forra del Rio Maggiore si presenta molto interessante da un punto di vista naturalistico. In prossimità del corso d’acqua, vicino a dei grossi masi di tufo, precipitati dalla parete, si possono ammirare due splendidi esemplari di pioppi neri, probabilmente centenari e di dimensioni notevoli. Più avanti si può notare come l’abbandono della pratica della ceduazione sta permettendo il riformarsi di un bosco ad alto fusto.
       Il sentiero natura, prima di volgere a termine, permette di ammirare un altro fantastico luogo, che conserva il fascino di un ambiente remoto nella memoria e inquietante nella sua natura selvaggia.
       Bisogna superare una serie di passaggi difficoltosi, facilitati da un ponticello in legno e da gradini scavati nella roccia, per giungere di fronte ad un paesaggio tipicamente orrido: innumerevoli massi di tufo di diverse dimensioni, prodotti da una catastrofica frana, staccatasi dalle pareti della forra, che ora si presentano verticali, come tagliate di netto; il fosso, con un carattere estremamente torrentizio, che cambia continuamente corso e supera un notevole dislivello, passando sopra, sotto, a fianco delle rocce, scavando buche e scomparendo tra i massi, formando una successione di cascatelle e gorghi; la vegetazione è sconvolgente: alberi caduti e altri che prendono il sopravvento sui sassi, tante felci e arbusti sempreverdi e d’inverno questo è il luogo dove per primo fiorisce il bucaneve.
       La vista delle superbe rovine del ponte romano, che serviva alla via Amerina per l’attraversamento del Rio Maggiore, ci segnalano il punto di arrivo, dove, dei tortuosi camminamenti, permettono di risalire sia a destra che a sinistra per poter ammirare i resti della necropoli che era ubicata lungo questa importante strada consolare romana.
       Il sentiero natura termina in questa località, ma, chi è animato da interessi archeologici, può continuare per il percorso storico che, seguendo il tracciato della via Amerina, a nord conduce alla città romana di Falerii Novi mentre a sud al suggestivo villaggio medioevale abbandonato di Isola Conversina.





LA FAUNA DEL RIO MAGGIORE

ARVICOLA ROSSASTRA
NOME SCIENTIFICO: clethrionomys glareolus
DIMENSIONI: lunghezza 8-11 cm più 3,5-8 cm di coda.
HABITAT: l’ambiente ideale sono i boschi di latifoglie, siepi, specialmente in luoghi asciutti e caldi.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è diffusa in tutta la penisola ad esclusione della Sardegna e delle piccole isole.
CHE COSA MANGIA: si nutre di semi, radici e frutti, ma durante l’estate può abbandonare il regime vegetariano per divorare vermi, lumache, insetti e loro larve, uova di uccelli.
COME SI RIPRODUCE: la stagione degli amori va da aprile a settembre e, dopo una gestazione di 20 giorni, vengono alla luce da 4 a 6 piccoli che raggiungono lo stadio adulto dopo appena un mese e mezzo e a due mesi sono già in grado di riprodursi.
CARATTERE: l’arvicola è molto sociale, infatti ha abitudini gregarie.

DONNOLA
NOME SCIENTIFICO: mustela nivalis
DIMENSIONI: lunghezza 15-27 cm più 4-9 cm di coda.
HABITAT: assai adattabile, popola sia i boschi che le aree cespugliate sia le zone a vegetazione più rada.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: in Italia questo mustelide è presente ovunque.
CHE COSA MANGIA: prettamente carnivora, si ciba di topi, arvicole, uccelli e loro uova, anfibi e rettili, ma anche di insetti ed altri invertebrati.
COME SI RIPRODUCE: gli incontri dell’accoppiamento possono aver luogo in quasi tutte le stagioni, con maggiore frequenza in marzo-aprile. Esistono pareri discordi sulla durata della gravidanza, che sembra tuttavia variare fra le 5 e le 7 settimane. Al termine della gestazione nascono da 3 a 7 piccoli.
CARATTERE: come tutti gli animali territoriali, la donnola conduce vita solitaria.

FAINA
NOME SCIENTIFICO: martes foina
DIMENSIONI: lunghezza 41-48 cm più 4-9 cm di coda.
HABITAT: poco incline alla vita arboricola, vive in luoghi cespugliosi spesso in stretta vicinanza con l’uomo.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: in Italia questo mustelide è presente ovunque tranne Sicilia e Sardegna.
CHE COSA MANGIA: prettamente carnivora, si ciba di ogni preda viva che non possa tenerle testa.
COME SI RIPRODUCE: nella stagione degli amori miagola come un gatto per attirare i congeneri dell’altro sesso. La gestazione dura da 8 a 9 mesi ed i piccoli, di solito 3 – 5, rimangono ciechi per quasi un mese.
CARATTERE: conduce vita solitaria.

GHIRO
NOME SCIENTIFICO: glis glis
DIMENSIONI: lunghezza 13-19 cm più 11-15 cm di coda.
HABITAT: vive in boschi di latifoglie spingendosi in montagna non oltre i mille metri. Si costruisce il nido in cavità di alberi, di rocce e di muri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è presente in tutta Italia.
CHE COSA MANGIA: si nutre di frutta, ghiande, noci, nocciole, gemme, germogli, nidiate di uccelli.
COME SI RIPRODUCE: partorisce una o due volte l’anno, 5-7 o 11 piccoli per volta, che diventano sessualmente maturi solo l’anno successivo. Possono vivere fino ad otto anni.
CARATTERE: di costumi gregari, si può osservare anche di giorno, benché sia di abitudini notturne.

ISTRICE
NOME SCIENTIFICO: hystrix cristata
DIMENSIONI: è lungo 57-68 cm più 5-12 cm di coda.
HABITAT: predilige gli ambienti boscosi e cespugliosi con frequenti spazi aperti. Tipico habitat dell’istrice è la macchia mediterranea.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: si trova prevalentemente lungo tutto il versante tirrenico. Su quello adriatico l’areale è molto più discontinuo. In diminuzione la presenza in Sicilia.
CHE COSA MANGIA: la dieta è vegetariana. Mangia frutti e tuberi, bulbi e rizomi. Si nutre anche di radici e di cortecce di albero.
COME SI RIPRODUCE: il corteggiamento non dura a lungo ed ha luogo durante la stagione primaverile. La gestazione dura circa 4 mesi. Vengono partorito 1 o 2 piccoli, in una stanza della tana dove è stato sistemato materiale vegetale.
CARATTERE: vita riproduttiva a parte, l’istrice adulto è un animale solitario, timido e scontroso, di abitudini notturne.

RICCIO
NOME SCIENTIFICO: erinaceus europaeus
DIMENSIONI: lunghezza 22-27,5 cm più 2-3,5 cm di coda.
HABITAT: boschi, brughiere, zone coltivate. Vive nelle valli.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è presente in tutta Italia, anche nelle isole.
CHE COSA MANGIA: soprattutto insetti, ragni, lombrichi e lumache. Anche lucertole, topi, rane e serpenti.
COME SI RIPRODUCE: la stagione degli amori va da aprile fino a luglio, per un certo periodo i due fanno coppia fissa. La gestazione dura 5-6 settimane. Nascono da 5 a 7 piccoli, con gli occhi chiusi, senza peli, ma con gli aculei già affiorati.
CARATTERE: dopo la vita in famiglia, raggiunta la maturità sessuale, il riccio diventa un animale solitario.
ABITUDINI: il riccio è l’unico insettivoro che va in letargo. Si rinchiude in soprappeso nella sua tana all’inizio di novembre.

TASSO
NOME SCIENTIFICO: meles meles
DIMENSIONI: lunghezza 60-70 cm più 15-20 cm di coda. Altezza 30 cm; peso 10-16 kg.
HABITAT: vive in boschi di ogni tipo ed in pascoli aperti, ed è più diffuso dove sono presenti ambedue gli habitat. Occupa tane sotterranee estese con sistemi di gallerie e numerose uscite, che vengono usate e spesso allargate da generazioni successive di tassi.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è presente in tutta Italia, ad eccezione delle isole.
CHE COSA MANGIA: prodotti vegetali come frutta e bacche, ma anche piccoli vertebrati, uova, insetti, vermi, lumache, talvolta carogne.
COME SI RIPRODUCE: la stagione degli amori inizia a luglio ed il parto avviene nel gennaio o febbraio successivi. Nascono da 3 a 5 piccoli per volta. Può vivere fino ai 15 anni.
CARATTERE: è un animale sociale: le tane possono essere occupate da più animali, e vi possono essere più tane nel territorio di un gruppo.

VOLPE
NOME SCIENTIFICO: vulpes vulpes
DIMENSIONI: lunghezza 58-75 cm più 30-45 cm di coda, altezza alla spalla 35-40 cm.
HABITAT: assai adattabile, la volpe popola più o meno tutti gli ambienti naturali, dalla pianura alla montagna, purché ricchi di copertura vegetale e di rifugi.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: in Italia è ampiamente diffusa in tutte le regioni, comprese quelle insulari.
CHE COSA MANGIA: caccia soprattutto topi, arvicole e conigli selvatici, ma si nutre anche di nidiacei, insetti, chiocciole, uova e sostanze vegetali (bacche e altri frutti).
COME SI RIPRODUCE: la volpe è specie monogama. L’affiatamento della coppia non è immediato e il corteggiamento può durare anche sei settimane. Il periodo dell’accoppiamento ha luogo fra gennaio e febbraio. La gestazione dura poco, non più di due mesi e nascono da 1 a 10 piccoli.
CARATTRE: le volpi sono animali territoriali e conducono vita solitaria o in piccoli nuclei familiari.

