Cerca nel blog

Visualizzazioni totali

martedì 14 dicembre 2010

Emili Erina, Attività economiche e condizioni di vita durante i sec. 17. e 18. nel territorio falisco.




   Per territorio falisco si intende quella zona della media Valle del Tevere che da Capena (1) giunge ad Orte, compresa attualmente nei comuni di: Sacrofano, Magliano Romano, Campagnano di Roma, Mazzano Romano, Monterosi, Sutri, Nepi, Castel Sant’Elia, Civita Castellana, Corchiano, Gallese, Faleria, Calcata.
   La zona è prevalentemente pianeggiante con un andamento altimetrico crescente da est verso ovest, dove ha come confine naturale le propaggini del monte Cimino. Il sistema idrografico è quello del Treia, affluente di destra del Tevere, i cui numerosi subaffluenti hanno scavato nella roccia vulcanica profondi impluvi, e spesso hanno isolato con meandri, sproni con pareti a picco e con superficie piatta ove generalmente è sorto un centro abitato. Rupi dall’aspetto inaccessibile e selvaggio, che hanno costituito per secoli luoghi ideali per un insediamento difensivo.
   A tale morfologia sembra si possa attribuire l’origine dello stesso termine “faliscus” in quanto la radice “fal”, nel linguaggio indoeuropeo, significa generalmente altura o luogo collinoso in genere (2).

    Fonti – La ricostruzione delle condizioni di vita del territorio falisco nei secoli XVII e XVIII è stata possibile mediante la consultazione di numerosi documenti, tra i quali gli statuti comunali, gli atti notarili, le rilevazioni catastali e gli atti relativi ai rapporti tra le comunità locali e il governo centrale di Roma (3).
   Clemente VIII, nel 1592 con la Bolla “Pro Comissa”, dettò quella che divenne la carta costituzionale dell’amministrazione pontificia per circa due secoli e mezzo. Tale Bolla, indicata con l’appellativo “De Bono Regimine”, si componeva di trentuno articoli che regolavano tutte le amministrazioni delle comunità periferiche sia nel contenzioso amministrativo che in quello penale (4).
   Ogni amministratore doveva giurarne fedeltà e attenersi strettamente alle sue regole; da qui tutta una serie di rapporti quotidiani con le autorità centrali per l’approvazione di ogni tipo di spesa anche la più irrilevante.
   Annualmente veniva redatto un bilancio preventivo o tabella con la dettagliata descrizione dei profitti e delle spese (5); esisteva inoltre, presso le comunità, il libro delle entrate ed uscite giornaliere(6).
   Il significato di questi documenti è a mio avviso molto rilevante, poiché si tratta di testimonianze dirette di avvenimenti, relazioni, necessità, ecc., dalla quale si traduce la realtà quotidiana. Sono lettere spesso manoscritte ben conservate e la loro interpretazione non è molto difficoltosa (7).

