(Estratto dell’Annuario del R. Istituto Tecnico di Ascoli Piceno – 1927 – ’29)
(A mio padre ed a mia madre)
PREFAZIONE
Quantunque il compianto Prof. Mario Franci, con lusinghiero suo giudizio, mi avesse più volte sollecitato a pubblicare i miei studi sulla “Civiltà Falisca”, pur tuttavia non avrei forse mai accondisceso a questo suo desiderio, se nuovamente oggi il chiarissimo sig. Preside del R. Istituto Tecnico di Ascoli Piceno, Prof. cav. Aldo Moroni, non mi avesse benevolmente spinto ed esortato a pubblicare parte dei miei lavori sull’Annuario Scolastico: quindi tale monografia inizierà una serie di pubblicazioni sui Falisci.
Da parecchio tempo si è intesa la necessità d’illustrare Civita Castellana nella storia e nell’arte; perché, se Francesco Tarquini con la sua “Storia” ed Oronte Del Frate con la sua “Guida”, hanno cercato con nobile intento, inadeguato però alla loro preparazione ed alla loro cultura, di sopperire a tale manchevolezza, tuttavia tali scritti non reggono alla moderna critica storica ed alle recenti indagini archeologiche.
Scarse sono le notizie sul popolo Falisco, tramandate dagli antichi storiografi: le informazioni per il periodo primitivo o mancano o sono incerte e perciò più che le indagini rivolte nel campo della tradizione storica, vengono in sussidio i monumenti ed il vario materiale vascolare, elementi tutti di vita e di arte che esprimono il gusto e la cultura di questo popolo ed il suo grado di civiltà. Ed i Falisci ebbero una civiltà propria e particolare che li poneva al disopra di tanti popoli limitrofi, se per civiltà s’intendono tutte le varie manifestazioni, civili e sociali, politiche e religiose, artistiche e letterarie. Oltre a ciò essi furono l’anello di congiunzione tra la civiltà Etrusca e quella Romana che doveva poi spingersi alla conquista del mondo.
Se pertanto consideriamo oggi la vestigia dei sepolcreti, delle mura, delle strade, che dopo tanti secoli si presentano ancora in tutta la loro impressionante grandiosità, non dobbiamo vedere in essi i miseri avanzi di un’età morta, ma il segno di vita intensa di una delle nostre forti genti italiche, che dalle primordiali caverne, ove era usa a cercar rifugio, aveva col proprio genio saputo ascendere alla maestosa grandezza dei templi di Apollo e di Giunone, avvivando una corrente di civiltà propria, non soffocata poi né inaridita dal sopravvivere delle nuove correnti etrusca e romana, con le quali anzi si fuse, apportandovi elementi di vita, di arte, di civiltà.
Così narrano quei ruderi, quei sepolcreti, quelle strade, tutto quel materiale vascolare, faci luminose che aiutano a rischiarare le diverse fasi della vita di quel popolo di cui ogni tradizione è spenta e tacciono le narrazioni degli scrittori.
Civita Castellana, Settembre 1929.
LA TRADIZIONE STORICA E LE SCOPERTE ARCHEOLOGICHE FALISCHE
Civita Castellana: nido d’aquile. Si può pensarlo! Sorge a 50 chilometri da Roma, costruita da grandi massi parallelepipedi sopra una immensa platea di tufo separata dall’altipiano circostante da profondi burroni scendenti a picco, scroscianti di fresche acque e ricoperti di opachi elci che rendono il paesaggio caratteristico ed attraente; incastonata all’orizzonte tra i monti Cimini, Sabatini ed il Soratte è vigilata dai saldi bastioni del Sangallo su cui s’innalza il gran mastio poligonale. L’antica città (Falerii Veteres) fu fondata dagli Umbri Sabellici e subì la dominazione degli Etruschi. Roma le impose la sua signoria ed il Cristianesimo vi gettò ben presto i germi della nuova religione. Nella sua storia si riflettono i bagliori di quella del papato dall’inizio del potere temporale al 1870. Fin dalle più remote antichità il genio italico ha lasciato in Civitacastellana tracce della sua operosità. Dai Falisci abbiamo il numeroso materiale vascolare proveniente dagli scavi delle ricche necropoli; materiale ora ben conservato e disposto nel Museo Nazionale di Villa Giulia a Roma. Basta scendere per la scoscesa strada dei “Sassi Caduti” per trovare le vestigia dei celebri tempi di Giunone Curite e di Mercurio. Dell’epoca romanica è la Chiesa Cattedrale stupenda ed imponente opera cosmatesca deturpata in parte dal barocco nell’interno, intatta nel gran portico: lavoro insigne di architettura e di ricchissima decorazione musiva eseguita nel secolo XIII da Lorenzo, Giacomo, Cosma e Deodato, marmorari Romani. Il rinascimento ha dato due imponenti palazzi (Trocchi – Baroni) ed il Castello eseguito per Alessandro VI da Antonio Sangallo, il vecchio, grande artefice dell’architettura militare, ed ultimato sotto il pontificato di Giulio II che vi fece innalzare il saldo Mastio ottagonale. La cinta delle spesse mura è a base pentagonale e provvista di larghi fossati, ponti levatori, cannoniere e feritoie: fu spettatore silenzioso delle orgie di Rodrigo Borgia.
Fin dalla seconda metà del secolo XIV si credeva che nell’odierna Civitacastellana avesse avuto origine e si fosse in antico sviluppata la potenza e la civiltà del popolo Veiente; intorno allo stemma di un sigillo della Comunità di quel tempo era inciso a grossi caratteri “Veii Veteres”.
Ma nei primordi del secolo XVI col sorgere degli studi archeologici e delle indagini e della critica storica si cominciò a mettere in dubbio tale ubicazione perché non corrispondente a quanto scrissero gli storici ed i geografi dell’antichità.
A difendere la vecchia tradizione si seguirono in varie epoche e fino al 1830, alcuni scrittori come il Mazzocchi (1), il Massa (2), il Castiglioni (3), ed il Morelli (4) i quali, considerata la posizione e conformazione del luogo, credevano che giustamente si addicesse a Civitacastellana la descrizione che Dionigi d’Alicarnasso, Plutarco e Livio avevano fatta di Veii fondata “in excelso et undique praerupto scopulo” (Dion. i. II) e difesa “muris atque sito ipso” (Livio i. I) e ponevano la Falerii antica nell’attuale Santa Maria di Falleri, desumendo ciò dalle mura e dalle maestose porte che pensavano essere opera dei ciclopi.
Diversamente altri però come lo Zanchi (5), il Nardini (6), il Cluverio (7), il Cursio (8), e lo Scotto (9) sostenevano essere errata tale opinione, sia perché dagli storici era fatta menzione del Cremera che, costeggiando tutto l’altipiano veiente sboccava al Tevere “quinto ab urbe lapide”, mentre il Treia si avvicinava a Civitacastellana per breve tratto in direzione sud-est; sia perché questa città era distante da Roma circa 32 miglia mentre Plinio (N. H. III. 5) dice che Veii ne era lontana “fere XIII milia passuum”.
Di questi scrittori alcuni, senza peraltro risolvere la questione, vi collocavano la città di Fescennium, altri invece la Falerii Veteres.
Di fronte a così numerose controversie gli abitanti di Civitacastellana, seguendo le teorie dei loro concittadini Mazzocchi e Morelli, anzi disprezzando tutte le dispute che si facevano, continuarono fino alla prima metà del secolo XIX a chiamarsi veienti, per la qual cosa il Nardini li appella “superbi e presuntuosi” forse perché non ascoltavano quanto egli andava scrivendo.
Ancora oggi sussistono tracce di tale denominazione in epigrafi, iscrizioni, bolle pontificie di quei tempi: sulla porta del vecchio Palazzo Comunale (10) edificato dalla munificenza di Leone X era scritto “qui steterunt Veios nunc renovare licet” ed in una lapide sul fiume Treia demolita nel 1835 si leggeva: “Urbanus VIII P. M. – ad Cremeram ubi nostri Fabios – trucidavere Veientes – pontem hunc quae vetustas exederat – instauravit anno pont. XII”.
Forse l’ultima iscrizione in tal senso è quella del 1827 che si conserva nella Chiesa Cattedrale in cui questa è chiamata “Veiorum Basilica”.
Verso il 1830 si iniziarono delle esplorazioni nell’Etruria meridionale ed in special modo in quei luoghi ove esteriormente si vedevano vestigia di mura e di monumenti: e ciò non solo per raccogliere statue, monete, vasi ecc., quanto per studiare e conoscere la topografia delle città ed ogni altra manifestazione della vita antica. Se da tale investigazione si potette stabilire con certezza che l’Isola Farnese fu la sede del popolo Veiente, non ugualmente fortunati furono gli scavi eseguiti in S. Maria di Falleri, ove si venne a conoscenza di una città abitata da Falisci, ma appartenenti ad epoca tarda (terzo secolo a. C.), come lo rivelarono le tombe a camera con materiale vascolare di scadente fabbricazione locale, le iscrizioni lapidarie romane, i resti architettonici in marmo e peperino.