ALLOCCO
NOME SCIENTIFICO: strix aluco
DIMENSIONI: lunghezza totale 37-38 cm.
HABITAT: vive soprattutto nei boschi con grandi alberi, terreni rocciosi e spesso in vicinanza di insediamenti urbani. E’ strettamente notturno; non costruisce alcun nido, ma utilizza cavità di ogni genere.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: in Italia si trova ovunque, tranne che in Sardegna.
PRESENZA: è specie stazionaria e di doppio passo.
CHE COSA MANGIA: si nutre di piccoli mammiferi, uccelli, insetti.
NIDIFICAZIONE: difende il nido con estrema aggressività. Si accoppia da marzo a giugno; la femmina depone 2-6 uova bianche, che cova per un mese. I piccoli vengono nutriti dalla madre con cibo portato fino al nido dal maschio e volano dopo 5 settimane dalla nascita.
CARATTERE: solitario.

BECCACCIA
NOME SCIENTIFICO: scolopax rusticola
DIMENSIONI: lunghezza totale 36 cm.
HABITAT: nelle ore diurne frequenta il folto dei boschi ricchi di terriccio e di abbondanti corsi d’acqua. Al crepuscolo vola nei prati e nei coltivi o negli acquitrini ricchi di arbusti.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è presente nelle province nord-orientali ma soprattutto nelle centro-meridionali e nelle isole.
PRESENZA: compare alla fine dell’estate per poi rimanere tutto l’inverno.
CHE COSA MANGIA: sonda il terreno con il lungo becco per catturare molluschi e lombrichi; fanno parte della loro dieta anche gli insetti.
NIDIFICAZIONE: costruisce il suo nido in una depressione del suolo foderata di erbe secche e foglie e mimetizzata sotto la vegetazione del sottobosco. Depone, da marzo a maggio, 4 uova bianco-grigie o fulve-screziate di bruno porpora. Due covate annue.
CARATTERE: diffidente.

FRINGUELLO
NOME SCIENTIFICO: fringilla coelebs
DIMENSIONI: lunghezza totale 15 cm.
HABITAT: frequenta sia boschi di conifere che cedui, montani e di pianura.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è presente in tutta Italia.
PRESENZA: è di forma stanziale.
CHE COSA MANGIA: si sposta alla ricerca dei grani di cui si nutre, nei mesi estivi si ciba anche di insetti, bacche e semi diversi.
NIDIFICAZIONE: due volte l’anno, da aprile a giugno, depone da 4 a 6 uova grigio-porpora, macchiate di bruno-rosso, che cova per un periodo di quasi due settimane.
CARATTERE: sociale rispetto alla propria specie, infatti ha costumi gregari.

FROSONE
NOME SCIENTIFICO: coccothraustes coccothraustes
DIMENSIONI: lunghezza totale 18 cm.
HABITAT: frequenta i boschi cedui sia montani che di pianura dove abbandona i faggi, i lecci, i carpini, e gli aceri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è presente in tutta Italia soprattutto nelle epoche del doppio passo.
PRESENZA: è di forma anche stanziale.
CHE COSA MANGIA: si nutre di grosse bacche e semi, ma predilige le noci dei faggi e le nocciole selvatiche.
NIDIFICAZIONE: una sola volta l’anno, in aprile-maggio, depone da 4 a 6 uova grigio-olivastro, macchiate di bruno-porpora, che cova per un periodo di quasi due settimane.
CARATTRE: preferisce stare da solo nascosto tra il fogliame più fitto.

GHIANDAIA
NOME SCIENTIFICO: garrulus glandarius
DIMENSIONI: lunghezza totale 35 cm.
HABITAT: nei luoghi alberati e nei boschi, soprattutto di lecci e querce.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è frequente in tutta Italia.
PRESENZA: è di forma sedentaria.
CHE COSA MANGIA: soprattutto ghiande, insetti e bacche, nonché uova che sottrae ai nidi, piccoli vertebrati e forse carogne.
NIDIFICAZIONE: in aprile o maggio depone 5 o 6 uova di colore grigio o verdastro screziato di bruno, all’interno di un nido fatto di stecchi e radici rozzamente intrecciati e foderato con foglie secche. Tale nido viene collocato sugli alberi ad alto fusto, più raramente alla sommità di un cespuglio.
CARATTERE: è timida e astuta.

MERLO
NOME SCIENTIFICO: turdus merula
DIMENSIONI: lunghezza totale 25 cm.
HABITAT: siepi, boschi e giardini.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è presente in tutta Italia.
PRESENZA: è una specie stanziale.
CHE COSA MANGIA: insetti, vermi, bisce, frutti e bacche.
NIDIFICAZIONE: nidifica due o tre volte nel corso dell’anno. Il nido è composto di ramoscelli. Depone da 4 a 6 uova blu-verdastre, screziate di rossiccio, che cova per due settimane.
CARATTERE: difficile.

PETTIROSSO
NOME SCIENTIFICO: erithacus rubecula
DIMENSIONI: lunghezza totale 14 cm.
HABITAT: boschi con rigoglioso sottobosco, parchi e giardini.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: occupa tutto l’areale italiano.
PRESENZA: è una forma sedentaria, ma per la nidificazione preferisce stanziarsi in zone fresche, collinari e montane.
CHE COSA MANGIA: sul terreno nudo o fra lo strame, il pettirosso ricerca piccoli invertebrati: lombrichi, piccoli molluschi, millepiedi, aracnidi, insetti.
NIDIFICAZIONE: nidifica a poca distanza dal terreno, nelle cavità degli alberi o nei buchi dei muri o tra l’edera, nasconde il proprio nido fatto di foglie secche e di muschio e foderato di penne e di pelo. Nel corso di due o tre covate annue, da marzo a giugno, depone da 5 a 8 uova bianco-fulve, screziate di rossiccio.
CARATTERE: confidente, ma oltremodo combattivo.

UPUPA
NOME SCIENTIFICO: upupa epops
DIMENSIONI: lunghezza totale 27 cm.
HABITAT: vive in zone boscose ma aperte in prossimità dei coltivi e dei campi brulli.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: frequenta tutto il territorio italiano.
PRESENZA: è presente nei mesi estivi e alle epoche del doppio passo.
CHE COSA MANGIA: il cibo, che becca sul terreno, è costituito da formiche ed altri insetti diversi, da larve e vermi.
NIDIFICAZIONE: pone il nido nelle cavità degli alberi o nelle anfrattuosità della roccia. La femmina depone da 5 a 7 uova di colore bianco, da cui nascono nidiacei coperti di piumino bianco, rado, che lasciano il nido dopo due settimane e mezzo. Durante la cova il maschio si introduce nel nido per nutrire la femmina; una volta schiuse le uova, entrambi i genitori imboccano i piccoli.
CARATTERE: confidente e socievole.

BISCIA DAL COLLARE
NOME SCIENTIFICO: natrix natrix
DIMENSIONI: lunghezza 2 m femmine, 1 m maschi.
HABITAT: è rappresentato da ogni tipo di raccolta d’acqua: stagni, pozze, laghi, paludi, torrenti, ruscelli e talvolta anche fontanili e cisterne. Tuttavia può allontanarsi molto dall’acqua.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è praticamente presente in tutta Italia.
CHE COSA MANGIA: in genere le femmine di grande mole tendono ad essere erranti, date le maggiori necessità alimentari. Esse si nutrono di rospi e più raramente di arvicole, mentre i giovani e gli adulti predano molluschi, girini, rane e tritoni. Occasionalmente si nutrono di pesci.
COME SI RIPRODUCE: la stagione degli amori è tra aprile e maggio, le uova, da 6 a 15, vengono deposte sotto i detriti vegetali, le foglie in decomposizione, sotto il muschio e il letame e nelle spaccature del terreno. La schiusa avviene dopo 30-75 giorni.
ABITUDINI: timida e tranquilla, la biscia dal collare non morde mai: il suo unico mezzo di difesa consiste nella grande quantità di feci maleodoranti emesse per allontanare l’aggressore.

LUCERTOLA MURAIOLA
NOME SCIENTIFICO: pordarcis muralis
DIMENSIONI: lunghezza 22 cm.
HABITAT: vive in diversi habitat, sia naturali che antropizzati: pietraie, rovine, abitazioni umane, parchi, giardini, cortili, boschi, località arbustive, rive di corsi d’acqua.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: questa specie è diffusa nella nostra penisola con due diverse sottospecie, una delle quali endemica nelle province di Roma e Latina. Si tratta della lucertola muraiola conosciuta volgarmente con il nome di carbonara.
CHE COSA MANGIA: si nutre di ditteri, coleotteri, lepidotteri, aracnidi, gasteropodi, e di ogni altra piccola preda che incontra nel proprio habitat. In assenza di prede vive non disdegna le bacche e le drupe.
COME SI RIPRODUCE: questa specie è molto territoriale e i maschi combattono tra di loro nel periodo degli accoppiamenti. La femmina depone da due a dodici uova. Spesso l’ovodeposizione avviene 2 o 3 volte in un anno.
ABITUDINI: il periodo di attività è abbastanza lungo: la latenza invernale ha luogo da ottobre a marzo nelle fessure dei muri, sotto i sassi e in ogni altro luogo riparato. In questo periodo compare talvolta all’aperto nelle belle giornate di sole.