SUOLO AGRARIO, PROPRIETA’, RAPPORTI DI LAVORO

   Agli inizi del secolo XVII la campagna presentava estesi campi ad erba (camporili, bandite, ecc.) per una superficie che copriva circa il 45% del territorio; i seminativi (colto) coprivano circa il 35%; il 10% era occupato da boschi (selva, cerqueto, cesa), e il restante 10% era suddiviso tra le varie colture intensive (ristretto, canepina, ecc.) (8).
   I metodi di coltivazione erano molto arretrati: la fertilità della terra veniva ottenuta soprattutto mediante l’incendio delle stoppie in quanto l’aratura era molto superficiale, non si effettuavano rotazioni, il frumento era seguito da legumi o da un anno di riposo, i prati artificiali erano sconosciuti (9).
   Le varie operazioni agricole, e in particolare la granicoltura, segnavano la vita delle comunità scandendo l’anno in vari periodi: dalla sterpatura, che si eseguiva a gennaio, alla quale seguivano le varie fasi di aratura, generalmente cinque tra febbraio e settembre, fino alla semina effettuata a ottobre novembre. Il nuovo anno iniziava con la “terra nera” cioè l’estirpazione di erbaglie mentre a giugno aveva inizio la mietitura fino alla “tritatura”, che veniva operata sull’aia, dove le spighe erano calpestate da cavalli o da buoi appaiati per ottenere il grano (10). La quantità della semina variava con la natura del terreno: nella terra “arenosa” rubbie 101, in quella “tufarina” rubbie 111, in quella “cretosa” rubbie 132 (11); il rendimento era circa 5 o 6 volte la semina.
   La presenza della vite nel territorio falisco risale alle epoche classiche, ma la sua coltivazione nel XVII e XVIII secolo quando dove era molto estesa; era praticata essenzialmente con il sistema dei filari e solo qualche volta si avevano le viti maritate (13). Anche la coltura dell’olivo era limitata a poche rubbie di terreno. Il patrimonio boschivo era stato ridotto per aumentare le superfici coltivate; nelle piante rimanevano esemplari sparsi con alto fusto soprattutto della famiglia delle querce (14). Le colture intensive erano limitate a piccoli appezzamenti di terre in prossimità e all’interno dei centri abitati: orti soprattutto nei fondivalle, legumi anche tra i filari delle viti, ecc..
   Era presente anche la coltura dell’orzo, dell’avena, della segala. Sia negli Statuti che nei capitoli del Danno Dato é inoltre menzionata la coltura della canapa; essa era localizzata nei terreni in prossimità dei corsi d’acqua (15).
   I proprietari di vaste tenute con casali agli inizi del XVII secolo erano i nobili (16) che trovavano la loro fonte principale di benessere nella coltura cerealicola indispensabile per i fabbisogni alimentari della popolazione romana, e nel pascolo.
   Al loro servizio erano varie categorie di lavoratori secondo una gerarchia di tipo feudale, fino ai contadini che risiedevano nelle campagne.
   Alla comunità erano riservati dei territori per circa il 30% della superficie complessiva: per uso pascolo, legname ecc..
   Nella prima metà del 1600 i Papi iniziano però ad emanare disposizioni tendenti ad erodere i rapporti di tipo feudale della campagna e ad estendere la coltivazione del grano (17).
   I nobili invece, che erano stati colpiti dalla diminuzione delle rendite tradizionali e dalla svalutazione della moneta, tendevano a diminuirla.
   Ne consegue un accaparramento di terre da parte di quest’ultimi ai danni dei contadini, con lo scopo delle affittanze ai cosiddetti “Mercanti di campagna”.
   In tutta la campagna falisca si ha così una forte concentrazione di terre con la diminuzione delle colture intensive, l’abbandono dei casali, l’aumento dei pascoli, il formarsi del bracciantato salariato (18). Il bracciantato provoca però un aumento dei costi, mentre i nobili non disponevano di denaro liquido; essi cercano allora di estendere la superficie a pascolo, essendo questa innovazione la meno costosa e più redditizia, mentre mantenevano stabile la superficie a grano anche se ne era aumentata la richiesta.
   Tale tendenza però si scontrerà con i propositi dei mercanti di campagna, possessori di denaro liquido. I mercanti di campagna erano diventati, intorno alla metà del Seicento, i veri protagonisti della politica agraria dello Stato Pontificio (19).
   Il sistema vincolistico permetteva loro più guadagni che non la produzione stessa, e, riscuotendo la completa fiducia da parte delle autorità centrali, si permettevano qualsiasi cosa: immagazzinavano il grano provocando penuria e necessità, intervenivano sulla gestione dei mulini, ecc. (20).
   Più che grossi affittuari possono essere considerati veri e propri imprenditori terrieri, in quanto la terra era il primo aspetto della loro attività. Essi prendevano in affitto più tenute, anche una decina (21) per poi subaffittarle o sfruttarle altrimenti; disponevano di pochi contadini, accentrati in casali sprovvisti di ogni sorta di comodità e di igiene.
   Per il lavori stagionali, per altro ridotti al minimo, facevano ricorso alla manodopera offerta da braccianti locali, o più spesso a quella che poteva affluire dai paesi dell’Abruzzo e delle Marche (22). I prodotti cerealicoli erano poi venduti sul mercato romano o immagazzinati e la popolazione locale si sfamava generalmente con poco pane.
   I documenti che vanno dai primi decenni fino a tutto il Seicento ci dimostrano come fosse deteriorata la situazione; i ceti popolari erano ridotti ad una estrema miseria, tanto che facevano appelli alla Sacra Congregazione del Buon Governo perché venisse aumentato il numero di ovini fino a 100 per casa, in quanto erano così gravati da pesi camerali e censi che disperavano di vivere (23).
   Dai primi decenni del secolo XVIII in poi, si assiste all’entrata in crisi del precedente sistema capitalistico mentre sorge l’esigenza di aumentare la produzione e di aprire i commerci ad una effettiva liberalizzazione. Una prima innovazione si avrà con Benedetto XIV, che nel 1748 promulga un editto per il libero transito dei grani nello Stato Pontificio.
   Lo sviluppo tecnico e il miglioramento dei metodi di coltivazione, messi in opera nel nord Italia e nelle altre zone europee, non trovò tuttavia né incentivi né accoglienze favorevoli sia tra i piccoli contadini che nutrivano avversione verso le innovazioni, sia tra i grossi proprietari che non avevano alcun interesse a fare ulteriori spese. Dovendo far fronte alle richieste di aumento della produzione, questo fu ricercato non in un progresso tecnico dell’agricoltura, ma in un aumento della superficie coltivata (24).
   Tra le colture viene introdotto il mais; ma la sua produzione portò un miglioramento poco rilevante sia all’economia dello Stato che alle condizioni di vita delle masse rurali (25).
   Vengono inoltre incrementate le superfici coltivate ad orzo, avene, segale e la coltura della canapa.