Dove era adunque la Falerii Veteres principale centro politico e religioso del popolo falisco? Dove i templi, le vestigia preromane della scienza e dell’arte per le quali essa andava celebre nell’antichità?
Ovidio (11), Plutarco (12), Valerio Massimo (13) ci dicono che la primitiva città era situata sopra un’altura ben difesa ed inaccessibile; Zonara (VIII, 18), che gli abitanti debellati, dalle legioni romane furono costretti ad abbandonare il colle ed a fabbricarsi una nuova città “in planitie expugnatu facile”.
Gli storici e gli archeologi, tra cui il Garrucci, per ipotesi collocarono l’antica città nell’altipiano di Civitacastellana, circondato da profondi burroni, da numerosi sepolcreti e da tracce di vecchie mura, ivi riscontrando quanto ci era stato tramandato dagli antichi storiografi.
Tale supposizione si mutò in realtà quando nel 1873 in contrada “Fosso dei Cappuccini” alcuni operai rinvennero cinque idoli di bronzo finemente eseguiti; in seguito a ciò s’iniziarono i lavori e si venne alla scoperta di una fonte sacra, di oggetti e materiali votivi e della Via Sacra o Velata proveniente da S. Maria di Falleri (Not. Scav. 1887), confermando in tal modo quello che Ovidio aveva descritto negli “Amores”, (III, 13) durante una processione religiosa in onore di Giunone.
GLI SCAVI ED IL MUSEO DI VILLA GIULIA
Gli scavi regolari furono iniziati a cura del Ministero della Pubblica Istruzione nel 1886, dopo il rinvenimento di un tempio in contrada “Celle”; si costituirono allora anche due società private di ricerche archeologiche con regolare riconoscimento statale, le quali incominciarono i loro lavori in contrada “Penna” e “Valsiarosa”, ove già apparivano esteriormente indizi di antiche tumulazioni. Il materiale rinvenuto fu trasportato a Roma dando inizio al Museo di Villa Giulia, così detto perché sistemato negli appartamenti di Papa Giulio III, ove fu disposto secondo un criterio insieme topografico e cronologico: cioè fu distinta ciascuna contrada e per ognuna di esse le tombe furono ordinate secondo la loro epoca.
Nessuno allora si curò che gli oggetti restassero in Civitacastellana, ove avrebbero costituito per i visitatori un maggiore e particolare interesse artistico e topografico; ora invece molti si occupano della questione, ma invano, perché col tempo le difficoltà sono divenute insormontabili. D’altra parte però il Museo di Villa Giulia permette, oltre che la rapida cognizione ed il dominio archeologico del vasto territorio Falisco, anche il ragguaglio con il materiale dell’agro Capenate, Prenestino e di alcune città etrusche (Veii, Satricum ecc.), dando un quadro più organico e complesso dell’antica civiltà sviluppatasi nel Lazio e nelle regioni limitrofe.
Ben poca suppellettile si è rinvenuta a confronto dell’estesa necropoli che si eleva circondando tutto intorno la vecchia città: numerose tombe furono depredate fin dai tempi antichi, quando uomini spinti dall’avidità dell’oro, dell’argento e del bronzo si diedero a profanare ed a devastare ogni cosa; molte altre distrutte dai lavori agricoli e da movimenti tellurici. Certamente la regione Falisca chi sa ancora quali tesori d’arte ci occulta!
Oltre a queste irreparabili perdite dobbiamo ricordare altri fatti che permisero l’esodo all’estero del nostro materiale archeologico. Il Museo Etrusco di Parigi, quello Imperiale di Berlino, quello Britannico e quello Metropolitano di New Jork conservano una buona ed importante raccolta del materiale proveniente dai nostri scavi: degni di particolare attenzione sono le oreficerie provenienti dalla necropoli di Narce, ed il pregevolissimo vaso falisco al Museo di Berlino che rappresenta “il sacrificio dei prigionieri Troiani all’ombra di Patroclo”; il cratere falisco raffigurante “Ercole, che contornato dagli Dei, uccide i due serpenti”, che presentemente si trova al Museo di Londra.
Nel 1849-50 il comandante della guarnigione francese del Forte Giulio, pregevole opera di fortificazione del Sangallo, fece eseguire degli scavi nella necropoli “Colonnette” e tutto ciò che rinveniva spediva a Parigi; inoltre il materiale trovato dalle due società private di scavo non sempre era attentamente e diligentemente esaminato e scelto dai commissari delegati alla compera per conto dello Stato Italiano e spesse volte si autorizzò la vendita a privati di oggetti di un certo valore artistico; né si deve dimenticare tutto quel materiale che giornalmente viene alla luce e che non si può controllare e l’altro che è trafugato e manomesso da scavatori clandestini.
Ciò nonostante le antichità pervenute dalle necropoli dell’agro Falisco, le terrecotte architettoniche dei tempi di Falerii, costituiscono il nucleo più importante del Museo di Villa Giulia ed offrono al visitatore una sintesi dello sviluppo artistico ed industriale della regione dal X al III secolo a. C.
Quasi tutti i periodi sono rappresentati con eguale raccolta e sistemazione di suppellettile: dai rozzi vasi di impasto impuro dell’epoca arcaica ai preziosi prodotti di importazione orientale, dai severi e nobili vasi attici a figure nere e rosse a quelli di imitazione locale che talvolta raggiunsero una perfezione di tecnica e di decorazione da superare quelli greci.
FALERII VETERES
La popolazione primitiva che abitava a piccoli gruppi nelle caverne non poté dare alcun vero e proprio impulso alla sua civiltà per le condizioni stesse in cui si trovava. Ma quando per la venuta di nuova gente, per l’aumentato numero delle tribù e del bestiame addomesticato, le grotte vennero a rendersi incapaci a contenere tutti, la popolazione si vide allora indotta ad uscire all’aperto e scegliere delle dimore in luoghi elevati, maggiormente atti ad essere difesi dagli assalti degli uomini e delle fiere.
Nella regione Falisca il primo nucleo urbano si localizzò nell’altura di Vignale da dove si estese verso Ovest, formando la città di Falerii.
Il Bernabei nella relazione al Prof. Villari (Mon. Ant. IV) dice che “la città sorse da piccoli principi sul colle di Montarano” basandosi su alcune tombe a pozzo primitive ivi rinvenute. Ma tale opinione, se poté essere accettata fino a pochi anni fa, ora non lo è più, dopo la scoperta di un sepolcreto arcaico in località “Scasato” delle medesime forme e della medesima suppellettile di quelle di Montarano. Infatti in esso sono stati rinvenuti cinerari biconici di argilla ad impasto, fibule di bronzo, qualche anello e rasoio lunato, materiale rinchiuso entro grandi custodie di tufo.
Poiché i popoli Italici fin dai tempi più antichi non seppellivano entro la cinta delle mura i cadaveri e tale rito fu poi sanzionato dalle leggi delle Dodici Tavole (“Ne sepelito neque urito in urbe”) ne conseguiva che gli abitanti di Montarano per venire a deporre i loro morti in contrada Scasato, dovevano attraversare il colle di Vignale ove non si sono rinvenute fino ad ora tracce di sepolcreti né primitivi né di età più recente. Il Bernabei stesso, non potendo spiegare come poi la città di Falerii si fosse sviluppata nell’altipiano di Civita Castellana, dice che gli abitanti si trasferirono da Montarano a Vignale, senza darne una spiegazione plausibile.
Escludendo l’opinione del Bernabei, crediamo che i primitivi abitanti della regione si localizzassero in contrada Vignale, seppellendo i loro cadaveri nella necropoli di Montarano e Celle a nord ed in quella dello Scasato a sud-ovest, a seconda, forse, della divisione demografica a cui appartenevano i cittadini stessi. La scoperta del sepolcreto dello Scasato ha una grande importanza topografica perché, oltre che confutare la vecchia teoria, delimita e circoscrive sul colle di Vignale il primo nucleo urbano Falisco fino a tutta la seconda metà dell’VIII secolo a. C.
Allorquando però il territorio fu invaso dalla grande immigrazione degli Etruschi, la vecchia città dal colle di Vignale, divenuta incapace di poter accogliere l’accresciuta popolazione, si ampliò verso l’altipiano dell’odierna Civitacastellana fino all’odierno Castello del Sangallo, ove fu scavato un “vallum” artificiale ed innalzata una muraglia di difesa, di cui restano ancora tracce in alcuni avanzi formati da grandi blocchi parallelepipedi posti alternativamente per lunghezza e per testa a file orizzontali; costruzione comunemente detta “ad amplecton”.