RAMARRO
NOME SCIENTIFICO: lacerta viridis
DIMENSIONI: lunghezza fino a 45 cm.
HABITAT: vive soprattutto nel sottobosco.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è frequente in tutta la penisola.
CHE COSA MANGIA: l’alimentazione è abbastanza varia: comprende diverse specie di ortotteri, ditteri, coleotteri, lepidotteri, imenotteri, isopodi, crostacei, aracnidi, uova di uccelli, giovani serpenti, roditori, bacche, drupe.
COME SI RIPRODUCE: l’accoppiamento dura 15-20 minuti e generalmente dopo 4 settimane la femmina scava una piccola buca, deponendovi da 5 a 21 uova; l’incubazione dura da 2 a 3 mesi e mezzo.
ABITUDINI: il ramarro, essendo territoriale, non tollera la presenza di individui del proprio sesso.

TESTUGGINE (Tartaruga)
NOME SCIENTIFICO: testudo hermanni
DIMENSIONI: lunghezza 20-30 cm.
HABITAT: predilige boschi, tipo macchia mediterranea.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è presente nella zona occidentale di tutta la penisola.
CHE COSA MANGIA: si nutre di vegetali, frutti, lombrichi, lumache e occasionalmente di escrementi.
COME SI RIPRODUCE: l’accoppiamento ha luogo tra aprile e giugno ed è molto cruento: il maschio insegue la femmina cercando di bloccarla durante la fuga. Le uova vengono deposte in buche profonde 7-8 cm e poi successivamente ricoperte. Il loro numero varia da 2 a 12. l’ovodeposizione avviene tra giugno e luglio e i piccoli nascono dopo 20-70 giorni, generalmente in settembre.
ABITUDINI: al mattino abbandona il suo riparo recandosi alla ricerca di zone ben esposte al sole. Nella tarda mattinata, con il sopraggiungere del caldo, si rifugia all’ombra degli arbusti, ritornando in attività solo con il decrescere della temperatura.

VIPERA ASPIDE
NOME SCIENTIFICO: vipera aspis
DIMENSIONI: lunghezza 75 cm. Misure eccezionali 84-87 cm.
HABITAT: frequenta diversi ambienti: pietraie, vecchie muraglie, boschi radi, praterie, roveti.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è l’unica specie velenosa che si trova su tutta la nostra penisola.
CHE COSA MANGIA: le prede sono costituite da piccoli mammiferi e sauri.
COME SI RIPRODUCE: all’inizio della primavera, dopo i mesi invernali trascorsi in letargo, è possibile osservare la vipera in attività. E’ infatti il periodo degli accoppiamenti e dei combattimenti rituali tra i maschi. In genere dopo 4 mesi di gestazione la femmina partorisce da 5 a 20 piccoli lunghi da 12 a 21 cm, con un apparato velenifero perfettamente funzionante.
ABITUDINI: il ciclo giornaliero di attività è molto legato alla temperatura corporea, essendo le vipere animali eterotermi (come tutti i rettili e gli anfibi). Quando l’intensità dell’insolazione supera la tollerabilità, si portano sotto gli arbusti e in genere nei loro rifugi dove rimangono inattive.

RANA GRECA
NOME SCIENTIFICO: rana greca
DIMENSIONI: lunghezza 6,6 cm (con esclusione delle zampe).
HABITAT: predilige trattenersi nei pressi di pozze, torrenti e ruscelli ombrosi con scarsa vegetazione acquatica, situati quasi sempre in zone rocciose.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: si distribuisce su quasi tutta la penisola italiana eccetto le isole.
CHE COSA MANGIA: la sua dieta è composta da insetti, molluschi, lombrichi e di ogni altro piccolo animale che compare nelle sue vicinanze.
COME SI RIPRODUCE: ha tendenze trogofile e a volte si riproduce in grotta, nelle pozze in penombra. Le uova vengono deposte da febbraio ad aprile e i girini raggiungono una lunghezza massima di 5 cm.
COLORE: la rana greca, come tutte le rane “rosse”, ha colori di fondo varianti dal bruno-rossastro al giallastro chiaro e ai lati della testa presenta sempre la macchia temporale timpanica.

ROSPO COMUNE
NOME SCIENTIFICO: bufo bufo
DIMENSIONI: lunghezza 20 cm.
HABITAT: il suo habitat è molto ampio, si trova addirittura all’interno di parchi urbani, e naturalmente in orti piccoli e grandi, in coltivi, in boschi etc.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è diffuso un po’ ovunque su tutta la penisola.
CHE COSA MANGIA: si nutre come la rana greca, inoltre mangia anche topi.
COME SI RIPRODUCE: l’accoppiamento è di tipo ascellare, avviene in febbraio-marzo. Le uova vengono deposte in 3-4 file entro un unico cordone gelatinoso lungo fino a 5 metri; complessivamente la femmina depone più di 6.000 uova. I girini, completamente neri, nascono dopo circa due settimane e subiscono una metamorfosi dopo 2-3 mesi.
COLORE: il colore di fondo varia dal bruno-giallastro al marrone-ocra con macchie screziate scure.

TRITONE
NOME SCIENTIFICO: triturus vulgaris
DIMENSIONI: lunghezza fino a 11 cm.
HABITAT: dalla pianura fino oltre i mille metri, in boschi, giardini, sotto le pietre e i ceppi d’albero; lungo i corsi d’acqua ricchi di vegetazione ed in penombra.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è diffuso nell’Italia settentrionale centrale.
CHE COSA MANGIA: si nutre di piccoli invertebrati, sia acquatici che terragnoli.
COME SI RIPRODUCE: la femmina depone le uova attaccandole separatamente alla vegetazione acquatica. Trascorso il mese di giugno è raro trovarlo in acqua; in questo periodo si incontrano le sue larve che compiono la metamorfosi nel corso dell’estate. Il raggiungimento della maturità sessuale richiede alcuni anni; il giovane immaturo generalmente resta lontano dall’acqua, pur vivendo sempre in ambienti umidi.
COLORE: è bruno, giallo-bruno o verde oliva superiormente, spesso con punteggiature, o nelle femmine, con due strisce scure.


BARBO
NOME SCIENTIFICO: barbus barbus
DIMENSIONI: lunghezza 60 cm.
HABITAT: acque fluviali limpide e ben ossigenate, con fondo ghiaioso e sassoso.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: presente nella quasi totalità delle regioni italiane.
CHE COSA MANGIA: invertebrati di fondo che ricerca soprattutto di notte.
COME SI RIPRODUCE: la riproduzione ha luogo in maggio-giugno ed in tale circostanza i barbi costituiscono cospicui branchi. Le uova vengono deposte in numero di 6-9.000 per kg di femmina.
CARATTERE: socievole.

GHIOZZO
NOME SCIENTIFICO: gobius nigricans
DIMENSIONI: lunghezza 7 cm.
HABITAT: vive nei corsi d’acqua limpidi a fondo pietroso, aderendo al substrato con le pinne ventrali a ventosa.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: in Italia centrale, incerta la presenza nell’Italia meridionale.
CHE COSA MANGIA: invertebrati, avannotti, uova di pesce, che ricerca soprattutto di notte.
COME SI RIPRODUCE: il periodo riproduttivo si situa tra maggio e giugno; le uova aderiscono ai sassi e vengono sottoposte ad una stretta vigilanza dai maschi.
CARATTERE: è particolarmente sensibile all’inquinamento idrico.

TRIOTTO
NOME SCIENTIFICO: rutilus rubilio
DIMENSIONI: lunghezza 15-20 cm.
HABITAT: acque stagnanti o a deboli correnti, con preferenze per quelle ricche di vegetazione.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: presente nella quasi totalità delle regioni italiane.
CHE COSA MANGIA: invertebrati di fondo, alghe e vegetali acquatici di ogni tipo.
COME SI RIPRODUCE: la riproduzione ha luogo in primavera ed è preannunciata dalla comparsa, sulla cute degli adulti, di numerosissimi “bottoni nuziali”.
CARATTERE: spiccatamente socievole.

VAIRONE
NOME SCIENTIFICO: telestes souffia
DIMENSIONI: lunghezza 15-20 cm.
HABITAT: preferisce acque correnti, limpide, a fondo ghiaioso.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: corsi d’acqua delle regioni settentrionali e centrali.
CHE COSA MANGIA: dieta a base di invertebrati di fondo.
COME SI RIPRODUCE: la riproduzione cade in primavera. Le femmine depongono allora sino a 6.000 uova, del diametro di circa 2 mm.
CARATTERE: socievole.