   Allevamento – La vita nelle campagne era regolata dagli statuti e dai capitoli del Danno Dato; essi venivano redatti in quanto i danni fatti dal bestiame nelle proprietà erano dati in appalto annualmente ad un imprenditore (26).
   Questi documenti oltre a darci notizie sulle colture e sugli allevamenti ci mostrano la complessità delle attività agricole e l’antagonismo tra allevatori e agricoltori (27).
   I mercanti del bestiame si alternavano ai mercanti di campagna nell’utilizzazione dei terreni: essi possedevano greggi con migliaia di capi e la loro permanenza svolgeva un’azione fertilizzante sui suoli agrari. Davano inoltre vita ad attività commerciali e artigianali: vendita delle pelli, tosatura della lana, trasformazione del latte, allestimento di fiere periodiche (28).
   Le razze venivano valutate in rapporto al rendimento della lana, anche se non trascurabile era la resa sul piano della carne. La più diffusa era la razza vissana, la sua lana veniva lavorata, dapprima molto artigianalmente; poi, nella seconda metà del secolo XVIII, si ha notizia di fabbriche per la tessitura sia a Roma che a Ronciglione, Narni, ecc. (29).
   Molto importanti per l’economia locale erano i suini, la cui carne poteva essere anche conservata, mentre i bovini si riducevano ai capi necessari per i lavori agricoli. Il patrimonio bovino era invece esteso nelle grosse aziende. In sostanza l’allevamento vero e proprio era praticato solo dai mercanti del bestiame, mentre la popolazione locale possedeva qualche capo per usi domestici o lavorativi. Un’importante risorsa alimentare era costituita dalla pesca; nei principali corsi d’acqua veniva data in appalto, mentre negli altri era libera (30).