Subito al di là di tale opere di fortificazione vi è la necropoli della Penna e di Valsiarosa con tombe a fossa ed a camera che mostrano un nuovo rito funebre sepolcrale. (inumazione), cioè una civiltà più progredita, quale è rilevata da graziosi vasi d’importazione orientale e dagli oggetti e monili d’oro.
La città di Falerii era situata sopra una estesa platea tufacea, costituita dalle alture di Vignale e Civita Castellana che si protendono maestosamente verso nord-est nell’ampia vallata del Tevere. Essa è isolata dal resto della regione ad ovest dal fossato artificiale, a sud dal rio Vicano , ad est dal Treia ed a nord dal rio Maggiore che con le loro acque hanno scavato burroni ripidi e profondi per oltre ottanta metri , rendendo in tal modo la città stessa inaccessibile per natura.
Il Colle di Vignale di forma trapezoidale, della superficie di circa 2 kmq. e che poteva contenere circa 12 mila abitanti, si presenta oggi separato dall’altipiano di Civita Castellana da una lesione di 60 metri nel lato sud-ovest. Ma che anticamente fossero uniti da una lingua di terreno larga circa 20 metri lo attesta un cunicolo posto nell’una e nell’altra rupe al medesimo livello con identica inclinazione e della stessa grandezza e dimensioni. L’antico “vallum” costruito dai primi abitatori a difesa del colle, l’azione disgregatrice delle acque, le lesioni prodotte dalle radici delle piante, lo scavo per la vecchia strada comunale, che a rampate saliva dall’odierna porta Borgiana, hanno causato la separazione dall’altipiano di Civita Castellana.
Anche oggi assistiamo di frequente alla caduta di enormi massi, tanto che la località viene denominata “Sassi Caduti”.
A Vignale si conservano ancora alcuni tratti di mura “ad amplecton”, sul lato est ove forse la difesa naturale del colle poteva sembrare alquanto deficiente. Vi si rinvennero inoltre due templi, l’uno detto “maggiore” e l’altro “minore” non essendosi potuto attribuirli ad alcuna deità, ed altre diverse opere di utilità pubblica: bagni, vasche per acqua, vasti magazzini sotterranei per viveri, vini, olii e cereali, cunicoli per drenaggi e per l’igiene della città, strade interne ed esterne, case ed abitazioni.
L’altipiano di Civita Castellana, di forma anch’esso trapezoidale, della superficie di circa 5 kmq. capace di contenere oltre 25 mila abitanti, non presenta che poche tracce della vita antica: il tempio dello Scasato dedicato ad Apollo, il primitivo sepolcreto, qualche vestigio di mura, di strada esterna e di cunicoli: sono i soli resti, che l’opera deleteria del tempo e degli uomini ci ha risparmiati, di quella città che fu una delle più illustri e più belle dell’antichità: “Falerii, quae Civitas Italiane opulenta quondam fuit” (Eutropio II, 28).
Altro centro abitato era il promontorio denominato “Castellaccio”, che, situato a nord di Civita Castellana, è arditamente incuneato nelle profonde rupi del Rio Maggiore e Purgatorio. L’altura è divisa in due parti da un “vallum” scavato nella roccia tufacea: la parte ad est conserva tracce di abitazioni, mentre quella ad ovest era adibita a sepolcreto che dalle tombe a camera e dall’esame della suppellettile sembra appartenere ad epoca tarda (IV, III secolo a. C.).
Quantunque sia difficile poter stabilire con certezza a quanto ammontasse la popolazione di Falerii nel periodo della sua maggiore civiltà e floridezza (dal VI al IV secolo a. C.), pur tuttavia abbiamo dalla tradizione storica un termine di confronto.
Il geografo Strabone facendo ai suoi tempi (seconda metà del I secolo a. C.) la descrizione dell’Italia, dice che nell’interno dell’Etruria le principali città erano Perusia, Volsinii, Arretium, e le minori Blera, Nepet, Ferento, e Faliscum, intendendo con ciò la nuova e seconda città (Santa Maria di Falleri). Sapendo che Blera contava 30 mila abitanti ed arguendo dal circuito delle mura che il Municipium Faliscum non ne potesse avere un numero inferiore, è supponibile che Falerii, centro di maggiore estensione ed importanza, abbia avuto una popolazione dai 40 ai 45 mila abitanti. Numerose strade univanno Falerii a tutti i grandi e piccoli centri abitati. La città nel medioevo aveva quattro porte principali: Romana, Posterula, Lanciana e Laurenziana; ma quali siano stati in antico i loro nomi non è possibile rintracciare.
Ad ovest, da Porta Romana usciva una strada che, oltrepassato il fossato – vallum – nella necropoli di Valsiarosa, si divideva: l’una, con direzione sud-ovest, attraversata la Vigna Cancilla, scendeva al Rio Maggiore per una grande trincea, ove ancora si legge un’iscrizione etrusca con lettere alte 25 cm. e, risalita all’opposta sponda, si univa alla via Annia in contrada “Cava dei Zucchi”; l’altra, oltrepassato l’antico ponte Terrano, del quale sussistono vestigia di grandi blocchi nel lato sinistro, e la necropoli Gori, si dirigeva a nord-ovest verso Santa Maria di Falleri ove si congiungeva alla via diretta al Cimino.
A sud, da porta Lanciana una strada scendeva in fondo all’ampia valle del Rio Vicano e, risalita la contrada Millecori, andava con direzione sud-ovest a Castel S. Elia e Nepi.
Un’altra strada proveniente da Corchiano, della quale si vedono importanti tracce nella gigantesca trincea denominata “Cavo della Ripa” e nei resti del ponte sul Rio Sorcello, entrava a nord per porta Posterula.
Dalla Laurenziana ad est scendeva invece una via che si biforcava subito sotto le mura: l’una, attraversato il Treia, lo costeggiava fino al Castel Paterno, dirigendosi poscia a sud-ovest verso Calcata; l’altra seguiva il corso inferiore del Treia andando, dopo aver oltrepassato l’antica strada Flaminia nei pressi del maestoso muro del Peccato, fino alla confluenza di questo torrente nel Tevere. Da una iscrizione rinvenuta, sappiamo che i Falisci vi avevano costruito due scali fluviali per il trasporto ed il commercio dei prodotti agricoli ed industriali. La lapide dice che un tal Curete faceva da cambiavalute al porto Vinario Superiore; da cui deduciamo esserne esistiti due – Q. Fulvio Cureti – Argentar Coactor – de portu Vinario Superiori. Patrono optimo et indulgentissim. – Doctus et Festus lib. (Mazzocchi, Veio difeso – C. I. L. XI, i – 3156).
* * *
Oltre alle strade sopradescritte sembra che la città avesse alcune vie di minor importanza e che vi si accedesse per mezzo di tagli fatti a rampate nella rupe. Nella parte nord della città di Falerii, dall’odierno orto dell’Ospedale Andosilla, una strada scavata nella roccia tufacea scendeva in fondo alla valle del Rio Maggiore, e, attraversatolo nei pressi del ponte Clementino e seguendolo sulla riva sinistra, si dirigeva verso est al tempio di Giunone Curite.
Si conservano: un bellissimo taglio nell’anzidetto orto e qualche tratto di pavimentazione fatta a blocchi trapezoidali di basalto.
A 500 metri ad est un’altra strada calava dall’orto delle Monache ed in fondo alla rupe si univa alla precedente. La strada è tutta scomparsa, ma è restata una caratteristica ed importante porta a pochi metri al di sotto della rupe con l’architrave sormontato da due blocchi di tufo triangolari sul tipo della porta dei Leoni di Micene.
Una terza strada scendeva dal lato ovest dall’altipiano di Vignale, mentre una quarta via calava dal lato est dirigendosi con inclinazione ad ovest al tempio di Giunone.
LE NECROPOLI DI FALERII VETERES
I Falisci, come tutti i popoli dell’antichità, avevano un culto, una venerazione, una cura speciale per i loro defunti, che credevano prendere parte alla vita nell’oltre tomba.
Per tali ragioni era evidente che le tombe conservassero gli oggetti dell’ornamento personale ed i vasi del corredo funebre, e che le tumulazioni con l’incedere del tempo e col progredire della civiltà divenissero sempre più accurate e maestose.
Le tombe delle necropoli di Falerii ed in generale della regione falisca si dividono in tre categorie:
a pozzo con cremazione
a fossa con inumazione
a camera con inumazione.
E ‘ assodato ormai che cronologicamente le tombe a pozzo sono le più antiche, cui seguono quelle a fossa, ed infine, come più recenti, le tombe a camera di cui alcune hanno carattere monumentale.
Tale distinzione cronologica è sostenuta dall’esame della suppellettile fittile, da oggetti ed utensili di bronzo, d’oro e d’argento, da armi ed infine da alcune particolari forme delle tombe stesse.