GAMBERO DI FIUME
NOME SCIENTIFICO: austropotamobius pallipes
DIMENSIONI: lunghezza 11 cm.
HABITAT: corsi d’acqua corrente, limpidi e ben ossigenati dai fondi ciottolosi, anche se ricoperti da un sottile strato di fango. Le sue tane sono scavate sotto le pietre e in gallerie a ridosso degli argini dove si nasconde durante il giorno.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: un tempo presente nella quasi totalità delle regioni italiane, oggi solo in quei corsi d’acqua non inquinati.
CHE COSA MANGIA: chioccioline d’acqua, larve d’insetti, vermi e girini. Nella sua dieta rientrano anche resti di animali morti oppure detriti di origine vegetale, cosicché svolge anche un ruolo di spazzino dei fossi.
COME SI RIPRODUCE: durante il periodo riproduttivo maschi e femmine si fronteggiano e compiono una sorta di danza propiziatoria, afferrandosi con le chele e ciondolandosi ritmicamente. La fecondazione è esterna e le uova, piuttosto voluminose e in numero non superiore a 200, vengono trattenute dalla femmina sotto l’addome. Le larve che ne nascono restano attaccate al ventre materno sino ad aver completato il loro sviluppo, dopo di che divengono indipendenti e gradualmente si trasformano in adulti attraverso una serie di mute.


LA FLORA DEL RIO MAGGIORE

ACERO CAMP ESTRE
NOME SCIENTIFICO: acer campestre
GRANDEZZA: altezza 15 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è presente in quasi tutto il nostro territorio escluso, l’estremo sud.
CARATTERISTICHE: albero a foglie caduche.
FOGLIE: sono piccole, semplici, palmate a 5 lobi con il mediano a sua volta trilobulato; il colore è verde scuro di sopra, più pallido per pubescenza di sotto. In autunno, prima di cadere, passano attraverso tutte le sfumature dal giallo al rosso.
FIORI: piccoli verde-giallastri, sono riuniti in corimbi terminali eretti da 10-20 elementi.
FIORITURA: primaverile.
FRUTTO: disamare pendule con ali orizzontalmente aperte.
TERRENO: si adatta bene a qualsiasi tipo di terra.

ALBERO DI GIUD A
NOME SCIENTIFICO: cercis siliquastrum
GRANDEZZA: altezza 10 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: aree centro-meridionali dell’Italia.
CARATTERISTICHE: è un albero molto vistoso grazie alla fioritura che letteralmente riveste i suoi rami ancora privi di foglie.
FOGLIE: alterne e picciolate, sono cordate alla base con lamina arrotondata intera ai margini. La nervatura è palmata ed il colore è verde nella parte superiore, verde glauco in quella inferiore.
FIORI: appaiono prima delle foglie, sono riuniti in gruppi sui rami o addirittura direttamente sul tronco. Sono parilionatici e portati da un penducolo. Il calice è porporino, la corolla è rosso-violacea.
FIORITURA: aprile.
FRUTTO: è un baccello rossastro di 10-15 cm, membranaceo e compresso.
TERRENO: calcareo, non troppo soffice.

BAGOLARO
NOME SCIENTIFICO: celtis australis
GRANDEZZA: altezza 25 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: in quasi tutta Italia.
CARATTERISTICHE: è una specie molto adatta per formare viali alberati, essendo una pianta rustica, longeva e con una bella chioma.
FOGLIE: sono ovali-lanceolate, lungamente e finemente acuminate, asimmetriche con margine dentato. La parete superiore è scabra, mentre quella inferiore è mollemente grigiastra.
FIORI: piccoli, insignificanti e verdastri.
FIORITURA: aprile/maggio.
FRUTTO: sono delle drupe peduncolari, simili, quando sono mature, a piccole ciliegie di colore nerastro. La scarsa polpa, di sapore dolcissimo, è commestibile.
TERRENO: arido e secco.

CARPINO NERO
NOME SCIENTIFICO: ostrya carpinifolia
GRANDEZZA: altezza 10 / 15 (20) metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: in tutta la penisola italiana fino ad un’altitudine di 1200 metri.
CARATTERISTICHE: ha una spiccata azione miglioratrice del terreno. E’ utilizzato per produrre legna da ardere e carbone di buona qualità. Il legno è mediocre, rossiccio, duro e resistente.
FOGLIE: semplici, ovali acuminate, di 5-10 cm, doppiamente dentate al margine; inserzione: alterna, distica.
FIORI: infiorescenze unisessuali; i maschili sono in amenti cilindrici di 8-10 cm, pendenti e raggruppati a 2-3; i femminili sono in amenti di 3 cm.
FIORITURA: aprile/maggio.
FRUTTO: infruttescenze di 6 cm, formate da acheni chiusi in brattee bianche, a sacco, simili ai frutti del luppolo.
TERRENO: calcareo, asciutto che l’albero sfrutta grazie alle radici che si spingono in profondità.

CASTAGNO
NOME SCIENTIFICO: castanea sativa
GRANDEZZA: altezza 30 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: ricopre le pendici montuose. E’ molto diffuso, sia per l’opera dell’uomo, sia per la crescita spontanea, in Toscana, Liguria, Calabria, Sicilia e Lazio.
CARATTERISTICHE: alberi maestosi e molto longevi. Il tronco, diritto e tozzo, si ramifica per formare una chioma alta e tondeggiante.
FOGLIE: caduche, sono di forma ovale, più o meno allungata; appuntite, con margine dentato, il colore è verde vivo e sono di consistenza coriacea.
FIORI: di colore giallo-verde, sono unisessuali: i maschili sono amenti lunghi 10-20 cm, i femminili, meno numerosi, solitari o riuniti, stanno alla base delle inflorescenze maschili avvolti da un involucro verde. Questo dopo la fecondazione dà luogo alla cupola chiamata volgarmente “riccio” verde e spirescente che a maturità si apre e lascia cadere il frutto.
FIORITURA: avviene verso maggio/giugno.
FRUTTO: color bruno, liscio e commestibile.
TERRENO: fresco, ricco di humus, ben drenato, acido o neutro, decisamente privo di calcare.

CERRO
NOME SCIENTIFICO: quercus cerris
GRANDEZZA: altezza 20-30 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: sono presenti in tutto l’Appennino.
CARATTERISTICHE: ha il tronco diritto e slanciato e la chioma ovale allungata di media compattezza.
FOGLIE: alterne, semplici di consistenza quasi coriacea; sono oblungate od obovate. Il margine è inciso, lobato più o meno profondamente con 7-9 paia di lobi ineguali. Sono opache e scabre di sopra, più o meno pubescenti di sotto.
FIORI: sono unisessuali, i maschili in amenti cilindrici penduli, i femminili raggruppati da 1 a 5 su una asse tomentoso.
FIORITURA: aprile/maggio.
FRUTTO: è un achenio grosso e tomentoso all’apice e per il resto glabro, protetto per metà da una cupola a squame brune lineari.
TERRENO: terreno ricco di sali e piuttosto asciutto, che deve contenere calcare o meglio ancora esserne ricco.

LECCIO
NOME SCIENTIFICO: quercus ilex
GRANDEZZA: altezza massima 20 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: sono presenti nella parte centro meridionale dell’Italia.
CARATTERISTICHE: alberi dalla chioma maestosa.
FOGLIE: persistenti semplici, alterne, spesse e coriacee con breve picciolo peloso, di forma e dimensioni variabili, da ovali bislunghe a lanceolate spesso dentate ai margini, di colore verde scuro, lisce e lucide di sopra, grigio-tomentose di sotto.
FIORI: sono unisessuali; i maschili in amenti cilindrici, tomentosi, penduli; i femminili singoli o in piccoli gruppi con stigmi rossi.
FIORITURA: primaverile.
FRUTTO: è un achenio (ghianda) allungato, protetto fino alla metà da una cupola formata da piccole squame triangolari.
TERRENO: ricco di sostanze nutritive, dotato di buon drenaggio.

ONTANO NERO
NOME SCIENTIFICO: alnus glutinosa
GRANDEZZA: altezza 20 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è presente su tutta la penisola, vive spontaneo dal piano basale a quello montano.
CARATTERISTICHE: ha il tronco eretto, ramificazione rada ed espansa, che forma una chioma ampia e conica.
FOGLIE: semplici obovate, di 4-10 cm, a base cuneata e apice ottuso o smarginato; hanno un margine doppiamente e irregolarmente dentato.
FIORI: unisessuali, sono riuniti in amenti; i maschili cilindrici e penduli si sviluppano prima delle foglie; i femminili sono ovali ed eretti.
FIORITURA: febbraio/aprile.
FRUTTO: piccoli acheni alati.
TERRENO: sabbioso e povero.

PIOPPO NERO
NOME SCIENTIFICO: populus nigra
GRANDEZZA: altezza 30 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: regioni settentrionali, soprattutto Piemonte e Lombardia, ma presente anche nelle regioni centrali.
CARATTERISTICHE: chioma espansa, irregolare e rada.
FOGLIE: forma triangolare-romboidale, acuminate all’apice, hanno il margine minutamente seghettato-denticolato. Il colore della parte superiore è verde scuro brillante, più opaco nella parte inferiore, dove le nervature risultano ben rilevate.
FIORI: sono unisessuali e riuniti in amenti, i maschili più brevi e rossastri, i femminili più lunghi e gracili di colore verdognolo.
FIORITURA: marzo/aprile.
FRUTTO: è una capsula contenente semi dotati di lunghi peli.
TERRENO: molto malleabile.

