FALERI, FALERII, FALISCA, FALISCI, AEQUUM FALISCUM
S. MARIA DI FALLERI, CIVITA CASTELLANA.
Massa Castelliana-Civitas Castellana
Estratto da: ANALISI STORICO-TOPOGRAFICO-ANTIQUARIA
DELLA CARTA DE’ DINTORNI DI ROMA
Di A. Nibby
DELLA CARTA DE’ DINTORNI DI ROMA
Di A. Nibby
già pubblico professore di archeologia
nella Romana Università ec. ec.
Tomo II
Edizione Seconda
Roma, Tipografia delle Belle Arti, 1848
Il nome di questa città antichissima della Etruria Cicisminia in Festo, e nella Carta Peutingeriana viene scriito Faleri; mentre in altri autori antichi più generalmente si enuncia Falerii; ed io son di parere, che la prima forma di esso sia corretta, contro ciò che alcuni pretendono, e che dal suo nome gli abitanti furono denominati Falerii: e da questi a poco a poco s’insinuò l’altra più commune, che confuse i due nomi in uno, col quale vennero designati la città, e gli abitanti. Ed a me sembra, che il nome originale fosse Phalesi, o Falesi, derivato da Halesus compagno, o figlio naturale di Agamennone, il quale, dopo la morte di quel re, abbandonata Argo, si ritirò in questa terra, già de’ Siculi, ed allora abitata dai Pelasgi suoi connazionali: e dall’averle communicato il nome, e probabilmente dall’averla anche colonizzata, ebbe l’onore della fama di averla fondata. Veggansi Ovidio Fast. lib. IV v. 73. Solino c. VII, e Servio in Aeneid. lib. VII. Da Phalesi nome della città, Falisci furono detti gli abitanti, nome che si conservò nel popolo di tutto questo distretto, che ebbe l’epiteto di Aequi conservatoci da Virgilio lib. VII.
Il nome di questa città antichissima della Etruria Cicisminia in Festo, e nella Carta Peutingeriana viene scriito Faleri; mentre in altri autori antichi più generalmente si enuncia Falerii; ed io son di parere, che la prima forma di esso sia corretta, contro ciò che alcuni pretendono, e che dal suo nome gli abitanti furono denominati Falerii: e da questi a poco a poco s’insinuò l’altra più commune, che confuse i due nomi in uno, col quale vennero designati la città, e gli abitanti. Ed a me sembra, che il nome originale fosse Phalesi, o Falesi, derivato da Halesus compagno, o figlio naturale di Agamennone, il quale, dopo la morte di quel re, abbandonata Argo, si ritirò in questa terra, già de’ Siculi, ed allora abitata dai Pelasgi suoi connazionali: e dall’averle communicato il nome, e probabilmente dall’averla anche colonizzata, ebbe l’onore della fama di averla fondata. Veggansi Ovidio Fast. lib. IV v. 73. Solino c. VII, e Servio in Aeneid. lib. VII. Da Phalesi nome della città, Falisci furono detti gli abitanti, nome che si conservò nel popolo di tutto questo distretto, che ebbe l’epiteto di Aequi conservatoci da Virgilio lib. VII.
Hi Fesceninnas acies aequosque Faliscos,
e da Silio lib. VIII.
Hos iuxta nepesina cohors aequique Falisci.
Quindi alcuni scrittori posteriori confusero il nome della gente con quello della terra, che chiamarono Falisco, Aequum Faliscum, Falisci; infatti Diodoro lib. XIV, indicando la presa di Falerii, dice, che i Romani dierono il guasto a Falisco, città de’Falisci; Strabone lib. V. facendo due città diverse di Falerii, e Falisco, soggiunge, che alcuni riputarono non tirreni, ossia etruschi, i Falerii, ma Falisci, gente a se: altri poi anche Falisci, città, che avea una lingua propria, e che altri chiamavano Aequum Faliscum, posta sulla via flaminia fra Ocriculum e Roma. D’onde nacque l’errore di fare due città diverse di Falerii e Falisci, nel quale, oltre Strabone, caddero Solino e Stefano, seguiti da molti moderni, contra l’autorità di Dionisio, Livio, Plutarco, ec. dai quali evidentemente apparisce che Falerii era il nome della città, Falisci quello del popolo, nella stessa guisa, che Roma era il nome della città, Quirites quello de’cittadini, Ardea quello della metropoli, Rutuli quello della gente, che costituiva la popolazione del suo territorio.