In nessuna altra necropoli si è avuta una continuità di tumulazioni e di materiale archeologico simile a quello di Falerii: si può con precisione seguire l’evoluzione del popolo falisco, attraverso le varie tombe e suppellettile, dal X al III secolo a. C.
Le più importanti necropoli di Falerii sono poste sulle alture di Montarano, Celle, Penna e Valsiarosa.
Il colle di Montarano è posto a nord della città e come un promontorio si protende maestoso nella valle del Rio Maggiore isolato dal fosso Catone e dall’antica strada che risaliva il “Cavone”, della Vigna Rosa, per congiungersi alla Flaminia in località “Lombrica”. La necropoli con tombe a fossa era sul margine del burrone verso sud, mentre quelle a pozzo restavano più internamente.
Alla destra di Montarano vi è l’importante sepolcreto di Celle con tombe a pozzo, a fossa ed a camera, esplorate nel 1889-90 senza che ne fosse stato redatto alcun rapporto nel bollettino delle Notizie di Scavi. L’altura ha un’ampia estensione, oltre un chilometro di lunghezza, e le tombe a camera tutte rivolte a sud-est di fronte all’abitato di Vignale sono vicine al burrone in fondo al quale scorre il Rio Maggiore. Una piccola strada tutta sul margine del colle metteva in comunicazione le camere sepolcrali. Le tombe a fossa ed a pozzo sono sparse per tutta la vigna Rosa senza alcun criterio topografico ed ordine.
Ad ovest di Falerii su di un’unica altura posta di là dal fossato sorgono le necropoli Penna e Valsiarosa, divise però dall’antica strada che conduceva a S. Maria di Falleri. Da detta strada partiva una via la quale si dirigeva verso il sepolcreto Penna con tombe a camera ed a fossa prospicienti la parte sud del Rio Vicano, mentre una seconda strada portava a quella di Valsiarosa con tombe a camera ed a fossa, le quali erano rivolte verso sud presso il burrone che si erge al di sopra del Rio Maggiore.
LE TOMBE A POZZO
Le prime manifestazioni di vita civile si hanno nelle tombe a pozzo rinvenute nell’altura di Montarano e Celle a nord e quelle in contrada Scasato a sud-ovest del colle di Vignale, ove si localizzò il primo nucleo urbano del popolo Falisco.
Le tombe a pozzo, che cominciano circa dal X secolo a. C. e discendono fino alla metà del’VIII secolo a. C. sono di svariate forme quantunque disseminate in una medesima area ed a profondità presso a poco uguale.
I tipi più antichi di tali tombe consistono in una apertura del terreno generalmente rettangolare o quadrata, talvolta rotonda, larga e lunga circa un metro, profonda uno e cinquanta o due metri. Nel fondo della cavità veniva deposta un’urna fittile rozzamente lavorata, alla quale faceva da coperchio una semplice scaglia di tufo.
L’olla che conteneva le ossa combuste dal rogo veniva coperta con la medesima terra rimossa per l’apertura. In seguito la lastra di tufo fu sostituita con una ciotola fittile, che rovesciata chiudeva ermeticamente l’apertura dell’ossuario. All’esterno si faceva un piccolo tumulo di terra su cui si poneva la stele sepolcrale.
Con l’andar del tempo si denota una cura maggiore nelle tumulazioni: quasi una civiltà più sviluppata. L’urna viene deposta in una rozza custodia di tufo a forma di cono, poscia in due calotte sferoidali fra loro aderenti e chiuse a mezzo di un incastro.
Talvolta l’ossuario veniva deposto entro un grande orcio fittile, oppure nella cavità inferiore della tomba scavata nel masso e chiusa superiormente da un coperchio di tufo lavorato, in modo da costituire un vero pozzetto.
I vasi del corredo funebre che s’incominciano a trovare in abbondanza in queste ultime tombe, ad eccezione del corredo individuale che bruciava insieme col cadavere e si collocava nell’ossuario con i resti di esso, erano deposti intorno alla custodia di tufo e ricoperti di terra.
In alcune tombe appartenenti certamente a persone più agiate e facoltose l’ossuario non solo era chiuso in una calotta di tufo con proprio coperchio od in un dolio fittile ma entro la custodia stessa era deposto in un lebete di bronzo. Nello spazio fra l’ossuario ed il lebete erano collocati gli oggetti dell’ornato personale e le armi del defunto. Nell’ultimo periodo delle tombe a pozzo si cerca di conservare gli oggetti del rito funebre deponendoli in una cavità scavata nella parete laterale più lunga, che veniva poscia ricoperta di terra. Tale ripostiglio costituisce l’inizio del loculo votivo, che in seguito, migliorato nella forma, fu chiuso da una lastra di tufo o da una grande tegola fittile: il materiale in tal modo veniva preservato dall’azione disgregatrice delle acque e della terra.
LE TOMBE A FOSSA
Con la venuta nella regione Falisca di un nuovo popolo, gli Etruschi, subentrò un nuovo rito funebre. Dalla cremazione si passò alla inumazione: i cadaveri non erano più bruciati sul rogo, ma deposti in casse di legno o di tufo. Non si ha tra i due riti una divisione netta: per breve tempo si usò l’uno e l’altro seppellimento a seconda dei costumi famigliari e della divisione politica, finché gli Etruschi, che incominciavano in quest’epoca a comparire apportando una nuova civiltà, soppiantarono i vecchi riti e le vecchie usanze. Tuttavia il rito della cremazione non scomparve mai dalla regione falisca: talvolta fu indice di maggiore povertà, talvolta invece segnò la fedele tradizione avita di alcune famiglie appartenenti alla vecchia popolazione soggiogata dagli Etruschi.
Le tombe a fossa vanno alla seconda metà dell’VIII secolo a. C. e scendeno fino dalla prima metà del VI secolo a. C., cioè fino a quando defluì nella regione falisca una nuova corrente commerciale puramente greca. Le più antiche tombe a fossa furono rinvenute nelle necropoli di Montarano e Celle, quelle più recenti in contrada “Valsiarosa” e “Penna” ad ovest ed in quella delle “Colonnette” a nord della città.
I tipi primitivi di tali tombe consistono in una fossa rettangolare profonda tre metri, larga metri 1,50, lunga 1,70 = 2 metri: in fondo alla cavità veniva deposto il cadavere in un tronco d’albero incavato od in una cassa di legno. Insieme agli oggetti dell’ornamento personale, che facevano parte delle vestimenta poste indosso al morto, vi erano inoltre armi per gli uomini, conocchie e fusi per le donne; fuori della cassa venivano collocati i vasi del corredo funebre.
Alla cassa di legno, che generalmente si decomponeva, si sostituì il sarcofago di tufo che posava sul terreno senza rialzi di sorta.
Il coperchio era leggermente arcuato e le estremità delimitate da un incavo in tutti e due i lati lunghi. Le tombe a fossa, come quelle a pozzo, erano ricoperte dalla medesima terra scavata; la suppellettile in seguito fu deposta in un rudimentale loculo votivo scavato nella parte lunga della cavità; tale loculo poscia fu migliorato e l’apertura chiusa con sassi squadrati; le casse ebbero i piedi, rialzo che le rendeva esteticamente meno rozze e più belle.
In relazione alla progredita civiltà del popolo falisco si nota nelle ultime tombe a fossa una sostanziale differenza che prelude la tomba a camera. Il cadavere, invece di essere chiuso in una cassa di legno od in un sarcofago di tufo, fu deposto in un grande loculo che era in uno dei lati della fossa. L’apertura era murata con assi ed argilla, il resto ricoperto con i detriti dello scavo. Dentro il loculo il cadavere era deposto in una cassa di legno di cui è stata rilevata l’impronta nello strato di sedimento.
Il vasellame del corredo funebre, che fino ad ora era semplicemente rituale, fatto cioè per essere deposto nel sepolcro, in tali tombe incomincia ad essere nelle giuste e vere proporzioni dei vasi della mensa e degli utensili d’uso; talora sono gli stessi oggetti appartenenti al morto.
Con l’andar del tempo il loculo, che generalmente era grande quanto la parete della fossa, incomincia ad essere di proporzioni e di dimensioni sempre più grandi: in esso unitamente al cadavere si collocavano gli oggetti del rito funebre e quelli dell’ornamento personale: questi però talvolta erano deposti in un piccolo loculo di fronte al grande che riceveva così il solo cadavere. Talvolta però anche questo loculo era ingrandito in modo da ricevere un secondo defunto. A tali tombe seguono le altre a cui si accede per mezzo di una piccola porta rozzamente arcuata che era in fondo alla cavità e metteva ad una cella grande quanto bastava per accogliere un cadavere: m. 2 di larghezza e 2,50 di lunghezza. Nel mezzo su lastra di tufo giaceva il cadavere che intorno aveva gli oggetti del corredo funebre. La porta veniva chiusa con sassi e la cavità riempita di terra.