ROVERELLA
NOME SCIENTIFICO: quercus pubescens
GRANDEZZA: altezza 25 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: sono frequenti nella Maremma toscana e in qualche zona del meridione.
CARATTERISTICHE: tronco diritto e slanciato e chioma ovale allungata.
FOGLIE: caduche, alterne e semplici, cuneate o cuoriformi alla base. Sono glabre e verdi superiormente, più pallide e tomentose di sotto.
FIORI: unisessuali; quelli maschili sono riuniti in amenti penduli, quelli femminili in spighe numerose e brevi all’ascella delle foglie.
FIORITURA: aprile.
FRUTTO: acheni coperti fino a metà da una cupola di scaglie appressate lanceolate grigiastre, tomentose.
TERRENO: aridi e calcarei.

AGRIFOGLIO
NOME SCIENTIFICO: ilex aquifolium
GRANDEZZA: altezza 8 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è abbondantemente diffuso su tutto il territorio nazionale, è pianta protetta.
CARATTERISTICHE: è una delle specie arbustive più note perché viene usato come decorazione natalizia. Sempreverde.
FOGLIE: persistenti, coriacee alterne. Possono essere ovali con margine ondulato spinoso; sono glabre, verde scuro lucide di sopra, più pallide ed opache di sotto.
FIORI: unisessuali, piccoli, bianchi, brevemente peduncolari. Sono riuniti in piccoli grappoli ascellari.
FIORITURA: primaverile.
FRUTTO: è una drupa rotonda di color rosso vivo. Contiene 4 semi trigonali che sono purgativi.
TERRENO: si adatta a diversi tipi di terreno.

BIANCOSPINO
NOME SCIENTIFICO: crataegus monogyna
GRANDEZZA: altezza 5 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: l’areale del biancospino comprende tutta l’Italia, dove si incontra spontaneo lungo le strade, nelle siepi e nei boschi.
CARATTERISTICHE: chioma globosa, allungata e tronco sinuoso, rami con spine di 2 cm.
FOGLIE: semplici, ovali profondamente lobate, di 4-8 cm, per lo più a 2-4 lobi laterali; margine grossolanamente e doppiamente dentato; nervature incurvate verso l’esterno.
FIORI: numerosissimi in corimbi terminali eretti, di colore bianco.
FIORITURA: marzo/aprile.
FRUTTO: pomi di circa 2 cm rossi, un seme.
TERRENO: predilige terreni argillosi, calcarei, profondi, che tra l’altro possono essere aridi, almeno in superficie.

BOSSO
NOME SCIENTIFICO: buxus sempervirens
GRANDEZZA: altezza 7 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: l’areale comprende tutta l’Italia, dove si incontra spontaneo nella fascia montana e submontana delle Alpi e degli Appennini.
CARATTERISTICHE: è un alberello con rametti giovani un po’ pelosi e corteccia giallastra scagliosa. Sopporta molto bene la potatura e viene usato per siepi, e addirittura per modellare figure nei giardini all’italiana.
FOGLIE: sono sempreverdi, opposte, coriacee, ovali o ellittiche a margine intero. Sono glabre, verde-scuro e lucide sulla pagina superiore e verde-giallastro in quella inferiore.
FIORI: piccoli unisessuali e biancastri. Mancano di corolla e sono riuniti in glomeruli ascellari formati da tutti fiori maschili.
FIORITURA: marzo/aprile.
FRUTTO: capsula triloculare, sessile, giallastra.
TERRENO: predilige terreni aridi e rocciosi.

CORBEZZOLO
NOME SCIENTIFICO: arbutus unedo
GRANDEZZA: altezza 8 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è abbondantemente diffuso su tutto il territorio nazionale soprattutto negli ambienti aridi, ed è uno dei componenti caratteristici della macchia mediterranea.
CARATTERISTICHE: è un arbusto o un piccolo albero a lenta crescita. La corteccia è bruno-rossastra, finemente fessurata e scagliosa.
FOGLIE: persistenti, alterne semplici, sono ovato-lanceolate, lucide, a margine seghettato.
FIORI: hanno una corolla dai petali saldati con forma tipicamente urceolata a 5 denti e sono riuniti in grappoli terminali.
FIORITURA: autunno.
FRUTTO: globoso rosso dalla superficie verrucosa con polpa dolce e gialla. Sono anche commestibili.
TERRENO: zone degradate a substrato siliceo.

CORNIOLO
NOME SCIENTIFICO: corpus mas
GRANDEZZA: altezza 5 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: si può trovare in tutta l’Italia.
CARATTERISTICHE: cespuglio rado, corteccia bruno chiara.
FOGLIE: semplici, ovali ellittiche, acuminate, di 4-10 cm, con 3-5 paia di nervature subparallele al margine.
FIORI: infiorescenza a ombrelle compatte, larghe 2 cm.
FIORITURA: febbraio, marzo, prima della fogliazione.
FRUTTO: drupe rossastre, allungate, di 2 cm, pendule.
TERRENO: poco umido e calcareo.

EDERA
NOME SCIENTIFICO: hedera helix
GRANDEZZA: può giungere fino ad un’altezza di 20 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: quasi tutto il territorio nazionale.
CARATTERISTICHE: si attacca ad alberi, rocce e muri coprendoli lentamente; è sempreverde.
FOGLIE: semplici, cuoiose, molto variabili per aspetto e dimensioni.
FIORI: pianta monoica, a fiori ermafroditi con 5 petali biancastri o giallo-verdi.
FIORITURA: agosto, settembre, raramente novembre.
FRUTTO: bacche sferiche della grandezza di un pisello con 3-5 semi reniformi. Si forma un anno dopo la fioritura.
TERRENO: cresce in tutti i terreni.

ERICA
NOME SCIENTIFICO: erica arborea
GRANDEZZA: altezza 6 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è presente nella parte centro meridionale dell’Italia, ed è caratteristico della macchia mediterranea.
CARATTERISTICHE: è un arbusto con portamento eretto, molto ramificato con giovani rami pelosi fittamente coperti di piccole foglie. E’ una pianta sempreverde.
FOGLIE: sono piccole, lineari, riunite in verticilli occasionalmente in coppia.
FIORI: numerosissimi, bianchi persistenti fino alla marcescenza.
FIORITURA: marzo/aprile.
FRUTTO: piccole capsule globose, contengono molti semi minuti (non commestibili).
TERRENO: substrati silicei.

FUSAGGINE
NOME SCIENTIFICO: evonymus europaea
GRANDEZZA: altezza 7 m.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: si può incontrare in tutta la penisola italiana.
CARATTERISTICHE: i giovani rami sono verdi e ottusamente quadrangolari. In autunno è facilmente riconoscibile per i vistosi frutti roseo-rossi che gli hanno valso anche il nome comune di “berretta da prete”.
FOGLIE: caduche, semplici, opposte, ellittico-lanceolate, e acute lunghe 6-10 cm, hanno il margine finemente dentellato.
FIORI: ermafroditi e dialipetali, sono verdastri, raggruppati a 3-5 sui pedicelli lunghi dai 2 ai 3,5 cm.
FIORITURA: alla fine della primavera.
FRUTTO: capsule con 4 lobi arrotondati sul dorso contenenti semi arianciati.
TERRENO: fresco e sciolto.

GINESTRA
NOME SCIENTIFICO: spartium junceum
GRANDEZZA: altezza 3 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: si estende in quasi tutta l’Italia centro-meridionale.
CARATTERISTICHE: rami sempreverdi e flessibili.
FOGLIE: piccole e verde scuro.
FIORI: appariscenti di un bel giallo brillante.
FIORITURA: aprile/maggio.
FRUTTO: non fa frutti, ma produce semi che vengono espulsi dai baccelli durante i periodi caldi e asciutti di luglio.
TERRENO: argilloso e acido.

MIRTO
NOME SCIENTIFICO: myrtus communis
GRANDEZZA: altezza 3 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è presente in quasi tutto il territorio nazionale.
CARATTERISTICHE: è un alberetto sempreverde, molto ramificato e compatto, con corteccia prima rossastra, poi grigia o screpolata.
FOGLIE: semplici, opposte, intere, hanno forma ovato-lanceolata acuminata alle due estremità e breve picciolo.
FIORI: profumati, nascono all’ascella delle foglie, sostenuti da un lungo peduncolo, di colore bianco-gialli.
FIORITURA: da maggio a luglio.
FRUTTO: bacche blu nerastre.
TERRENO: siliceo.

NOCCIOLO
NOME SCIENTIFICO: corylus avellana
GRANDEZZA: altezza 5 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: diffusa in tutta Italia soprattutto in zone collinari.
CARATTERISTICHE: è un piccolo albero o arbusto, poco longevo e spesso ramificato a partire dalla base.
FOGLIE: alterne con forma orbicolare od obovale con margine seghettato; sono di colore verde intenso nella parte superiore, più chiare e tomentose di sotto con nervature molto rilevanti.
FIORI: unisessuali, sono riuniti in infiorescenze. Quelli maschili in lunghi amenti penduli che compaiono in autunno in gruppi di 2-4, quelli femminili eretti e sessili poco vistosi, che si manifestano al momento della fioritura.
FIORITURA: invernale.
FRUTTO: è un’achenio globolo, solitario o a gruppi di 2-4, avvolto da un involucro a forma di campana irregolarmente dentata al margine.
TERRENO: suoli calcarei.