Premessa questa distinzione necessaria, meglio s’intendono i fasti di questa città. Dionisio lib. I. c. XXI apertamente dichiara, che Falerio e Fescennino abitate fino a’suoi giorni dai Romani, aveano conservato alcune scintille della stirpe pelasgica, mentre antecedentemente alla occupazione pelasgica erano de’Siculi; che in esse erano rimaste molte delle antiche costumanze, che i Greci un dì ebbero, e ritennero per lungo tempo; come l’ornato delle armi guerresche, e gli scudi e le aste argoliche; e quando, o per cominciar la guerra, o per respingere gli assalitori, mandavano l’esercito fuor de’confini, lo facevano precedere da alcune persone sacre, inermi, feciali; e la forma de’templi, e le celle de’numi, le espiazioni, ed i sacrificii, e molte altre cose di tal natura. Ma il più splendido monumento poi di tutti, dell’avere in Argo un giorno abitato quelli che discacciarono i Siculi, era il tempio di Giunone edificato in Falerio come in Argo, nel quale simile era il modo dei sacrificj, e donne sacre servivano il delubro, e la così detta Canefora, donzella casta di matrimonio, che cominciava il sagrificio, ed i cori delle vergini, che cantavano ad onor della dea canzoni sacre. Or questo passo prova, che la originale fondazione di Falerii si attribuiva ai Siculi: che questi furono discacciati dai Pelasgi: e che le traccie de’costumi argivi rimaste fino ai tempi di Dionisio, cioè fino ad Augusto appoggiavano la tradizione ricordata di sopra, che Halesus argivo l’avesse colonizzata poco dopo la morte di Agamennone; cioè circa 12 secoli avanti la era volgare. E circa il costume indicato da Dionisio di mandare innanzi i Feciali prima di uscire in campo, Servio commentando il verso virgiliano riferito di sopra, dice che Aequi, cioè giusti, furono chiamati i Falisci, perché il popolo romano mandò ad essi i decemviri, i quali da loro appresero il ius feciale, ed alcune altre leggi, che furono, come supplementi aggiunte alle dodici tavole, che aveano avuto dagli Ateniesi.
Dopo la fondazione di Falerii; per molti secoli tace la storia sulle gesta de’Falisci, i quali si trovavano in possesso di un territorio fertile, confinante verso settentrione col Tevere, e verso occidente coi Veienti, e coi Capenati. La prima volta, che compariscono in scena è l’anno di Roma 320, allorché avendo i Fidenati, coloni romani, disertato a Larte Tolumnio re de’Veienti, uccisero i quattro ambasciatori spediti loro dal senato a domandar conto della diserzione. Accesasi pertanto una guerra atroce fra i Fidenati, i Veienti, e i Romani, i Falisci vennero in ajuto de’Veienti, e presero campo con loro dinanzi a Fidene. Nella battaglia che seguinne schieraronsi nell’ala sinistra, mentre i Veienti tennero l’ala destra, ed i Fidenati il centro; ma per la morte di Tolumnio, ucciso colle proprie mani da Aulo Cornelio Cosso, tribuno de’soldati, quella battaglia divenne per l’esercito collegato una sconfitta micidiale. Quindi l’anno seguente 321 di Roma, sendo console M. Cornelio Maluginense, e L. Papirio Crasso, i Romani spinsero il loro esercito nel territorio de’Veienti, e de’Falisci, e ne riportarono una gran preda. Livio lib. III. c. XVII. e seg. Tale fu però il terrore, che dopo la battaglia di Fidene li sopraffece, che non osarono vendicare queste depredazioni nel 322, allorché i Fidenati ed i Veienti profittando di una fiera pestilenza, che affliggeva Roma, posero il campo non lungi dalla porta Collina: dice Livio su tal proposito c. XXI. che i Falisci perpelli ad instaurandum bellum neque clade Romanorum, neque sociorum precibus potuere. Ed infatti rimasero quieti fino al 355, allorché assediando, o piuttosto bloccando i Romani Veii, essi improvvisamente presero le armi insieme co’Capenati in soccorso di quella città, prevedendo, che, perduta quella, si sarebbero ben presto veduti esposti all’assalto de’Romani, non essendo dimenticato il fatto di Fidene. Dopo varie scaramuccie insignificanti, finalmente nel 358 osarono, uniti ai Capenati ed ai Veienti, di dare un’assalto al campo romano; ma furono respinti con grave perdita. Due anni dopo, il celebre Camillo sorprese i Falisci, ed i Capenati nelle campagne di Nepi, li mise in rotta, e s’impadronì del campo, dove trovò un bottino immenso, che consegnò per la massima parte al questore, ed il rimanente distribuì ai soldati. Livio lib. V. c. VIII. e XIX.