COMMERCIO, ATTIVITA’ ARTIGIANALI

Dal Bilancio Comunale ricaviamo anche notizie sulle attività commerciale e artigianale della città. I servizi erano tutti dati in appalto al migliore offerente (31); il forno del “pan ve le” (32), la “pizzicaria”, la “stagneria”, l’”hostaria”, il “n cello”, l’uso di mulini. ecc. Alla gestione dei mulini erano legati sia interessi con la vita agraria e la produzione cerealicola locale che la tassa sul macinato era un giulio per ogni rubbio di grano (33).
   La “pizzicaria”, il “macello” erano forniti di pochi generi indispensabili; basti pensare che era concessa la macellazione ad un solo bovino per settimana solo nei centri più grandi.
   I prezzari pervenuti ci dimostrano, oltre la penuria dei prodotti in vendita, l’esosità rispetto agli introiti della gente che poteva ricavare denaro liquido solo attraverso lavori artigianali (34).
   Tra i servizi, molto importante era la “banca” detta Monte, alla quale la comunità ricorreva di sovente pagando i “censi”, cioè gli interessi (35). Nel Bilancio, tra le spese fisse della comunità, figurano gli stipendi del medico chirurgo, del maestro, del segretario, del predicatore della quaresima, mentre in entrata figurano le imposte camerali (a favore della camera apostolica) e comunitative (a favore del comune), ripartite in vario modo sui cittadini, sui proventi degli affitti dei beni comunali e su quelli dei vari appalti.
   Le tasse camerali erano a carattere provvisorio, ma spesso divenivano permanenti: tra le più note abbiamo la tassa sulla foglietta, sul macinato, sul sale, ecc. La stessa riscossione delle imposte era tuttavia data in appalto.
   Tra gli artigiani troviamo i “muratori”, i “calzolari”, i “falegnami”, e, a Civita Castellana, i “vascellari”. Questi ultimi si trovano già menzionati nello statuto comunale del 1565: si tratta di gente che lavorava l’argilla estratta da cave locali per fare vasi ed altri oggetti (36). Erano tuttavia attività molto modeste e di poca rilevanza dal punto di vista economico.
   Una diffusa indigenza traspare anche dai molti atti notarili pervenuti; le case generalmente comprendevano: un vano terra abbastanza spazioso e che permetteva molteplici usi, a volte anche il ricovero di animali, una scala spesso anche esterna che conduceva al piano superiore usato per dormire. Anche le suppellettili erano ridotte al minimo necessario, una cassa, un tavolo, la caldara, la mattera per la confezione del pane e pochi atri. La casa aveva quasi sempre una cantina e un cellario, il quale era un locale seminterrato scavato nel tufo, con funzione di dispensa.

CONCLUSIONE

   Dall’ esame dei documenti del Seicento e del Settecento, emerge che il territorio falisco fosse un’area agraria di scarsa fertilità, non per carenze potenziali ma per mancanza di coltivazione appropriata.
   Le colture sono quasi esclusivamente estensive, le piccole fasce intensive si limitano a pochi rubbi mentre la produzione cerealicola è volta ad esaudire le necessità del mercato romano, lasciando alla popolazione spesso neanche l’indispensabile. Risulta tutta una serie di petizioni scritte tra il 1630 e il 1680 (e qualcosa anche oltre), che mettono in luce il miserevole stato dei ceti popolari e rivelano una situazione sociale drammatica: da una parte il ricorrente sfruttamento degli appaltatori che specula su una mezza oncia di pane e dall’altra la rabbia, la rassegnazione, la implorazione dei meno abietti magari solo per la raccolta della spiga nei campi di grano già mietuti, in competizione spesso con le mandrie dei maiali.
   La esistenza istituzionalizzata del gruppo dei poveri, che apparentemente potevano sembrare protetti dalla presenza di un procuratore ufficiale, costituiva un elemento in posizione contestatrice dinanzi alla classe dirigente e ai signori di I° e di II° rango, ma in realtà non avevano né mezzi né possibilità per difendersi: potevano solo protestare affidandosi a suppliche e a petizioni.
   Le autorità centrali non intervenivano e si moltiplicavano speculazioni di ogni genere ai danni delle classi più emarginate (37).
   Le classi sociali si erano praticamente ridotte a tre: possidenti di I° rango, possidenti di II° rango e gruppo dei poveri; il ceto medio era molto limitato poiché era andato sempre più confluendo nella classe superiore e solo raramente in quella inferiore.
   I “macellari”, gli “speziali”, i “barbieri”, i “molinari”, potevano essere considerati possidenti di secondo rango.
   La stessa cosa risulta per la distribuzione delle proprietà; il primo censimento generale della proprietà fondiaria dello Stato Pontificio del 1782-83, ci conferma la quasi completa assenza della media proprietà (38).
   Se confrontiamo i dati con quelli relativi all’ultimo censimento dell’agricoltura possiamo affermare che la distribuzione della proprietà terriera per classi di ampiezza non ha subito cambiamenti sostanziali. Nelle aree pianeggianti prevalgono tuttora grandi aziende, nel territorio di Civita Castellana, le aziende con oltre 50 ha coprono circa il 70% della superficie, a Nepi il 63%, a Campagnano il 60% (39).
   Ben diversa è la situazione appena a nord di Civita Castellana, dove terminavano i domini della proprietà ecclesiastica e vigevano i possedimenti baronali. Nella Tuscia viterbese infatti, già nel Seicento la distribuzione della proprietà terriera era frazionata.
   Con il passare dei secoli possiamo constatare che si è avuto uno sviluppo agricolo con colture specializzate ove esisteva una tradizione agricola e un orientamento verso altre attività ove vigeva il latifondo e il bracciantato.