ORNIELLO
NOME SCIENTIFICO: fraxinus ornus
GRANDEZZA: altezza 10 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è diffuso nelle zone centro meridionali.
CARATTERISTICHE: è un albero con portamento espanso, chioma ampia e arrotondata.
FOGLIE: caduche, opposte, imparipennate. Sono composte da 5-9 foglioline ovato-lanceolate, irregolarmente dentato-seghettate ai margini. Colore verde chiaro e glabre superiormente, hanno una peluria color ruggine lungo la nervatura nella parte inferiore.
FIORI: piccoli, bianchi e profumati, con calice e corolla, sono riuniti in infiorescenze a pannocchia.
FIORITURA: aprile/maggio.
FRUTTO: è una piccola samara ad un seme, oblunga, con ala dilatata.
TERRENO: specie poco esigente per quanto riguarda il terreno.

PRUGNOLO
NOME SCIENTIFICO: prunus spinosa
GRANDEZZA: altezza 3 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è diffuso su quasi tutto il territorio nazionale.
CARATTERISTICHE: i rami hanno punte spinose, sono nodulosi, con corteccia scura.
FOGLIE: ellittico-ovali con piccole seghettature glandulari.
FIORI: isolati, picciolati, bianchi spuntano spesso prima delle foglie.
FIORITURA: marzo/aprile.
FRUTTO: grosso più di un cm, sferico, blu-nero, coperto da una patina chiara e con sapore acidulo-astringente.
TERRENO: ha bisogno di terreni caldi asciutti sciolti, ricchi di sali e di humus.

ROSA CANINA
NOME SCIENTIFICO: rosa canina
GRANDEZZA: altezza 3 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: si estende in quasi tutta Italia.
CARATTERISTICHE: arbusti spinosi, a cespuglio o sarmentosi, comunemente chiamati “rampicanti”.
FOGLIE: alterne composte, terminanti con una fogliolina. La loro forma è ovale, con margini dentellati; il colore è verde vivo.
FIORI: sono lunghi 2-2,5 cm rosa o bianco-rosati e sono lievemente profumati.
FIORITURA: tarda primavera, piena estate.
FRUTTO: il falso frutto della rosa è il cinorrodo (o cinorrodonti), alla cui formazione partecipa il ricettacolo floreale. Esso è ovale o rotondeggiante, rosso.
TERRENO: povero o privo di calcare, molto permeabile.

SAMBUCO NERO
NOME SCIENTIFICO: sambucus nigra
GRANDEZZA: altezza 12 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è presente su quasi tutto il territorio nazionale.
CARATTERISTICHE: è una pianta dal portamento arboreo o arbustivo.
FOGLIE: opposte, con stipole piccolissime pennatosette a 5-7 foglioline ovali-lanceolate, con margini dentato-seghettati.
FIORI: riuniti in corimbi ombrelliformi, hanno struttura pentamera con calice tubuloso a 5 denti e corolla regolare con un breve tubo e 5 lobi tondeggianti bianchi.
FIORITURA: aprile/giugno.
FRUTTO: è una drupa, quasi nera a maturazione, contenente per lo più numerosi semi.
TERRENO: predilige i terreni freschi.

VITALBA
NOME SCIENTIFICO: clematis vitalba
GRANDEZZA: altezza 5 metri.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: centro sud.
CARATTERISTICHE: è una vera e propria liana con fusti sottili. Si trova lungo le scarpate incolte, le siepi, al confine con le boscaglie.
FOGLIE: opposte, pennato – composte e lobate.
FIORI: bianchi o gialli e acheni piumosi. Solitari, senza petali, ma con sepali grandi bianchi.
FIORITURA: primavera/estate.
FRUTTO: in inverno si copre di gomitoli di filamenti argentati che sono portasemi.
TERRENO: qualsiasi tipo di terreno.

ANEMONE
NOME SCIENTIFICO: anemone apennina
GRANDEZZA: altezza 25-35 cm.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: diffusa nell’Italia centromeridionale.
CARATTERISTICHE: la pianta fresca contiene la protoanemonina, che ha un forte effetto infiammatorio sulla pelle e sulle mucose.
FOGLIE: palmato-sette e di colore verde chiaro, costituite da 5 foglioline lanceolate a margine profondamente dentato o lobato.
FIORI: solitari, eretti e terminali, con corolla allargata a 10-18 petali di colore variabile dal bianco al lilla, al celeste e stami molto evidenti giallo-oro.
FIORITURA: marzo e aprile.
TERRENO: umido.

ASPARAGO
NOME SCIENTIFICO: asparagus acutifolius
GRANDEZZA: altezza 50-150 cm.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: diffuso nella fascia mediterranea.
CARATTERISTICHE: sempreverde, molto ramificato, strisciante oppure aggrappato ad altre piante.
FOGLIE: cladodi aghiformi, riuniti in fascetti.
FIORI: molto piccoli, unisessuali, dioici, giallo-verdastri, cantanulati, a 6 petali saldati alla base, profumati, su peduncoli più o meno penduli nella parte iniziale dei rami.
FIORITURA: agosto/settembre.
FRUTTO: bacca subsferica verde, quasi nera a maturità.
TERRENO: preferisce suoli calcarei.

BUCANEVE
NOME SCIENTIFICO: galanthus nivalis
GRANDEZZA: altezza 20 cm.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: molto diffusa.
CARATTERISTICHE: pianta velenosa, perenne. E’ specie protetta.
FOGLIE: 2 foglie basali, molto strette e allungate.
FIORI: sono piccole campanelline pendule, di colore bianco.
FIORITURA: febbraio.
FRUTTO: è una capsula carnosa e verdastra.
TERRENO: limoso, ricco di elementi nutritivi e humus.

CICLAMINO
NOME SCIENTIFICO: cyclamen europaeum
GRANDEZZA: altezza 15 cm.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: molto diffusa nei boschi umidi.
CARATTERISTICHE: sempreverde, è specie protetta.
FOGLIE: reniformi e cuoriformi, a margine lievemente dentato e base arrotondata, di colore verde scuro con macchie argentee.
FIORI: innestati al vertice di sottili fusti rossicci, sono profumati, con corolle a punte riflesse di colore rosa violaceo.
FIORITURA: da marzo ad ottobre.
TERRENO: calcareo.

EQUISETO
NOME SCIENTIFICO: equisetum arvense
GRANDEZZA: altezza 50 cm.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: zone più umide del territorio nazionale.
CARATTERISTICHE: possiede un lungo rizoma sotterraneo dal quale spuntano i fusti fertili ed i fusti sterili.
FOGLIE: squamiformi, unite verticilli.
FIORI: i fiori, tutti ascellari, sono costituiti soltanto da uno stame e dall’ovario.
FIORITURA: marzo/aprile.
FRUTTO: non si forma (semi senza frutto).
TERRENO: umidissimo.

FELCE MASCHIO
NOME SCIENTIFICO: dryopteris filix – mas
GRANDEZZA: altezza 50 cm.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: diffusa soprattutto nei luoghi ombrosi e freschi.
CARATTERISTICHE: si tratta di pianta che produce spore invece di semi (piante che viste sotto il profilo evolutivo non sono sviluppate). Sono assenti i fiori ed i frutti. E’ una specie protetta.
FOGLIE: numerosissime disposte a penna, a loro volta lobate e denticolate. Nella pagina inferiore delle foglie si trovano i sori (spore) protetti da un indusio, disposti in file parallele alle nervature.
TERRENO: non ha esigenze particolari.

FICARIA
NOME SCIENTIFICO: ranunculus ficaria
GRANDEZZA: altezza 30 cm.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: molto frequente.
CARATTERISTICHE: pianta perenne con fusto semplice o ramificato, che può essere sdraiato, ascendente o eretto.
FOGLIE: verdi, sovente con macchia rossa vicino all’attaccatura con il picciolo, sono in parte disposte a rosetta, in parte inserite sul fusto.
FIORI: sono solitari su lunghi peduncoli, formati da 8-12 petali bislunghi.
FIORITURA: da marzo a maggio.
FRUTTO: è formato da numerosi acheni ovoidali, con apice acuminato.
TERRENO: profondo, umido e ricco di azoto.

GIGARO
NOME SCIENTIFICO: arum maculatum
GRANDEZZA: altezza 30 cm.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è specie piuttosto diffusa, soprattutto nei boschi.
CARATTERISTICHE: l’infiorescenza di questa pianta è una trappola per mosche. L’odore di carogna che essa emana attira infatti mosche ed altri insetti che scivolano fino in fondo. Uno sbarramento di peli impedisce all’insetto di uscire fuori. In fondo al tubo gli insetti trovano dell’acqua contenente nettare. Quando i fiori sono stati impollinati, la brattea appassisce e gli insetti sono rimessi in libertà.
FOGLIE: saettiformi, spesso leggermente macchiate verde scuro o marrone.
FIORI: sono inseriti su un asse carnoso, i maschili in alto, quelli femminili più in basso.
FIORITURA: da aprile a giugno.
FRUTTO: è composto da bacche dapprima verdi poi rosse, velenose, contenenti un succo fortemente irritante per le mucose boccali e faringee.
TERRENO: ricco di elementi nutritivi, di humus e spesso limoso.