Caduta Veii, Camillo condusse l’esercito contro i Falisci l’anno 363; questi prima si rimasero chiusi entro la città; ma non potendo più sopportare le stragi e le depredazioni, che si commettevano da’Romani nelle loro campagne, uscirono fuori delle mura, ed accamparonsi sopra un luogo dirupato, e di accesso difficile, un miglio circa fuori della città. Pervenne però Camillo ad occupare un posto che dominava il campo falisco, onde questi presi da timor panico si sbandarono, cercando di raggiungere le mura, e così Falerii da Camillo venne assediata. Traendo però in lungo l’assedio avvenne l’aneddoto troppo noto del maestro traditore, che fu causa della resa della città, alla quale venne imposto soltanto un tributo corrispondente al soldo di quell’anno, e conchiusa la pace, l’esercito vincitore ritornò a Roma: Livio lib. V. c. XXVI. e seg. In questo tratto della storia è da notarsi, circa i nomi di Falerii, e Falisci, de’quali come si disse di sopra, uno indicava la città e l’altro il popolo, che Livio, mentre fa sempre uso del secondo in tutti i fatti fin qui esposti, allorché parla del tradimento progettato dal maestro, dopo aver detto essere costume de’Falisci servirsi della stessa persona e per ammaestrare, e per accompagnare i ragazzi, soggiunge, che quello scellerato presentatosi a Camillo gli disse: Falerios es in manus Romanis tradidisse, cioè che col consegnare loro i fanciulli gli avea consegnato la città. Così i Falisci rimasero in pace co’Romani, fino all’anno 401, in che si misero insieme co’Tarquiniesi alla testa della lega etrusca contro Roma, e si portarono alle Saline presso la foce del Tevere. I Romani elessero allora dittatore Caio Marcio Rutilo; questi rimontando il corso del fiume, coll’ajuto delle barche, purgò a destra e a sinistra, dove fu di bisogno, l’agro romano da’saccheggiatori nemici, e s’impadronì ancora del campo, dove fece 8000 prigioni. La guerra però non fu terminata che cinque anni dopo, allorché stretti i Falisci da Quinzio, ed i Tarquiniesi da Sulpicio, per non potere più sopportare i guasti dati ai loro territori dai soldati romani domandarono ed ottennero una tregua di 40 anni. Livio lib. VII. c. XVII. e XXII. Essi mantennero fedelmente i patti per molto tempo, e Livio lib. X. c. XIV. narra, che nell’anno 457, dubitando i Romani della fede degli Etrusci, da Sutri, Nepi, e Falerii andarono legati a Roma, i quali assicurarono il senato, che le adunanze de’popoli della Etruria altro scopo non aveano che di chiedere la pace. La tregua durò fino all’anno 461 cioè 16 anni più del tempo convenuto: allora essendosi gli Etruschi messi in movimento contro i Romani, impegnati nella guerra sannitica, i Falisci si unirono alla lega, e commisero ostilità, onde i Romani dopo avere invano domandato per mezzo de’feciali una soddisfazione conveniente, intimarono loro la guerra. Questa fu condotta dal console Garvilio, il quale sforzò ben presto i Falisci a domandare la pace; ma non venne loro accordata, se non una tregua annua col peso di pagare cento mila nummi di bronzo grave, e lo stipendio di quell’anno ai soldati. Livio lib. X. c. XLV. XLVI.