Nelle ultime tombe a fossa, scavate nel tufo, il defunto veniva deposto in un sarcofago e si accedeva ad esso per mezzo di una strada inclinata. Il sarcofago, ricavato dallo stesso masso tufaceo di forma rettangolare e con piedi, era simile a quelli che si rinvennero nelle tombe a camera più antiche. Il suo coperchio a differenza dei sarcofagi precedenti aveva il tetto regolare a due spioventi. Queste tombe a fossa possono considerarsi come il tipo di passaggio a quelle a camera.
LE TOMBE A CAMERA
Le tombe a camera hanno inizio nel sesto secolo a. C. e scendono fino al terzo secolo e più precisamente al 241 a. C. quando la città di Falerii fu rasa al suolo dalle legioni romane. Esse erano disseminate ovunque nelle necropoli in contrada Celle, Colonnetta, Penna, Valsiarosa, Ponte Lepre, Ponte Terrano. Le prime tombe a camera scavate generalmente a poca profondità nel masso tufaceo erano a forma trapezoidale con le pareti di fondo molto più larghe delle altre. La volta era piana e rozza senza alcun motivo architettonico. L’ingresso era generalmente un corridoio in piano, ma talvolta vi si accedeva a mezzo di una gradinata. Sulla porta vi erano due incavi rettangolari in cui si incassavano i sassi necessari alla chiusura della tomba. Nella cella sepolcrale il cadavere era deposto in una cassa di legno od in un sarcofago di tufo con il coperchio a due spioventi. Talvolta se ne rinvennero due o più: in tali circostanze un lato della tomba era allungato. Gli oggetti del corredo funebre erano collocati ai lati del defunto. La via di accesso, chiusa la porta del sepolcro, era riempita con la terra estratta dallo scavo; al di fuori della tomba si fissava la stele votiva con il nome del defunto, come si è rinvenuto nelle necropoli di Felsina, Fiesole, Volterra. Tali tombe a camera differiscono da quelle a fossa solo nell’ampiezza della cella e nella porta che ha giuste proporzioni.
Segue la camera ipogea, ricavata dal maso tufaceo con concetto architettonico. La cella era di forma quadrata imitante l’interno della casa e presentava in uno dei lati il letto funebre di legno oppure di tufo. Accanto ad esso era collocato il corredo che in seguito però fu deposto in un loculo votivo aperto ad una certa altezza in una delle pareti della camera.
In tempi posteriori il sepolcro non solo incominciò ad avere l’aspetto interno della casa ma anche quello esterno: in tal caso nelle porte sono scolpiti gli stipiti e l’architrave con gli angoli inferiori a becco di civetta. L’interno della cella aveva tutto intorno un rialzo ricavato dal masso che formava i letti funebri. Tali letti erano concepibili solo quando vi si deponeva un unico morto, dopo del quale la porta si chiudeva per sempre. Ma quando più letti furono allestiti per i componenti di una famiglia ed il sepolcro era aperto ad ogni singolo defunto, certamente i cadaveri in decomposizione dovevano offrire un triste e macabro aspetto ai visitatori. A rimuovere simile spettacolo si provvide col deporre i cadaveri nei loculi ove si era soliti mettere il corredo funebre.
Da allora le camere sepolcrali vennero considerate dei veri repositori. In principio i loculi furono uno o due, poscia tre, infine otto – dieci per parete in due sezioni per ogni lato della camera, ad eccezione di quella d’ingresso che ne aveva un numero sempre minore. I loculi che misuravano in media m. 2 di lunghezza, cm. 80 in profondità e cm. 50 in altezza, erano chiusi da lastre di tufo o da grandi tegole ove con ocra rossa veniva scritto il nome del defunto: il corredo funebre era collocato ai lati della camera sepolcrale. Si sono rinvenute alcune tombe di proporzioni gigantesche: lunghezza m. 10, larghezza m. 8, i cui loculi erano oltre 100 (contrada Valsiarosa): nel mezzo un gran pilastro quadrato ricavato nel tufo sosteneva la volta. Quando una tomba di dimensioni ristrette non era capace di contener tutti i defunti di una famiglia se ne allungava allora una sola parete laterale.
Accanto alle tombe che mancano di qualsiasi decorazione, e sono le più numerose, ve ne sono alcune con le pareti dipinte, altre decorate a rilievo con animali fantastici o con motivi architettonici. Le pitture delle poche tombe rinvenute in contrada Celle (VI – V secolo a. C.) consistono in piccoli rombi posti orizzontalmente l’uno vicino all’altro per i soli angoli e decorati a sezione con rosso, bianco, nero. La tomba, di forma rettangolare, lunga metri 6,20 e larga metri 4,40, ha un loculo votivo nella parete centrale ed un letto funebre ricavato dal vivo masso.
Il tufo facilmente friabile e deperibile non si prestava ad essere dipinto con scene di caccia, di lotta e di banchetti, come è stato rinvenuto in altre necropoli (Tarquinii, Caere, Veii). Più numerose e di maggiore importanza sono le tombe con decorazioni a rilievo (Celle, Colonnette, IV secolo a. C.); nelle basi dei letti funebri sono scolpiti mostri favolosi: serpenti e teste di grifi. L’architettura è solamente interna, fatta eccezione della porta in rilievo, perché le tombe venivano coperte con terra ed una stele ne indicava il luogo. Esse internamente hanno l’aspetto della casa dei vivi: nel soffitto piatto è rilevato dal tufo il trave maestro sostenuto da uno o due pilastri sormontati da un rozzo capitello (Celle, Colonnette IV secolo a. C.).
Gli scavi della necropoli di Celle, che costituisce il sepolcreto più importante della città di Falerii per i bellissimi vasi ivi rinvenuti, furono fatti nel 1889-90 per conto di una società privata ed ispezionati dal Pasqui e dal Cozza, Commissari statali (14). Delle scoperte non è stata fatta relazione alcuna nelle “Notizie Scavi” perché si attendeva alla compilazione di un secondo volume che costituisse il seguito a quello precedentemente pubblicato “Sugli Scavi di antichità nel territorio Falisco” e che illustrasse le sole scoperte fatte nel territorio di Falerii, come chiaramente manifesta il Bernabei nella relazione del 1. Maggio 1892 al prof. Villari (Mon. Ant. IV).
Tale pubblicazione non ebbe forse più corso in seguito alla nota inchiesta (Bollett. Uff. Minist. P. I. Giugno 1899), disposta quando nacquero dei sospetti sulla sincerità degli aggruppamenti archeologici che si andavano facendo al Museo di Villa Giulia.
I proprietari dei terreni concessero sempre di fare eseguire delle esplorazioni nei loro fondi con l’obbligo però di riportarli allo stato primiero, cioè ricoprire tutte le eventuali trincee che fossero state aperte. In tal modo oggi non è possibile vedere che qualche tomba a pozzo ed a fossa, mentre di quelle a camera ve ne sono molte aperte, specialmente di quelle poste sul ciglio dei burroni, adibite a ripostiglio degli strumenti agricoli. Abbiamo potuto in ogni modo accedere in tre importanti tombe poste sull’alture di Celle e rivolte verso sud in una medesima direzione. Esse sono state lasciate aperte perché presentano delle decorazioni in rilievo di qualche importanza.
Incominciando da ovest verso est abbiamo una tomba con porta rettangolare larga metri 1,20 ed alta 1,50; nell’interno si presenta una bellissima camera lunga metri 7,10, larga 5,20 ed alta metri 2,50; nel mezzo due colonne quadrate di centimetri 60 x 50 hanno una specie di capitello formato dai lati che in alto si allargano verticalmente e sorreggono una trave ricavata dal masso tufaceo. Nella parete di fronte si apre un grande loculo che ne occupa tutta la lunghezza posto a metri 1,40 dal piano della camera, profondo cm. 80 ed alto metri uno. Appena entrati nella tomba si presenta a destra una magnifica cassa funebre di tufo mentre alla sinistra si vedono i resti di un’altra andata distrutta. La cassa rialzata dal terreno per mezzo di quattro zoccoli è lunga metri 2,20, larga metri uno ed alta metri 1,30: un grande coperchio a spioventi diviso in due parti chiudeva la cassa, in ciascun lato di esso vi erano due bracci rotondi lunghi cm. 30 terminanti a teste di grifo e che forse costituivano i punti di presa per sollevare le due pesanti parti del coperchio. Di fronte alla cassa vi erano scolpiti nel masso tufaceo due serpenti incrociati.