N   O   T   E

(1) Capena si trova a circa 25 km da Roma e il suo territorio costituiva in epoche storiche la parte più settentrionale occupata dai latini dopo il quale aveva inizio l’Ager Faliscus.

(2) STRABONE, V. 1. G. DEVOTO, Storia della lingua di Roma, Bologna, 1944.
G. BATTELLI, Rationes Decimarum Italia Latium, Città del Vaticano, 1946.

(3) Gli statuti comunali, i libri contabili, i bilanci comunali, i capitoli del Danno Dato, e tutta la corrispondenza tra gli enti locali e la Reverenda Camera Apostolica, si trovano presso l’Archivio di Stato di Roma e la Biblioteca Vaticana. Sono stati inoltre consultati l’archivio di Viterbo, di Civita Castellana, l’archivio Diocesano di Civita Castellana, la Biblioteca Falisca e qualche archivio privato. Numerosi catasti sono conservati presso la Biblioteca Apostolica Vaticana; catasto dei beni della comunità del 1629, L. 567; catasto del 1685, L. 569; catasto dei beni ecclesiastici del 1778, L. 561. Presso la Biblioteca Apostolica Vaticana sono conservate inoltre molte fonti cartografiche: R. ALMAGIA’, Documenti cartografici dello Stato Pontificio, Città del Vaticano, 1960; P. A. FRUTAZ, Le carte del Lazio, Roma, Istituto di Studi Romani, 1972, vot. 3°, Le carte del Magini ed altre.

(4) L’amministrazione delle comunità era regolata da organi e competenze ben precisate. Il settore deliberativo poggiava su tre forme di consigli: generale, pubblico, particolare. Il primo era rappresentativo di tutta la comunità, il secondo gestiva l’esecutivo e il terzo aveva poteri diversi da luogo a luogo. Il vertice era rappresentato da due cittadini, denominati Conservatori o Priori.

(5) L’articolo 1° della Bolla prescriveva che in qualibet “Civitate, Terra, Oppido, Castro et loco” dello Stato Pontificio, fosse redatta annualmente una tabella o bilancio preventivo, con la dettagliata descrizione delle spese e delle entrate. Essa veniva compilata dai magistrati della comunità con l’intervento di due deputati degli ecclesiastici, con l’assistenza del segretario comunale, riveduta dal governatore locale poi trasmessa a Roma. Fatte le opportune variazioni, la tabella veniva rinviata alla comunità di origine ed esposta per qualche giorno al pubblico.

(6) Alcuni dati riguardanti le spese della comunità di Civita Castellana nell’anno 1654:
A dì 8 maggio 1654: speso per il Bussolo
per due galli d’India                     scudi 2
per latticini e cascioli                    giuli 18
per carne                                        giuli 83
per herbette, biete, limoncelli        giuli 50
ecc.
Archivio di Stato, busta 1113.

(7) G. LODOLINI, Archivio di Stato, Roma, 1957.

(8) Archivio di Stato, busta 1113.
E’ SERENI, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari, Laterza, 1976, pp. 65-68;
G. TOMASSETTI, La campagna romana antica, medioevale e moderna, Roma, Loescher, 1910-26, vol. I, pp. 190-200;
A. CELLI, Storia della malaria nell’Italia media, malaria e colonizzazione dell’Agro Romano dai più antichi tempi ai nostri giorni, Accademia dei Lincei, Roma, Classe di Scienze fisiche, Memorie, I, 1925.