Difficile sarebbe conoscere la causa, perché i Falisci, dopo essere rimasti quieti nella mossa fatta dagli Etruschi l’anno 470, si rivoltassero l’anno 512, in che i Romani vincitori de’Cartaginesi diedero termine alla prima guerra punica, conchiudendo il trattato di pace, che fece di una parte della Sicilia una provincia romana. Leggesi nella epitome di Livio lib. XIX. questa rivolta, e come entro 6 giorni furono ridotti a dovere: Falisci quum rebellassent sexto die perdomiti in deditionem venerunt. Non altrimenti Polibio lib. I. c. LXV. narra, che dopo il trattato conchiuso coi Cartaginesi, i Romani ebbero una guerra contro i Falisci, la quale terminarono vantaggiosamente, divenendo in pochi giorni padroni della città. Orosio poi lib. IV. c. XII. nota, che i Falisci vi perdettero 15,000 uomini che furono uccisi, ed Eutropio lib. II. c. XVI. aggiunge che furono multati della metà delle terre. Secondo questo scrittore ed i fasti trionfali capitolini i consoli che condussero quella guerra furono Q. Lutazio Cercone, ed A. Manlio Torquato Attico per la seconda volta, ed ambedue trionfarono: Lutazio il dì primo di marzo, e Manlio il dì 4 dello stesso mese. Orosio però pone questa guerra 3 anni dopo nel consolato di Tiberio Sempronio Gracco, e Publio Valerio Faltone; ma è chiaro che l’autorità de’Fasti dee meritare maggior fede. Valerio Massimo lib. V. c. 3. S. 1. narra, che volendo il popolo romano trattare con rigore i Falisci, Papirio segretario del console, e che per ordine del console stesso avea scritto l’atto della resa, disarmò lo sdegno del popolo, notando, che i Falisci eransi resi non al potere, ma alla fede de’Romani: non potestati, sed fidei se Romanorum comminisse. Zonara Ann. lib. II. ci ha conservato con maggiori particolarità i fatti di quella guerra, dicendo che nella prima zuffa la fanteria del console Torquato fu messa in rotta, e che questo disastro fu compensato dal vantaggio che riportò colla cavalleria. Che poscia in una seconda battaglia li sconfisse, e tolse loro tutte le armi, i cavalli, le suppellettili, gli schiavi, e la metà delle terre: e che in seguito la città stessa posta sopra un monte forte venne spianata e riedificata in luogo di facile accesso étepa doxodomete evefodoc [etera d¢vcodomete euefodoc]. Questo passo è molto importante per la topografia di questa città, e coloro che hanno voluto riconoscere in Fallari odierna la Falerii originale de’Siculi, non sarebbero caduti in tale equivoco, se lo avessero avuto presente.
Trasportata così Falerii da un luogo forte ad un luogo piano, i Falisci più non si mossero. Tito Livio lib. XXII. c. I. ricorda questa città, narrando il prodigio che ivi apparve l’anno 537 in che sembrò vedere aprirsi il cielo, ed uscirne una gran luce. In quel passo non viene designata come colonia, bensì lo è nel trattato de Coloniis, che si attribuisce a Frontino, dal quale apparisce che vi fu dedotta una colonia dai triumviri col nome di Colonia Junonia Falisci.
Facilmente si conosce perché avesse il cognome di Iunonia, riflettendo al culto, che i Falisci più particolarmente prestavano a Giunone, ed al tempio celebre di quella dea eretto in Falerii dai coloni argivi, del quale parla Dionisio nel passo riportato di sopra. Quindi Ovidio Fast. lib. VI. v. 49. chiama i Falisci Iunonicolae, e nella elegìa XIII. del lib. III. Amorum descrive la festa che a’suoi giorni continuava a celebrarsi ad onor della dea nel recinto della primitiva Falerii, dove secondo il costume romano, dopo lo smantellamento della città, lasciarono sussistere il tempio, situato, come afferma il poeta, sopra un colle di accesso difficile.
Difficilis clivis huc via praebet iter.