LINGUA CERVINA
NOME SCIENTIFICO: phyllitis scolopendrium
GRANDEZZA: altezza 60 cm.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: molto diffusa.
CARATTERISTICHE: si tratta di pianta che produce spore invece di semi (piante che viste sotto il profilo evolutivo non sono sviluppate). Sono assenti il fiore e i frutti.
FOGLIE: a margine leggermente ondulato, di consistenza coriacea, di colore verde intenso, lucide nella pagina superiore, più chiare nella pagina inferiore, dove portano i sori di colore bruno-ruggine, con indusio.
TERRENO: cresce sulle rocce ombrose e umide, specialmente se di tipo calcareo.

PERVINCA
NOME SCIENTIFICO: vinca minor
GRANDEZZA: altezza 30 cm.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: è molto diffusa.
CARATTERISTICHE: è perenne, sempreverde, strisciante. E’ specie protetta.
FOGLIE: opposte, a due a due, dotate di un breve picciolo, sono ellittico-lanceolate, a margine intero, glabre, verde scuro e lucide superiormente, opache inferiormente.
FIORI: hanno calice diviso in 5 lobi di forma pressoché triangolare, di colore solitamente azzurro.
FIORITURA: marzo/aprile.
FRUTTO: il frutto è costituito da 2 follicoli contenenti alcuni semi neri.
TERRENO: limoso, sciolto e con un po’ di calcare.

PRIMULA
NOME SCIENTIFICO: primula vulgaris
GRANDEZZA: altezza 30 cm.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: diffusa in tutta la penisola.
CARATTERISTICHE: pianta perenne, è specie protetta.
FOGLIE: basali disposte in una rosetta, di forma ovale allungata, rugose e con robusta nervatura centrale, verdi nella pagina superiore, più chiare in quella inferiore.
FIORI: raccolti in un’ombrella lassa all’apice di uno stelo cilindrico, verde biancastro; i petali sono gialli.
FIORITURA: da marzo a maggio.
TERRENO: umido.

PUNGITOPO
NOME SCIENTIFICO: ruscus aculeatus
GRANDEZZA: altezza 30-60 cm.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: diffuso in tutta Italia.
CARATTERISTICHE: sempreverde, fusto eretto, abbondantemente ramificato. E’ una pianta protetta.
FOGLIE: quelle che sembrano foglie sono in realtà rametti trasformati, scientificamente chiamati cladodi, che hanno assunto la forma e la funzione di foglie. Si presentano come articoli sessili, alternati, coriacei, ovali-lanceolati, a nervature parallele, con acuta spina apicale. Le vere foglie sono ridotte a scaglie inserite al centro dei cladodi a protezione delle gemme floreali.
FIORI: poco appariscenti e di breve durata, inseriti all’ascella di una bratteola verso la metà dei cladodi.
FIORITURA: marzo.
FRUTTO: grossa bacca carnosa, rotonda, di un bel colore rosso vivo lucente.
TERRENO: cresce in ogni tipo di terreno.

TORMENTILLA
NOME SCIENTIFICO: potentilla erecta
GRANDEZZA: altezza 30 cm.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: molto frequente.
CARATTERISTICHE: pianta perenne.
FOGLIE: basali, hanno un lungo picciolo e sono divise in 3-5 lobi; le altre sono prive di picciolo, divise in 3 foglioline ovali ad apice arrotondato; alla base delle foglie sono presenti ovespirole persistenti.
FIORI: inseriti all’ascella delle foglie superiori, hanno un lungo peduncolo, i petali sono di colore giallo.
FIORITURA: da giugno a ottobre.
TERRENO: umido e freddo.

VIOLA
NOME SCIENTIFICO: viola odorata
GRANDEZZA: altezza 10 cm.
DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA: diffusa su tutto il territorio nazionale.
CARATTERISTICHE: è pianta con un corto rizoma da cui partono lunghi stoloni che strisciano sul terreno e da cui si sviluppano nuove radici, producendo nuovi individui.
FOGLIE: ovato-larghe o reniformi, crenate.
FIORI: dall’intenso profumo, portati da un lungo peduncolo, hanno 5 sepali e 5 petali viola.
FIORITURA: marzo/aprile.
FRUTTO: è una capsula che a maturità si apre in tre parti contenente numerosi semi sferici bruni.
TERRENO: ricco di elementi nutritivi e leggermente azotato.

BOLETO LURIDO
NOME SCIENTIFICO: boletus luridus
COMPARSA: dalla tarda primavera all’autunno.
CAPPELLO: prima emisferico e quindi convesso ed espanso, di colore variabile a seconda delle condizioni climatiche e lo sviluppo.
TUBOLI: lunghi non aderenti al gambo.
GAMBO: tozzo e un po’ panciuto.
CARNE: soda, gialla, dall’odore leggero di frutta.
PORI: piccoli e tondi.

CHIODINO
NOME SCIENTIFICO: armillaria mellea
COMPARSA: tarda estate, ma specialmente autunno.
CAPPELLO: dapprima emisferico e quindi piatto con una leggera protuberanza centrale.
LAMELLE: molto fitte.
GAMBO: lungo, sottile, spesso ricurvo.
CARNE: dura, soprattutto quella del gambo, dall’odore poco gradevole di sostanze oleose.
NOTA: cresce in gran numero d’individui alla base dei tronchi.

GALLETTO
NOME SCIENTIFICO: cantharellus cibarius
COMPARSA: dalla tarda primavera sino all’autunno inoltrato.
CAPPELLO: dapprima convesso e quindi depresso, a forma di imbuto, dall’orlo ondulato ed irregolarmente globato.
LAMELLE: composte da pliche imeniali, decorrenti lungo il gambo.
GAMBO: va ad assottigliarsi dall’orlo verso il basso; pieno e sodo.
CARNE: dura e fibrosa, con piacevole odore di albicocca.

MAZZA DI TAMBURO
NOME SCIENTIFICO: lepiota procera
COMPARSA: tarda estate e autunno.
CAPPELLO: prima ovale e poi a forma di larga campanula sino a diventare quasi completamente piatto con una accentuata sporgenza al centro.
LAMELLE: fitte e morbide.
GAMBO: particolarmente alto e slanciato, caratterizzato da squame e striature orizzontali, si allarga al piede formando un grosso bulbo schiacciato. Presenta inoltre un piccolo anello carnoso, a strati, frangiato.
CARNE: tenera, dal gradevole odore.
O V U L O
NOME SCIENTIFICO: amanita caesarea
COMPARSA: dalla tardissima primavera all’autunno.
CAPPELLO: prima emisferico e quindi piatto.
LAMELLE: fitte, abbastanza alte, sono completamente staccate dal gambo.
GAMBO: cavo a maturità, ornato da un anello e da un’ampia volva, quasi completamente staccata dal piede del gambo stesso.
CARNE: non presenta un odore particolarmente accentuato, anche se risulta ugualmente gradevole.
NOTA: da giovane, questo fungo, tutto avvolto nella sua volva bianca, si presenta molto simile ad un uovo.

PORCINO
NOME SCIENTIFICO: boletus edulis
COMPARSA: dalla primavera al tardo autunno, in corrispondenza dei periodi particolarmente freschi e umidi.
CAPPELLO: dapprima emisferico e quindi spianato.
TUBOLI: abbastanza lunghi, liberi dal gambo.
GAMBO: massiccio e abbondante, dalle forme diverse.
CARNE: soda dapprima e quindi molle, dall’odore molto gradevole.
S P U G N O L A
NOME SCIENTIFICO: morchella rotunda
COMPARSA: nelle primavere particolarmente umide.
CAPPELLO: di forma globosa, con rientranze irregolari.
LAMELLE: non sono evidenti.
GAMBO: cilindrico, notevolmente rigonfio al piede, più assottigliato sotto il cappello.
CARNE: poco consistente, dall’odore quasi impercettibile.