Lontano circa cento metri da questa abbiamo un’altra tomba di maggiore importanza per un maestoso letto funebre che vi si conserva. La camera con una porta larga metri 1,30 ed alta metri 1,60 ha una lunghezza di metri 7 ed una larghezza di metri 5,80; a metà è divisa da una parete di tufo; si accede alla parte posteriore per mezzo di una porta centrale a forma trapezoidale con gli stipiti dipinti di rosso terminanti con un bordo a fiamme rosse, nere e bianche; le altre due porte laterali sono basse e ad arco a tutto sesto con una bordatura esterna in rosso larga cm. 20. A destra di chi entra c’è un bellissimo letto funebre lungo metri 2,30 e largo metri 1,20 scolpito nel tufo con quattro piedi a rilievo.
Nella parte superiore v’è un rialzo che costituisce il cuscino e che poi scende con piano inclinato a quello posteriore. A sinistra si vedono tracce di un altro letto funebre andato distrutto. Poco distante è la terza tomba pitturata a scacchi che abbiamo precedentemente descritta.
L’ARTE NELLA SUPPELLETTILE
La civiltà Falisca, quale si è rilevata essenzialmente nella suppellettile rinvenuta nelle tombe delle necropoli di Falerii e degli altri centri abitati della regione, ha avuto un’evoluzione lenta e progressiva trasformando e dando origine a quelle concezioni e forme nobili e pure in cui l’idea è perfettamente consona con la materia. I diversi periodi o stadi della civiltà sono rappresentati con materiale vario ed abbondante in modo da costituire un sicuro esame ed un anello di congiunzione fra l’età storica e la protostorica, perché ad indagare la civiltà primitiva non c’è che l’esplorazione archeologica, i cui materiali dissepolti con cura e coscienza sono sicuri documenti per lo studio delle condizioni civili dei popoli antichi. La diversità del rito funebre (cremazione ed inumazione) e le varie forme delle tombe ad esso connesse (a pozzo, a fossa, a camera) riscontrate nei sepolcreti falisci hanno dato numeroso e differente materiale di scavo. E’ vero che fra le tombe a pozzo più recenti e quelle a fossa più antiche si rinvenne della suppellettile identica, ma ciò fu dovuto massimamente al trapasso dalla cremazione alla inumazione, quando cioè gli abitanti che si incamminavano, anche per l’influenza di un nuovo popolo, gli Etruschi, su una nuova civiltà, potevano usufruire dell’uno o dell’altro rito funebre, ma con materiale vascolare nuovo, e meglio corrispondente alle esigenze della vita. Similmente si verificò nel trapasso delle tombe a fossa con quelle a camera quando nella regione incominciò a defluire una nuova corrente commerciale puramente attica. Tra i primi saggi di arte locale con caratteri prettamente arcaici ed i meravigliosi vasi falisci del IV secolo a. C. corre vario tempo: cioè quel lungo periodo di transizione durante il quale l’arte sotto l’influenza degli Etruschi prima e dei Greci dopo, andò a poco a poco acquistando la propria libertà ed individualità e si svolse armonicamente secondo l’indole, l’istinto e le particolari inclinazioni dei Falisci. La civiltà e l’arte di tale popolo si sviluppò nei primordi dell’età del ferro con le più antiche tombe a pozzo; poiché anche se compaiono in tali tombe armi, strumenti, ornamenti di bronzo, tuttavia per la nuova tecnica ed aspetto di essi, ed anche per la ceramica annessavi, appartengono al periodo del ferro (Della Seta – Italia Ant. – Museo V. Giulia). Ma precedentemente si hanno manifestazioni di vita fin dall’epoca eneolitica, quando gli abitatori delle caverne scavate lungo i margini del fosso dell’Isola, affluente del Rio Vicano, in contrada Fabrece, sfaldavano e levigavano la selce per farne utensili ed armi da caccia e da difesa. I corredi funebri rinvenuti nelle tombe si dividono in due categorie: quelli che formavano l’ornamento del defunto, cioè facevano parte delle vestimenta con cui il defunto fu seppellito e tutti gli altri utensili che unitamente al cadavere furono deposti nelle tombe. Nella prima abbiamo tutto ciò che è strettamente collegato con la persona: armi per gli uomini e strumenti da lavoro per le donne (conocchie e fusi) oltre a bracciali, a fibule, a rasoi, a collane ecc. Nella seconda tutto ciò che, quantunque collegato intimamente con i bisogni della vita secondo il costume vario dei vari tempi, non faceva parte integrale della persona – vasellame da mensa, da cucina, da toletta, candelabri, morsi per cavalli ecc. I fittili, a seconda della loro tecnica, mediante la quale si determina il successivo progredire dell’industria, si dividono in vasi d’impasto artificiale formato da vari elementi e vasi d’argilla figulina pura (Mon. Ant. IV). L’arte del vasaio si esercitò in principio con mezzi rudimentali e procedimento semplice: l’argilla dei vasi ad impasto veniva mescolata con silice e con sostanze arenarie per rendere più efficace e compatta la consistenza; tale composizione si riconosce nella frattura dei vasi che internamente mostrano di essere di terra bruna omogenea, con pieghettature di arenaria e cristallini di sabbia. Il grado stesso di cottura, a cui sono stati sottoposti i vasi, varia di molto: vi sono ceramiche a superficie nerastra, altre di nero lucido, altre di colore rossastro. Col procedere degli anni, con l’esame della ceramica importata, con l’esperienza diuturna e con l’osservazione attenta ed indagatrice, si venne alla scoperta del procedimento tecnico dei vasi di argilla figulina pura (IV secolo a. C. – Ceramiche Falische). Tale terra, posta in vasche, veniva mescolata, depurata da ogni elemento esterno, passata in modo da essere atta alla manipolazione; eseguito il lavoro plastico, se ne curava il prosciugamento lento e sempre ad una stessa temperatura onde evitare che durante il ritiro dovuto all’essiccazione, l’oggetto si deformasse e si rompesse. I vasi in tal modo lavorati venivano pitturati con sostanze minerali e quindi deposti in fornaci ben salde e forti ove il fuoco gradualmente doveva ascendere a temperature altissime (900 gradi). Tale fatto richiedeva certamente una pratica ed una conoscenza profonda nel preparare e nel trattare le argille ed i vari colori per pitture, poiché si procedeva con metodi empirici, ma riuscendo però ad ottenere dei veri capolavori d’arte per tecnica e decorazione.
VASI AD IMPASTO ARTIFICIALE
Nelle prime tombe a pozzo si hanno i vasi di rozza e grossolana manipolazione, lavorati con argilla non depurata, ma unita ad altri minerali. Vasi comunemente detti “ad impasto” che a seconda della cottura più o meno forte prendono un colore cinerognolo o nerastro. Essi appartengono alla civiltà chiamata comunemente “Villanoviana” e che deve essere considerata per quanto concerne l’arte come un riflesso di ciò che si svolgeva nel mondo greco (Civiltà del Dipylon). I tipi dei vasi del corredo funebre presentano poche e semplici forme: cinerari ed attingitoi a corpo biconico, anforette ed attingitoi a corpo lenticolare, rozzo piatto su piede. La mancanza del tornio non permetteva che i vasi avessero una perfetta forma sferica o cilindrica. In conseguenza le forme predominanti sono a doppio tronco di cono nei vasi più grandi e nei più piccoli quelle lenticolari, così dette perché più schiacciate. La decorazione, che si ha nella parte superiore del tronco di cono e nella maggiore espansione del recipiente, è semplice e costituita solo da qualche profonda incisione costantemente a motivi geometrici (meandri, angoli, croci uncinate, denti di lupo). La lucidatura, fatta a stecca, dava talvolta al rozzo vaso un aspetto più raffinato (Necropoli: Celle, Montarano, Scasato).
VASI D’ARTE ORIENTALIZZANTE ITALO-GEOMETRICI
Ma nelle tombe a pozzo meno antiche ed in seguito in quelle a fossa più recenti si nota nella suppellettile una trasformazione della tecnica vascolare: compaiono i prodotti dell’arte orientalizzante, cosidetti perché tratti dal Mediterraneo orientale ed i cui centri di fabbricazione non sono stati ancora ben determinati. Non è da escludere che il progresso, che in questa fase di arte mostra la civiltà Falisca, fosse dovuto all’arrivo di stirpi civilizzatrici, agli Etruschi cioè, provenienti dal bacino orientale del mare Egeo, i quali, emigrati nell’Italia Centrale, si fusero con le popolazioni preesistenti, dando loro nuovo ordinamento politico, nuove relazioni commerciali, nuovo rito funebre ed infine una nuova arte. I vasi dell’arte orientale sono di argilla figulina depurata e lavorata al tornio e cotta nelle fornaci. Sono i cosidetti vasi italo-geometrici di argilla biancastra e che hanno una decorazione con vernici marrone, nerognola, rosso violaceo in fasce, metope a linee parallele, denti di lupo; talvolta fra l’una e l’altra decorazione compare qualche figura d’uccello e nei prodotti più tardi si notano pesci e motivi vegetali orientalizzanti (palmette, boccioli, fiori di loto). Con tali vasi compare anche il bucchero, vaso d’argilla figulina d’un bel colore nero ebano, che alcuni vogliono attribuire ad un impasto con carbone. In essi v’è la sottigliezza delle pareti che, come nei vasi precedenti, è meravigliosa. Hanno inoltre una delicata decorazione di sottili linee incise, di circoli punteggiati e di animali graffiti che interrompono la monotonia della superficie nera. Tale ceramica presenta forme di vasi del tutto nuove: oinocoe, sckyphos, kylix, olpe (Necropoli: Celle, Montarano, Penna).