E descrive i giuochi celebri, che in tal circostanza si davano, e il bue indigeno, che dovea sagrificarsi, e un bosco sacro, nel quale era il tempio, e l’ara antica fatta senza arte:
Ara per antiquas facta sine arte manus.
e la pompa che a suon di tibia andava al tempio, passando per strade velate: e le giovenche, i vitelli, i porci, e gli arieti che doveano scannarsi ad onor della dea; alla quale però era invisa la sola capra, per la tradizione mistica, che avesse scoperto dove nella selva Giunone si era nascosta, onde una se ne lasciava, che con dardi era inseguita da’garzoni, e colui che la feriva l’avea in dono. Quindi aggiunge, come spandevansi dai giovani e dalle donzelle vesti per le strade, per le quali il simulacro della dea dovea passare, e come le vergini canefore coi crini ornati di oro e di gemme e co’calzari dorati, involte in una ampla palla, velate secondo l’avito costume greco, con vesti bianche portavano sul capo i panieri, che contenenano gli oggetti sacri, arcani. Il popolo al passare della pompa osservava un religioso silenzio; questa seguiva le vergini sacerdotesse. E conchiude il poeta:
Argiva est pompae facies: Agamennone caeso
Et scelus et patrias fugit Halesus opes.
Iamque pererratis profugus terraque, fretoque,
Moenia felici condidit alta manu.
Ille suos docuit Iunonia sacra Faliscos.
Sint mihi sint populo semper amica suo.
Durante l’impero romano una sola lapide io conosco, dalla quale apparisce che Falerii continuava, ad essere nello stato di colonia: essa è riportata dal Massa nella opera che intitolò De Rebus Faliscorum: e da lui la trasse il Grutero pag. CCLXXXVIII. c. I; quantunque sia frammentata si conosce appartenere alla classe delle onorarie, ed eretta ad un imperadore del principio del secolo III. Dall’ORDO ET POPVLVS COLONIAE FALISCORVM per cura di Tito Hyrio Settimio Agizio personaggio pretorio, e curatore della repubblica. I fasti de’martiri ricordano nello stesso secolo terzo il martirio sofferto in Falerii da Gratiliano e Felicissima vergine, il 12 agosto. Veggansi i martirologii di Adone colle note del Giorgi, ed il Romano con quelle del Baronio. I loro corpi sono oggi venerati in Civita Castellana, dove furono trasportati; città che vedremo essere sorta sulle rovine di Falerii primitiva.
La colonia romana continuò ad esistere almeno fino al secolo XI. della era volgare. In fatti l’Ughelli, ed il suo commentatore Coleti Italia Sacra T. X. ricordano i nomi de’vescovi della chiesa Falerina, Faleritana, e Faleritanense dall’anno 595 fino al 1033, incirca, cioè: Giovanni, che fu presente ai concilii romani del 595 e del 601: Caroso in quello del 649: Giovanni, che sottoscrisse gli atti del concilio romano del 679 e la epistola sinodica di Agatone nel 680: Tribunizio, che intervenne al concilio romano nel 721: Giovanni che segnò gli atti di quello del 743: Adriano nominato in quello dell’826: e Giovanni in quello dell’861, ragunato contro l’arcivescovo di Ravenna. Al conciliabolo dell’anno 963 assistè un vescovo Falarensis, del quale non si conosce il nome. Nel 978 si ricorda in un privilegio di Benedetto VII. Giovanni vescovo Faleritano: nel concilio romano dell’anno 1015 Crescenzio: e nel 1033, da una bolla di Benedetto IX papa apparisce la unione delle sedi vescovili di Falerii e Civita Castellana, cioè lo spopolamento della città o colonia romana, ed il ripopolamento della primitiva Falerii; imperciocchè in essa trovasi sottoscritto Benedictus s. Faleritanae et Castellanae Episcopus. L’ultima memoria, che ho rinvenuto dell’essere ancora abitata questa città appartiene al 1 luglio 1064 ed è in un documento del Registro Farfense n. 994, nel quale è sottoscritto un Teuzo di Crescenzio giudice di Fallari.