(9) L. DORIA, Elementi della coltivazione dei grani, 1777.

(10) L’operazione preliminare consisteva nella sterpatura che era eseguita con la zappa e nelle tenute era affidata alle cosiddette “compagnie”, un gruppo di venticinque persone sotto la direzione di un “fattoretto”. Ad essa seguiva l’aratura, che avveniva in più fasi distinte: la rompitura, la recuotitura, la refenditura, la rinquartatura, la rinfrescatura e il solco di sementa. Dopo la semina si tracciavano solchi trasversali per lo scolo delle acque, chiamati “sciacquatori”; in gennaio si eseguiva la “terra nera” cioè l’estirpazione delle erbacce e a giugno aveva inizio la mietitura e la raccoglitura e infine la tritatura.
R. DE FELICE, Aspetti e momenti della vita economica di Roma e del Lazio nei secoli XVIII e XIX, Roma, Ediz. Di Storia e Letteratura, 1965.

(11) Il rubbio romano era l’unità fondamentale corrispondente a 18:480 mq. oppure a 294.46 L. come misura di capacità per aridi.

(12) Nel territorio di Civita Castellana risultava coltivata a grano una superficie di 1000 rubbie, pari al 33% del totale.

(13) La riproduzione delle viti avveniva per “maiuoli” cioè tralci scelti che venivano posti a dimora in fossati di forma rettangolare.

(14) Nel territorio di Civita Castellana i boschi occupavano una superficie di 264 rubbie, pari al 9% della superficie complessiva.

(15) Nel capitolo venticinquesimo del Danno Dato del 1656 leggiamo: “E se porci, capre, pecore, o altri simili animali dessero danno a biade, canepine, legumi ed altri simili, caschino in pena de qualunque tempo sia de quaranta soldi per fiocca”.

(16) A. RENZI; Nota di tutti i casali di Roma, Archivio di Stato, busta 1118.
G. PULCINI, Falerii Veteres, Falerii Novi, Civita Castellana, Biblioteca Falisca, 1974.
A. GALLI; Cenni economici-statistici sullo Stato Pontificio, Roma, 1840.
G. SILVESTRELLI, Città, castelli e terre della Regione Romana, Ricerche di storia medioevale e moderna sino all’anno 1800, 2° edizione, Roma, Multigrafica Editrice, 1970, vol. I e II.

(17) N. M. NICOLAI, in A. CANALETTI GAUDENTI, La politica agraria e annonaria dello Stato Pontificio da Benedetto XIV a Pio VII, Roma 1947.

(18) G. CARROCCI, Lo Stato della Chiesa nella seconda metà del secolo XVI, Milano, Feltrinelli, 1961 C. DE CUPIS, Le vicende dell’agricoltura e della pastorizia nell’agro romano, Roma, Bertero, 1911, pp. 789.

(19) Il Carrocci ritiene i mercanti di campagna fautori del consolidamento della grande proprietà signorile e del subordinamento dei contadini, G. CARROCCI, Op. cit.

(20) Il carattere autarchico-vincolistico, imposto nel 1523 da Clemente VII nella speranza di far superare le frequenti carestie, e di far sì che i produttori fossero locali, aveva invece permesso ai grandi proprietari di monopolizzare la produzione. Archivio di Stato, busta 1118.

(21) Nella missiva di un mercante di campagna del 1634 si legge: “espone con ogni umiltà, … per grani già seminati nella Campagna Romana ascendenti in tutto a rubbie 200”. Archivio di Stato busta 1112.

(22) La manodopera locale veniva reperita da un fattore che si recava sulla piazza del centro abitato e arruolava uomini, donne e ragazzi, tutti venivano condotti nei campi con un orario di lavoro dal levar del sole al tramonto e con magri salari. Era però preferita la manodopera proveniente dall’Abruzzo e dalle Marche: si trattava di intere famiglie che si spostavano per lunghi periodi alloggiando dove capitava, anche all’aperto. Archivio di Stato, busta 1119. Alcune di queste famiglie con il tempo si sono stabilite nella zona.