VASI D’IMPASTO DI IMITAZIONE ORIENTALIZZANTE
Contemporaneamente sotto l’influenza di quest’arte raffinata anche i modesti prodotti locali cercarono di trasformarsi e di migliorarsi nell’imitazione. Si ebbe così un’arte orientalizzante che si rinvenne nelle tombe a fossa. I vasi sono sempre d’impasto artificiale, ma questo, sia per la diversa composizione sia per differenti calorie di cottura, assume esteriormente un color rosso o marrone: si rinvenne anche qualche vaso spalmato di bianco. Incominciano a comparire i primi vasi dipinti, quelli a superficie rossa con colore bianco e quelli bianchi con colore rosso: la decorazione è sempre con ornati geometrici, semplice e graziosa: meandri, cerchi, denti di lupo, trecce; talvolta invece compaiono delle figure di pesci, cavalli ed animali fantastici. Sui vasi a superficie marrone resta ancora in uso la decorazione graffita, ma molto più leggera ed artistica e con soggetti e tecnica nuova. Si hanno gli stessi motivi dei vasi precedenti, animali e fiori orientali (palmette, boccioli, fiori di loto ecc.). La ceramica è lavorata al tornio e per conseguenza vengono modificate e migliorate le forme: decadono quelle a tronco di cono e lenticolari e prendono il sopravvento le cilindriche e le sferiche: olla, sostegno di olla, tazza e piatto su piede. Le tombe di questa fase raggiungono con le loro oreficerie e gli oggetti preziosi (ambra, scarabei), uno splendore ed una ricchezza dovuta alla lussureggiante civiltà etrusca (Necropoli: Celle, Montarano, Penna).
VASI PROTOCORINZI E CORINZI
Ai cosidetti vasi italo-geometrici succedono i protocorinzi che invadono verso la seconda metà del settimo secolo a. C. tutti i mercati e che costituiscono il punto di congiunzione con quelli corinzi. Essi sono piccoli e graziosi vasetti di forme svariate: sferiche, piriformi, ovoidali, che contenevano olii, unguenti, profumi, destinati all’ornamento femminile e per uso atletico. E’ l’alabastron, l’aryballos, il bombylios, di finissima argilla chiara o giallo-lucente a pitture rosse o marrone e con decorazione geometrica a spine, a fasce, a baccellatura che ben si adattavano alle forme minuscole, non esuberanza di riempitivi, ma ornati semplici e graziosi. Fra le zone di figure bestiali (anitre e uccelli) è importante la caccia alla lepre da parte di cani in corsa che dà l’idea di una grande vivacità.
A questi seguono i vasi Corinzi, così detti perché provenienti da Corinto, in quel tempo importante centro di cultura. Oltre le forme predette con vasi di piccole dimensioni per unguenti e profumi, è frequente l’aryballos globulare dal corto collo e dall’orlatura espansa; si hanno però ben presto oinocoe, kylix, con ornamenti a zone di animali veri o chimerici intramezzati e suddivisi da rosette, da foglie, da cerchi. Tali riempitivi sono sempre espressi con esuberanza ingombrante, senza alcuna accuratezza (Necropoli: Celle, Penna, Valsiarosa).
VASI ATTICI
Verso il VI secolo a. C. comincia nelle tombe a camera a manifestarsi una nuova corrente commerciale che arrestò lo sviluppo e fece isterilire l’industria locale dei vasi ad impasto e soppiantò il primato che i vasi corinzi avevano sui mercati esteri, specialmente Etruschi e Falisci. E’ la ceramica attica che arriva fino allo scorcio del V secolo a. C. e che domina tutte le regioni con i vasi che erano capolavori di tecnica e di pittura (Vaso Francois).
I vasi formati di argilla pura di un bel rosso vivo, dovuto certamente all’ossido di ferro contenuto in maggiori proporzioni e ricoperto alla superficie da meravigliose figure umane, presentavano belle e svariate forme: hidria, cratere, stamnos, pelike, lekythos. I primi vasi attici sono a figure nere su fondo rosso, ai quali seguono quelli a figure rosse su fondo nero che si dividono e classificano con il nome di stile severo, nobile e fiorito. Nella ceramica attica le figure nere ormai perfettamente corporee, che spiccano con il loro nero lucente sul fondo rosso dell’argilla, obbligavano l’artista nella trattazione del prospetto e del profilo con limitata particolarità del vestito e delle fattezze umane, dovuta all’uso del graffito. L’inversione del sistema pittorico, figure rosse su fondo nero, porta una vera e grande innovazione nei metodi espressivi delle scene; da questo mutamento di tecnica si avvantaggiò l’arte del disegno con schemi obliqui, con vivezza di movimento del corpo e con particolari molto più accentuati e minuziosi. Le vivaci figure rosse, dovute al colore dell’argilla, risaltano sul fondo ricoperto di vernice nera mostrandosi piene di vita e di sentimento. Il vaso attico, oltre alla parte centrale figurata, era ornato con triangoli, con palme rette od oblique, con meandri. I soggetti della decorazione pittorica erano tratti da miti greci, particolarmente da quello di Ercole e di Dioniso e dalle scene della guerra troiana, delle palestre, dei banchetti e della vita domestica. In generale l’artista trattava il soggetto più confacente all’uso, cui i vasi erano adibiti. Pochi sono i vasi rinvenuti nelle necropoli Falische provvisti d’iscrizioni e di firme; ad eccezione di qualche nome di divinità, comune è la espressione “kalòs” attribuita a qualche fanciullo dipinto nel vaso, con la quale però talvolta l’artista si gloriava della sua stessa opera. Da alcune firme apposte sul vaso e seguite dalla parola “epoiesen – fece”, sappiamo che un rython a forma di astragalo proveniva dalle officine di Surisco ed una kylix a figure rosse da quelle di Hierone.
Fra i migliori vasi di stile severo abbiamo un campione incomparabile, un Psykter, non solo per la forma rara del vaso, per la vivezza e l’impeto delle figure componenti la pugna dei Centauri e dei Lapiti, ma più ancora per l’effetto nuovo della pittura che è condotta a disegno lineare e con ombreggiature che danno alle figure un risalto ed un modellato del quale non si hanno altri esempi nei vasi di questa categoria.
Tra i vasi di stile nobile abbiamo un grandioso cratere intorno al quale si svolge “una danza sacra di undici fanciulle” che, tenendosi in catena per le mani, si muovono e cantano un inno corale, forse un parthenion, mentre una dodicesima fanciulla segna il ritmo della danza col suono delle tibie. Lo stile di questa pittura presenta una maggior leggiadria di forme e giustezza di disegno, specialmente negli occhi delle grandi e solenni figure di questo coro femmineo.
Fra i vasi di stile fiorito abbiamo un cratere a campana sul quale “l’entrata di Ercole all’Olimpo”, è rappresentata con quel gusto di stile e di composizione e con quel lusso di ornamenti nelle vesti e nelle teste che sono propri di questa classe di vasi (Necropoli: Celle, Colonnette, Valsiarosa).