E circa a Civita Castellana, nel registro di papa Gregorio II. pertinente al primo periodo del secolo VIII. ed inserito da Cencio Camerario nel libro dei Censi, edito dal Muratori nelle Ant. Med. Aevi T. V. col 827. si nomina il Monastero di s. Silverio nel monte Soratte, al quale fu dato in enfiteusi da quel papa un fondo denominato Canciano ex corpore Massae Castellianae patrimonii Tusciae. A quella epoca pertanto i fondi di questa contrada, pertinenti alla Chiesa Romana, formavano una massa denominata Castellana, o Castelliana per le molte castella, che conteneva. A misura però, che la Falerii romana si andava spopolando, raccoglievasi gente sulle rovine della Falerii primitiva come luogo più inaccessibile e per conseguenza più sicuro in que’tempi di scorrerie continue; e questa a poco a poco nel secolo IX. e X. formò una città, che dalla massa sovraindicata fu detta Civitas Castellana, nome che ancora ritiene. Infatti fin dall’anno 997 si nomina negli atti de’ss. Abbondio ed Abbondanzio un Crescenziano vescovo Civitatis Castellanae, che trasportò i corpi di que’martiri in Civita, dove oggi si venerano: e poco dopo nel 1015 un Pietro, che sottoscrisse il decreto di papa Benedetto IX a favore di Guglielmo abbate Fruttuariense, dopo il quale le sedi di Civita, e Falerii furono sotto Benedetto vescovo unite insieme, come fu indicato di sopra. Sul principio del secolo seguente Pandolfo Pisano, nella vita di Pasquale II. presso i Rer. Ital. Script. T. III. P. I. p.355, narra, come quel papa attaccò colle sue genti Civita Castellana, designata come locum natura satis munitum, e la prese. Era allora Civita capo di un contado (Comitatus), che insieme colla città e con altre terre fu oppignorato l’anno 1158 da papa Adriano IV. a Pietro prefetto di Roma, ai suoi figli Giovanni ed Ottaviano ed ai suoi coadiutori ec. per la somma di 1000 marche di argento, eccettuando però quello, che un tal Malavolta avea ricevuto in Civita dalla Chiesa Romana. Questo pegno fu fatto per compensare le spese incontrate dal prefetto a favore della Chiesa, e si stabilì di redimerlo a cinquanta marche l’anno, cioè in 20 anni. Il Muratori nelle Antichità del Medio Evo tomo IV, c. 31 riferisce l’istromento originale di questa oppignorazione. Secondo que’patti il pegno dovea essere intieramente redento l’anno 1178; ma non lo era stato neppure nel 1195; imperciocchè da tre altri istromenti, appartenenti a quell’anno, che si leggono nella raccolta muratoriana sopraindicata tomo I. p. 143, tomo II. pag. 809 e seg. si trae, che la porzione di Pietro de Atteia o Attegio, nominato fragli oppignoratarj, fu svincolata, e riceduta alla Chiesa allora retta da papa Celestino III. dalle due sorelle Costanza e Sibilia di lui discendenti, e da Giacinto di Pietro Diovisalvi marito di Sibilia, e da’suoi fratelli Nicola ed Ottaviano, il dì 1 febbraio di quell’anno: e che ai 7 e 25 dello stesso mese gli eredi delle ragioni dotali e nuziali di Porpora moglie di Pietro prefetto, e sorella di Cencio di Romano di papa cedettero al papa le loro porzioni per 133 marche e mezza di argento. Nella bolla di Onorio III. dall’anno 1217 inserita nel Bollario Vaticano T. I. p. 100. e seg. si ricorda il territorio castellano, nel quale si pone Morolo, si unisce insieme col falaritano, dove si parla di Flajanellum.
Il passo di Zonara Annal. lib. II. riferito di sopra apertamente dichiara, che dopo la ultima resa di Falerii la città primitiva posta sopra un monte forte venne spianata, e che in sua vece un’altra ne fu edificata in un sito di facile accesso. D’uopo è pertanto riconoscere due città di Falerii diverse, una di fondazione argiva demolita dai Romani circa l’anno di Roma 512, l’altra di costruzione romana rimasta in piedi fino al secolo XI. della era volgare. La caratteristica lasciataci dal greco annalista della prima città è di essere sopra un monte dirupato: quella della seconda di essere in piano. Ora tutti concordamente riconoscono uno de’due Falerii a Fallari, non solo per la somiglianza del nome, ma perché rimane ancora in gran parte l’antico recinto con le porte e le torri, e ragguardevoli avanzi del teatro e di altre fabbriche antiche. Naturalmente però si affaccia la questione a quale delle due città di Falerii queste vestigia debbonsi attribuire: a coloro, che non hanno badato, se non alla somiglianza del