GLOSSARIO STORICO

-         Agiografia: scienza che studia la vita, le opere e il culto dei santi.
-         Anacoreta: il termine definisce il monaco, soprattutto cristiano, che si ritira nella solitudine e in luoghi inaccessibili e desertici in cerca di vita contemplativa. Fenomeno comparso in maniera rilevante dal III sec. d.C.
-         Anatolia: altopiano peninsulare, compreso entro i confini della Turchia.
-         Arcosolio: nicchia ad arco, in cui viene collocato il defunto o il sarcofago.
-         Basalto: roccia vulcanica di colore nero o rossastro o verde scuro.
-         Cardo: asse viario principale di direzione nord-sud delle città romane e di territori colonizzati. Il sistema e il termine derivano dalla dottrina augurale etrusca sulla suddivisione degli spazi, sia terrestri che celesti.
-         Casale: il casale medievale era un fondo, o un gruppo di fondi, con più abitazioni.
-         Castrum: castello. Era governato dal signore e in sua assenza dal vicecomes. Se il castrum era ecclesiastico, era governato dal vescovo o dall’abate per mezzo di un signore chiamato Castellanus, e il feudo stesso era detto Castellania.
-         Centro di sella: indica quei centri siti all’incrocio di un percorso di crinale principale e uno secondario, e generalmente posti a scavalcamento di due bacini idrografici principali, uno rivolto verso l’interno e l’altro verso il mare.
-         Centro di testata: indica quei centri sorti sulla sommità di un colle o ripiano tufaceo, alla confluenza o in prossimità di importanti vie di comunicazione siano esse di acqua o di terra, e al termine di un percorso di crinale.
-         Colombario: per analogia con le buche di una colombaia è così chiamato il tipo di sepolcro romano a nicchia in cui venivano riposte le urne con le ceneri dei defunti.
-         Cornetani: abitanti di Corneto, l’attuale Tarquinia.
-         Curtis: deriva dalla antica Cohorte. Era un gruppo di fondi rustici recinti e dal nome di questa proviene quello della corte o cortile.
-         Decumano: via principale orientata est-ovest che, insieme al cardo, costituiva la struttura portante delle città romane di nuova fondazione.
-         Domusculta: era un villaggio sparso con fondi, abitazioni, chiese, molini, magazzini. Riunito sotto un unico governo e posto sotto la protezione della Chiesa Romana.
-         Focatico: tassa di famiglia.
-         Fundus: denominazione di piccole proprietà.
-         Iconoclastia: movimento religioso e politico contro il culto delle immagini sacre. Tale culto combattuto dai primi cristiani si era così diffuso da divenire fanatismo, simile al culto degli idoli. Questa pratica religiosa, in Oriente, aveva attirato le dure critiche dei Musulmani e degli Ebrei tanto da spingere l’imperatore bizantino Leone III Isaurico a vietare il culto delle immagini ed ordinarne la distruzione. La controversia tra i fautori di questo culto e gli iconoclasti coinvolse anche l’Occidente, perché Roma condannò (731) i distruttori di immagini sacre e Leone III. La persecuzione iconoclasta cessò soltanto nell’843.
-         Laura: monastero di clausura, avente una regola mista tra l’orientamento cenobitico e quello eremitico.
-         Lesena: semipilastro appiattito lungo luna facciata che serve di solito per motivi decorativi.
-         Loculo: sepolcro rettangolare scavato nella roccia di solito chiuso con tegoloni di terracotta poi intonacati o con lastra di marmo.
-         Massa: era un aggregato di più fondi che prendeva il nome dal proprietario o da un fondo principale. Le masse furono dei centri agricoli di importanza fondamentale dove si riunirono molti fuggiaschi in seguito alle invasioni barbariche.
-         Mausoleo: dal nome di Mausoleo, satrapo della Caria, in Alicarnasso, la cui sontuosa tomba fu considerata una delle sette meraviglie del mondo antico. Il termine è passato a indicare un monumento sepolcrale particolarmente grandioso e solenne.
-         Pagi: villaggi di modesta entità, che rappresentano un sistema di popolamento delle campagne intorno ad una città principale.
-         Percorso di crinale: percorso più elementare di un territorio. Di solito segna l’andamento di un crinale. E’ la linea di cresta o di spartiacque tra due valli fluviali o bacini idrografici poiché si ha una percorrenza facilitata dall’asse di guadi, dalla continua altimetria, dalla più ampia visibilità.
-         Rubbio: unità di misura e di peso. Vi è stata una polemica tra gli studiosi per stabilire a quanto ammontava il rubbio nel medioevo. Il Pardi sosteneva che il rubbio romano, usato nel medioevo, era pari a 113 kg; il Tomassetti, invece, sostiene che il rubbio era pari a quello usato nel XIX secolo, cioè a 294.46 kg.
-         Tassa del sale: antico diritto fiscale romano sulle saline di Ostia esercitato successivamente dal Papa. Consisteva in un vero e proprio monopolio, quindi nell’obbligo generale di acquistare il sale dalla Camera Apostolica. La tassa consisteva nell’acquisto obbligatorio di un certo numero di Rubbie di sale, che ogni centro abitato doveva effettuare ogni 6 mesi.
-         Tomba a fossa: tomba per inumazione. Sepolture del genere iniziano a comparire già nel VII sec. a.C., sono molto semplici e sono scavate nel terreno con forme più o meno rettangolari, talvolta ricoperte con lastroni in terracotta.
-         Volta a botte: è il sistema di copertura a volta più semplice. Rappresenta lo sviluppo in continuo di un arco romano.
-         Volta a crociera: è un sistema di copertura generato dall’incrocio di due volte a botte, e quindi costituita da 4 spicchi, detti vele, e dalle nervature, dette costole, che si trovano tra una vela e l’altra.


GLOSSARIO NATURALISTICO

Acido (terreno): terreno con pH inferiore a 5 di solito privo di carbonati.
Albero: pianta legnosa, che vive di solito molti anni, con un unico fusto (tronco) ramificato soltanto a partire da una certa altezza sopra il livello del suolo.
Amento: infiorescenza, di solito unisessuale, formata dai fiori sessili, a portamento per lo più pendulo (detta anche gattice).
Arbusto: pianta perenne legnosa con più fusti aventi origine a livello del suolo.
Ascellare: organo inserito all’ascella (angolo tra fusto e foglia) di una foglia o brattea.
Bacca: frutto carnoso, con semi sparsi nella polpa.
Basico (terreno): terreno che ha pH superiore a 7 ricco di carbonati.
Bulbo: organo sotterraneo portante gemme e protetto da varie serie di squame carnose o coriacee.
Brattea: foglia modificata, di solito con funzione di protezione, all’ascella porta un fiore o una infiorescenza.
Ceduo: bosco di latifoglie, tagliato a periodi fissi, che si rinnova per polloni.
Cigliato: dotato di peli simili a ciglia lungo il margine.
Corimbo: infiorescenza con fiori tutti alla stessa altezza ma portati da pedicelli in punti diversi dall’asse principale.
Deciduo: organo che cade dopo aver assolto alla propria funzione; termine usato comunemente per il fogliame degli alberi (detto anche caduco).
Dioica: pianta che porta i fiori maschili e femminili su individui diversi. Il caso contrario è quello della pianta monoica, cioè che porta sullo stesso individuo sia i fiori maschili che quelli femminili.
Disamara: coppia di noci alate (samare) accostate e con le ali opposte rispetto al punto di unione; di solito si separano a maturità.
Drupa: frutto carnoso che ha il seme avvolto da uno strato legnoso (nocciolo).
Eliofila: pianta che, per svilupparsi, esige luoghi ben illuminati.
Erba: pianta erbacea, ossia tenera, a consistenza fogliacea, che non ha fusto legnoso.
Frugale: pianta poco esigente per quel che concerne la sostanza nutritizia disponibile.
Fustaia: bosco in cui gli alberi sono allevati in modo da far sviluppare il fusto principale.
Glabro: privo di peli.
Gradonatura: tecnica più “dolce” di aprire le cave, che, invece di operare dei tagli verticali dove la vegetazione potrà più difficilmente istaurarsi, prevede la creazione di terrazzamenti che si restringono dall’alto verso il basso.
Habitat: insieme delle caratteristiche abiotiche (fattori fisici e chimici) che individuano l’ambiente in cui vive una specie.
Igrofila: pianta amante dell’umidità.
Mesofila: pianta legata a condizioni climatiche medie, senza eccessi.
Microclima: clima di uno spazio limitato, che varia rispetto a quello di uno spazio più ampio, da cui dipende la vita delle diverse specie di vegetazione.
Pollonifero: qualità che possiedono molti alberi, di emettere ricacci dal ceppo basale.
Ombrella: infiorescenza formata da fiori che partono tutti dallo stesso punto e raggiungono tutti la stessa altezza in modo da formare una cupola ad ombrella.
Orografia: linee dei rilievi del terreno di un territorio (colline, montagne, valli). Termine usato anche per indicare la conformazione del terreno.
Peduncolo: il gambo di ciascun fiore, da cui deriva “fiore peduncolato”. Se il peduncolo manca, il fiore si dice “sessile”.
Pubescente: coperto di peluria, corta e morbida.
Racemo: infiorescenza formata da un asse principale più sviluppato degli assi secondari che portano direttamente i fiori.
Rinnovamento: capacità di ripristino della copertura vegetale (bosco) per disseminazione e moltiplicazione vegetativa spontanea.
Ripariale: vegetazione che si sviluppa e vive sulle rive e sui greti dei fiumi.
Rustica: pianta adattabile a qualsiasi condizione climatica o di terreno.
Sessile: sprovvisto di sostegno, cioè di picciolo o peduncolo.
Siliceo: (terreno): che contiene silice (SiO2) o silicati.
Termofila: pianta legata a condizioni di temperatura elevata.
Unisessuale: fiore o infiorescenza con soli elementi riproduttivi maschili (stami) o femminili (pistilli).
Verticillo: riunione di almeno tre foglie inserite in corrispondenza dello steso nodo.


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                  SOMMARIO

PREFAZIONE
Saper leggere il territorio: l’area del Treia. Di Fabrizio Giovenale

INTRODUZIONE
Quasi una premessa… Di Luigi Cimarra

LE FORRE DEL TREIA

IL PERCORSO STORICO
La Via Amerina

IL SENTIERO NATURA
-        La Forra del Rio Maggiore
-        La funzione del sentiero natura
-        L’ecosistema della forra
-        Il sentiero natura

LA FAUNA E LA FLORA DEL RIO MAGGIORE
-        Mammiferi
-        Uccelli
-        Rettili
-        Anfibi
-        Pesci
-        Crostacei
-        Piante arboree
-        Piante arbustive
-        Piante erbacee
-        Funghi

GLOSSARIO
-         Storico
-         Naturalistico

BIBLIOGRAFIA





 [Trascrizione di Sergio Carloni]

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