(23) In una petizione del 2 novembre 1635 i legge: “Il popolo cittadino e i Poveri, humilissimi oratori delle EE.VV. gli espongono essere tanto gravati da pesi camerali e da censi che disperano ormai di vivere; ha pensato per sollevarsi da queste miserie introdurre nel suo territorio, le pecore in numero di cento per casa sperando con dette pecore l’abbondanza dei latticini, casci, lane et eguali ecc.”. Archivio di Stato, busta 1112.

(24) L. DORIA, op. cit. Ciò sta a dimostrare l’arretratezza e l’ignoranza di grandissima parte degli imprenditori agricoli convinti loro stessi che la campagna romana fosse derelitta e in abbandono solo per mancanza di abitanti e di colture. Nonostante gli incentivi e le disposizioni pontificie, in tutto il Settecento la produzione dell’agro romano non fu mai tale da coprire l’intero fabbisogno. Un certo aiuto veniva assicurato dai Monti Frumentari il cui scopo era quello di favorire la semina del grano mediante il prestito gratuito delle semine agli agricoltori.

(25) I benefici dell’introduzione del mais furono pagati con molti casi di pellagra. Archivio di Stato, busta 1112.

(26) Egli assumeva guardiani e vigilanti al fine di impedire il verificarsi dei danni.

(27) Esempio di un appalto del Danno Dato dell’anno 1645-46:”Nota delle pene del Danno Dato nelli capitoli dell’Appalto 1645-46”.
alli oliveti giuli 1 per bestie grosse e giuli 3 per fiocca di capre
alli grani giuli 30 per bestia grossa
ai pagliai giuli 1 per bestia grossa ecc.
L’appalto fu concesso per 237 scudi, molto più degli anni precedenti, con il malcontento della comunità, “alcuni poveri, per portare un grappo d’uva per strada, in vigore di detti capitoli, hanno pagato, fino a 10 scudi”. La conferma delle colture prevalenti si ha con il Bilancio comunale, nello stesso anno abbiamo infatti la “Tavola del territorio”:
ristretti e vigne  rubbie 431, pascolativi rubbie 700 ecc.

(28) La più importante si svolgeva agli inizi di novembre ed aveva la durata di circa 10 giorni.

(29) Archivio di Stato, busta 1134.

(30) Si pescava con il semplice amo, con la rete, con la razzuola, con lo sparviero ecc.

(31) Anche gli appalti generali venivano concessi al migliore offerente; nel 1646 tutte le entrate della comunità di Civita Castellana eccetto cancelleria ed archivio, furono date a Marco Paradiso per una somma di 3500 scudi. Archivio di Stato, busta 1113.

(32) Il prezzo della gestione del forno variava a seconda della raccolta; nel 1645 a Civita Castellana fu concesso per 180 scudi.

(33) La gabella fu imposta da Urbano VIII con chirografo del 29-5-1630.

(34) Esempio di un prezzario del 1640:
grasso       giuli 6
aringhe      giuli 30
sapone       giuli 10
agli            giuli 6

(35) Esisteva anche un apposito istituto che curava il deposito e l’acquisto del grano, detto Monte granario.

(36) Archivio di Stato, busta 1117.

(37) In una supplica del 1648 si legge: “Li poveri di Civita Castellana, humilissimi oratori della em. Vs. gli espongono come quella Comunità, ancora fa dare oncie quattro di pane a baiocco contro la santa volontà di sua Beatitudine; per il che li meschini muoiono di fame. Archivio di Stato, busta 1113.

(38) P. VILLANI, Ricerche sulla proprietà e sul regime fondiario del Lazio, Roma, Staderini, 1962, Vol. XII.

(39) ISTAT, 2° Censimento generale dell’agricoltura, 1970.

Pag 6 terza colonna riga 6
“pan ve le”
                                 riga 8
“n cello”
Pag 7 prima colonna riga 18
oglietta


[Trascritto da Sergio Carloni]

Nessun commento:

Posta un commento