nome, ed alla esistenza delle rovine, vi avvisarono la primitiva. Ma questi avanzi sono affatto in una pianura: le mura presentano il metodo romano di fortificazione, consistente in aver torri quadrilatere equidistanti, e la costruzione di massi quadrilateri di dimensione non istraordinaria di pietra vulcanica locale: l’arcuazione delle porte è di stile analogo ad altre opere romane arcuate del V. e VI. secolo di Roma, come pure lo sono le sculture e le modinature: e finalmente il teatro e le altre fabbriche che racchiudonsi da questo recinto, sono opere pure e prette romane; quindi d’uopo è conchiudere, che gli avanzi di Falleri sono da attribuirsi alla Falerii romana e non all’argiva. Dall’altro canto Civita Castellana, posta in un sito forte per natura, come viene descritto il Falerii primitivo di Plutarco in Camillo e di Zonara, occupa certamente il sito di una città antica, poiché visibili in varii luoghi sono gli avanzi delle mura antiche costrutte di massi quadrilateri lunghi 4 piedi, alti 2, cioè più considerabili di quelli delle mura di Fallari, come pure visibili sono molte grotte sepolcrali di maniera etrusca di là dal Ponte del Terrano, nella via antica che menava verso la Falerii posteriore. Né si sono trovati avanzi romani in Civita, come si veggono a Fallari. Ora dunque, se Civita è in sito forte ed occupa il luogo di una città antica non ripopolata dai Romani, altro non può essere in questa parte che la Falerii primitiva. La falsa opinione di coloro che vi volevano ne’tempi passati riconoscere il sito di Veii non merita oggi più confutazione, e su tal proposito leggasi ciò che nell’art. VEII ho dichiarato. E quanto a coloro, che vi credettero situato Fescennium, altra città argiva secondo Dionisio, e Strabone, a’tempi dei quali era ancora abitata, questa con maggior probabilità viene collocata a Gallese; che se devesi riconoscere a Civita Castellana, oltre ciò che si è notato, dovrebbe riconoscersi pur qualche avanzo romano, sendo che a’tempi di Augusto e di Tiberio era ancora popolata.
Civita Castellana è distante da Roma per la strada postale odierna, detta del Furlo, poco meno di miglia 38. E’ una città fortificata, che ha 2300 abitanti, ed è sede vescovile, e di governo del distretto di Viterbo, nella delegazione di questo nome, e provincia del Patrimonio. Il colle dirupato, sul quale giace è isolato da tutte le parti, meno verso mezzodì, ossia verso Nepi e Monterosi, dove si unisce ad una spianata per mezzo di una specie di istmo: scorrono a piè della rupe i rivi detti Rio Vicano e Rio Maggiore, che ivi confluiscono insieme e formano il fiume Treia che non molto dopo cade nel Tevere. Forte così per natura è situata in guisa da poter signoreggiare il nodo delle strade di Nepi, di Acquaviva, di Ponte Felice, di Amelia, e di Viterbo. Non isfuggì tale importanza di sito a papa Alessandro VI, il quale commise ad Antonio da Sangallo, fratello del celebre Giuliano, di farvi la fortezza, che oggi ivi si vede, e che serve di prigione di stato. Oltre questa fortezza e le vestigia delle mura antiche ricordate di sopra, Civita non presenta altro edificio degno di osservazione, che la chiesa episcopale, opera del secolo XIII. ed il bel ponte fatto edificare dal cardinal Imperiali nel 1712.
Andando da Roma a Civita Castellana, dopo il ponte di Nepi, che è circa 31 miglio lungi da Roma, la strada postale di Nepi a Civita sale ad un ripiano; passa poco dopo sopra un ponte un rivo influente del fosso Pozzolo, al quale nella carta di Litta si dà il nome di Falisco: sale quindi ad un altro ripiano: scende ad un’altro ponte circa il segno migliare 32, e poi per quasi due miglia va in piano attraverso un bel bosco di querce. Poco prima del miglio 34 si passa il Vicano, che poi per quasi quattro miglia costeggia a destra la strada incassato in ripe profonde, ed imboschite. La strada di là fino a Civita va sempre sopra un dorso, e fino dal miglio 35 si vede da lungi Civita: il Vicano dopo il miglio 36 si accosta di molto alla via, e le rupi che coronano il suo corso offrono una bella veduta pittoresca: dall’altro canto a sinistra la vista si spazia verso i gioghi del monte Cimino. Circa il miglio 37 e mezzo si passa un ponte ed un quarto dopo se ne tragitta un’altro, dove a sinistra si ha la veduta imponente della fortezza, e questo annunzia l’ingresso in Civita.