VASI FALISCI D’IMITAZIONE
L’importazione dei vasi attici scompare nella prima metà del IV secolo perché essi avevano trovati più sicuri sbocchi in altre contrade. Se il commercio attico nell’Etruria e nella regione Falisca, durato circa due secoli, soppiantò per i suoi bei prodotti le industrie locali o ne limitò la produzione per il solo consumo delle classi inferiori della città e per gli abitanti della campagna, pur tuttavia non distrusse punto questa industria locale, perché verso la seconda metà del IV secolo e nel principio del III a. C. si ripete ciò che era avvenuto con l’arte orientalizzante; fiorì cioè un’arte locale d’imitazione. A quest’epoca risale il maggior sviluppo della ceramica pitturata etrusca proveniente da alcuni principali centri – Clusium, Volaterrae, Perusium – che però non dette buoni risultati: oramai la civiltà etrusca incominciava a scomparire. Nel cratere di Vulci dalla sagoma pesante, il quale rappresenta l’addio di Alceste con Admeto, abbracciati in mezzo a due demoni, vediamo un’arte etrusca nei particolari del costume, ma di gusto discutibile negli esuberanti motivi ornamentali. Una prova di ciò è data anche dal confronto dei vasi Falisci con quelli Etruschi nei quali si riscontra una maniera sciatta e sgradevole, con quella lineazione di figure generalmente goffe fatta a larghe pennellate di vernice cattiva. Ma l’arte locale d’imitazione raggiunse il più alto grado con la ceramica così detta falisca, la quale, se rimase inferiore alla greca per le qualità delle materie prime, somiglia però per l’ornamento delle pitture e per il procedimento tecnico con cui furono condotte. I vasi falisci, che imitano in prevalenza quegli attici di stile fiorito, differiscono da questi per il colore più chiaro dell’argilla, per la vernice nera meno brillante e per l’uso talvolta di quella gialla e bianca con cui vengono accentuate alcune parti della figura onde esprimere particolarità più minuziose. E su ciascun vaso si vede lo sforzo che hanno compiuto i singoli artisti per accostarsi alla perfezione delle tinte, degli smalti, delle luci onde raggiungere la massima purezza di composizione e di forma, espressione sempre più viva e profonda, congiunta alla finezza di sentimento che costituisce uno dei pregi migliori dell’arte falisca. Le forme preferite di vasi sono l’anfora a volute, il cratere a campana, lo stamnos di grandi dimensioni, la kylix, lo skyphos e l’oxybaphon. I soggetti sono tratti dai miti greci ma con variazioni locali; sono però preferite le scene dionisiache. Nelle tombe di questo periodo è caratteristica la posa di due vasi eguali. Di particolare attenzione per la pittura è lo stamnos falisco che presentemente si trova nell’Antiquarium di Berlino e che rappresenta il sacrificio funebre di due Troiani in onore di Patroclo. Notevole per iscrizioni in dialetto falisco sono le due kylikes qal Museo di Villa Giulia, rappresentanti Dioniso che bacia e sorregge Arianna. L’iscrizione dice “Foied vino pafo cra carefo - hodie vinum bibam, cras carebo - oggi berrò vino, domani ne farò a meno” (Penna – Not. Scav. 1887, C. I. E. 8179).
Come la ceramica falisca si distingue dall’etrusca, così non si può confondere con quella italiota della Magna Grecia, che ha vernice e terra differente, struttura di vasi esagerata, in special modo quella delle fabbriche Apule. Il Brizio (Nuova Ant. 1889, pag. 432) ammetteva una larga influenza della ceramica apula su quella falisca, ma dall’esame dei vasi esposti nel Museo di Villa Giulia due soli sembrano appartenere alle citate fabbriche. Questi costituiscono casi sporadici d’importazione di stoviglie nella nostra regione dalla Magna Grecia ed anche quando esse si fossero importate poca o nessuna influenza potevano esercitare sulla ceramica locale. L’arte falisca, senza attendere di là l’impulso, aveva già fissato il suo stile e scelti i suoi modelli. Se si osserva attentamente il materiale falisco e in particolar modo i migliori vasi ornati con grandi composizioni pittoriche si scorgerà la grande affinità con quelli attici dello stile fiorito. Degna di attenzione è un’anfora al Museo di Villa Giulia rappresentante “l’Aurora” il quale è ammirabile per la bellezza della sua forma plastica e la rara magnificenza della sua ornamentazione policroma, che è prodotta, oltre che dal nero della vernice e dal rosso della terraglia, dall’aggiunta anche del bianco.
Alcuni hanno voluto assegnare la fine dell’arte falisca al 241 a. C. quando fu distrutta Falerii. Noi invece con il Savignoni (Bollett. Art. XVI) crediamo che gli abitanti, ricostruita la nuova città a S. Maria di Falleri, abbiano ripreso a fabbricare vasi in special modo a rilievo ed inargentati che seguirono quelli pitturati, e che in abbondanza si rinvennero in questa necropoli.
L’arte della ceramica si perpetuò in Civita Castellana ed anche oggi, oltre alle fabbriche che producono oggetti industriali, ve ne sono di quelle che con rara perizia cercano di imitare negli smalti, nelle decorazioni e nella tecnica l’arte antica (15). E tale industria ha notevole e maggiore incremento trovandosi nel nostro territorio varie e numerose cave di maiolica la quale, trattata e posta in fornace, prende, a seconda delle materie che contiene, un bel colore rosso cupo, biancastro e giallo. Oltre la terra per maiolica si rinvenne in contrada “Oltre Treia” del caolino o terra bianca da porcellana con la quale il celebre Volpato eseguì dei lavori di grande pregio e finezza. Non è cosa riflettente questo nostro lavoro trattare per esteso la storia vascolare civitonica durante il medio evo; ne esistevano delle fabbriche fin dal 1556 poiché nello Statuto Municipale di quel tempo si parla della corporazione “de li vascellari”.
Ben giustamente il Savignoni dice: “ogni raccolta di vasi è come un libro aperto che ci rivela una buona parte di ciò che formava il patrimonio di idee, di arte e di civiltà dei popoli antichi e c’istruisce altresì intorno alle relazioni ed agli scambi sì materiali che spirituali avvenuti fra popoli diversi. Uno di cotali libri, e proprio dei più preziosi, è la raccolta di vasi di Villa Giulia, che, unitamente a tanta visione di arte e di pensiero, ci apre uno spiraglio sulla storia dei commerci, della operosità e della cultura di uno dei più valorosi ed industri popoli di Italia” (Boll. Art. XVI).
Le medesime trasformazioni della ceramica, attraverso le varie tombe, si hanno anche nella suppellettile che faceva parte dell’ornamento personale. Le tombe a pozzo hanno dato pochi oggetti d’ornamento in bronzo; fibula ad arco semplice o serpeggiante, a navicella, a sanguisuga; spirali fusiformi; aghi crinali; braccialetti e solo poche armi, rasoi lunati, lance, ed asce con alette (Mon. Ant. IV, 365). Ma nelle tombe a fossa con l’importazione dei materiali orientalizzanti incominciano a comparire bronzi martellati ed incisi, oggetti d’oro, d’argento, d’ambra; grani di pasta vitrea per collane (Necropoli: Montarano, Celle). Si hanno ancora cinturoni sbalzati e graffiti, rocche e fusarole per lavori donneschi, fibule a navicella, a drago, a sanguisuga di cui alcune ricoperte con fili d’oro; spirali d’oro e d’argento per ciocche di capelli, pettini triangolari, fermagli di cintura in argento, spade, filetti di bronzo per cavalli, braccialetti finemente lavorati a bulino ed incastonati con dischi di ambra, denti legati in oro. Oltre a ciò si rinvennero vezzi per collane di smalto policromo, giallo e bianco con occhietti di turchino; piccoli globetti di pasta artificiale rivestiti di vetro, pendagli vitrei rappresentanti divinità egizie – Horus – (Mon. Ant. IV); scarabei di pasta vitrea con iscrizioni egizie, monili e pendagli d’ambra. Sotto la influenza di tali materiali orientalizzanti si sviluppò nell’Etruria l’arte dell’oreficeria: bulle, orecchini, braccialetti, collane, anelli e quella dell’incisione delle pietre preziose. Si imita lo scarabeo egiziano con iscrizioni e rappresentazioni egizie, con figure del mito greco e con animali fantastici (chimere, pegasi), ma la materia plastica è sostituita da pietre dure (corniole rosse, agata semplice e fasciata). Quando si incominciò a rendere gli scarabei più commerciabili con lavorarli a trapano questi decaddero e furono sostituiti con le pietre, con le gemme e con i vetri romani.
NOTE
(1) Veio difeso – La distanza di Civitacastellana da Roma.
(2) De origine faliscorum.
(3) Sintagma in difesa di Veio.
(4) L’antico Veio in Civitacastellana.
(5) Veio illustrato.
(6) L’antico Veio.
(7) Italia antiqua.
(8) Civitatem Castellanam Faliscorum non Veientorum oppidum esse .
(9) Itinerario d’Italia (Civitacastellana detta Fescennia).
(10) Nel 1926 con provvedimento commissariale sono stati trasformati in botteghe gli archi del portico, che davano una nota caratteristica all’antistante piazza e fontana berniniana.
(11) Moenia felici condidit alta manu (Am. III, 13).
(12) Moenia expugnari non poterant (VI, 5).
(13) Falerios urbem ad bellum munitam omnibus rebus bellicis habentes (Cam. IX).
(14) Si deve ricordare in particolar modo l’opera altamente benemerita del Conte Ugo Ferodi De Rosa e del Rev.do Don Guglielmo Orazi, i quali con la loro operosità, sacrificio, abnegazione, aiutarono, e favorirono gli scavi e la raccolta del materiale archeologico.
(15) Di notevole importanza sono le seguenti fabbriche di ceramiche artistiche: Falisca Ars. – F.lli Crestoni – F.A.C.I.
[Trascritto da Sergio Carloni]
Finalmente un'istituzione che ha capito come diffondere la cultura in modo rapido e a costo zero. Complimenti
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