Da Civita a Falleri la strada odierna per un mezzo miglio circa è quella postale del Furlo. Uscendo dalla città veggonsi sulla ripa opposta del rio Maggiore belle rupi, nelle quali sono sepolcri degli antichi Falisci: a sinistra si vede un ponte: a destra ravvisansi tracce delle mura di pietre quadrate dell’antichissima Falerii sulla sponda destra del rivo. Il Soratte colle sue molteplici punte acuminate di calcaria maestosamente si sviluppa verso oriente e di là da esso a maggior distanza spiegansi dinanzi gli occhi i gioghi nevosi della Sabina, frai quali vedesi spuntare il sole. Poco dopo aver lasciato sulla stessa mano il convento de’cappuccini si volta a sinistra per andare a Falleri. La strada per buone 3 miglia è moderna, malagevole, tracciata a traverso una boscaglia. Verso il quarto miglio, dove cominciano a travvedersi le mura della Falerii romana s’incontrano le vestigia della strada antica, demolita in parte l’anno 1830.
La pianta della città si avvicina alla forma triangolare, col vertice troncato verso settentrione, dove è la porta detta di Giove e coll’angolo orientale retto pure troncato. Venendo da Civita si ha primieramente di prospetto il lato meridionale, dove un sepolcro romano indica l’andamento della via antica, ed una porta è ivi dappresso: un’altra n’è nell’angolo orientale, oggi ostrutta; una se ne osserva in mezzo al lato orientale, che è quella per la quale oggi si penetra nella città, e presso a questa all’ingresso è un tratto di pavimento dell’antica via, ed a sinistra sono ruderi di altri sepolcri romani, uno de’quali è piramidale: la quarta porta è quella del vertice, detta di Giove. Per tutto il tratto sovraindicato le mura presentansi con imponenza, a segno che presso la porta di Giove havenne un pezzo di circa 43 palmi di altezza: conservano pure le torri quadrilatere, che le difendevano: esse sono in gran parte in piano perfetto e ricordano l’epitetoeuefodos [euefodos] dato da Zonara alla posizione della Falerii romana. Il lato occidentale, che è dirupato, lungo il quale scorre il rio Miccino, che scende dai monti di Caprarola, Carbognano e Fabrica per riunirsi 2 miglia sotto Falerii al rio Maggiore, questo lato, dissi, non conserva che pochi avanzi delle mura, ma sibbene evidenti tracce di tre porte, una non lungi da quella di Giove testè nominata rimanendo il solco della via, che si dirige verso l’abbadia abbandonata di s. Maria, l’altra intermedia non lungi dal teatro, e la ultima, o la settima ha il nome di porta del Bove ed è presso l’angolo meridionale. Sette pertanto furono le porte di Falerii, delle quali quella di Giove, e quella del Bove hanno nome la prima dalla testa di Giove, l’altra da quella di un toro scolpite nella chiave dell’arco.
L’interno della città offre gli avanzi di una piscina, e quelli di un teatro scavato negli anni 1829 e 1830, opera veramente romana, e del tempo di Augusto, dove molti frammenti di statue si scoprirono, ed una bella di Livia, fra queste, sotto le forme della Concordia, insieme a due statue frammentate di Caio e Lucio cesari. Altri ruderi informi si veggono fra la piscina ed il teatro: e due tumuli, che incontransi fra la piscina e s. Maria coprono gli avanzi di qualche tempio. Quanto a s. Maria, essa, e l’annessa abbadia ora pienamente abbandonata, ed in rovina, furono edificate con frantumi antichi nel secolo XII. La chiesa è a tre navi divise da colonne: sulla porta a sinistra vedesi incassato un capitello antico ornato di trofei e di schiavi: ivi pure si legge la epigrafe seguente del secolo XIII.
+ LAVRENTI + HOC OPVS
VS.CVM IACO Q INTAVALL
BO FILIO SVO. FIERI FECIT
FECIT.HOC OPVS
Forse in questi dintorni fu un tempio antico, che fornì i materiali alla chiesa. Presso di questa è la porta di Giove più volte ricordata, che è la più conservata, essa è rivolta a nord-est e conserva le tracce della saracinesca, colla quale chiudevasi.
[Trascrizione Sergio Carloni]
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