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martedì 14 dicembre 2010

M. Fugazzola Delpino, La preistoria del territorio falisco





Cenni introduttivi

L’area geografica che mi propongo di esaminare, dominata ad occidente dai Monti Cimini, è costituita per la maggior parte da un falsopiano che digrada dolcemente dai 300 metri s.l.m. di Gallese, Corchiano, Civita Castellana, verso la grande piana del Tevere.
I suoli, originati dalle manifestazioni vulcaniche e da intensivi fenomeni di degradazione atmosferica, sono stati riconosciuti ideali sia per le attività agricole che per l’insediamento di nuclei abitativi, fin da tempi molto remoti.
Ai nostri giorni, nei terreni posti a quote superiori ai 600 metri, si trovano boschi d’alto fusto, mentre nelle zone pianeggianti più basse sono diffusi vigneti ed uliveti, in alcune aree associati a noccioleti ed a seminativi misti. Il territorio è particolarmente ricco di acque per la presenza, sia di una fitta rete idrografica più o meno radiale, appartenente al bacino del Tevere, a carattere torrentizio ed in diretto rapporto con il regime pluviometrico della zona, sia di numerose sorgenti formatesi grazie alla presenza nel plateau vulcanico di livelli impermeabili e di livelli permeabili.
Una metodica campagna di ricerca delle testimonianze relative ai periodi preistorici dell’agro falisco, è ancora da impostare e gli scarsi dati in nostro possesso sono ancora troppo lacunosi per tentare un lavoro di sintesi. In questa sede può essere interessante ricordare che l’avvio agli studi è venuto come conseguenza dei progetti relativi alla stesura della Carta Archeologica d’Italia, i cui lavori iniziarono proprio nell’agro falisco.
Ne fanno fede le notizie date dal Pasqui, che fu uno dei protagonisti di quel programma di studio e le ricerche condotte dal Mancinelli Scotti, bizzarra figura di ricercatore nato a Civita Castellana e in una certa misura, collaboratore dell’equipe di Villa Giulia.
Vi sono poi testimonianze a proposito di scavi nell’agro falisco da parte del Pigorini nei primi anni del secolo e di altre campagne condotte dal Rellini nel 1916-17, purtroppo editi in modo inadeguato alle reali esigenze e i cui materiali sembrano, nella maggior parte, non più reperibili. Le osservazioni che esporrò, sono quindi in un certo senso preliminari alla messa a fuoco di nuovi programmi di indagine, che sarà necessario studiare attentamente anche per dotare il museo archeologico dell’agro falisco di una adeguata sezione preistorica e protostorica.
Le testimonianze più appariscenti di frequentazione, per quel che riguarda i periodi preistorici, sono state trovate, fino a tempi recentissimi, quasi esclusivamente nelle grotte che costellano numerose il territorio. Questa singolarità nel tipo di fonti archeologiche finora edite, una grande percentuale di presenze umane in grotta, rispetto alla scarsissima quantità di abitati all’aperto, credo sia dovuta unicamente alla storia delle ricerche dell’archeologia preistorica nell’agro falisco, ricerche che sin dalla fine del secolo scorso sono state accentrate nell’esplorazione e talvolta nello scavo dei giacimenti in grotta, tralasciando di compiere accurate prospezioni di superficie all’aperto.
Le cavernette falische, con l’imboccatura posta sulle pareti strapiombanti a perpendicolo dei tavolati tufacei profondamente incisi dai corsi d’acqua che scendono numerosi verso il Tevere, consistenti per lo più in cavità piccole e poco profonde, che sarebbe più appropriato definire, come già scrisse Rellini, con il termine di riparo e soltanto alcune volte con dimensioni di vere e proprie caverne, costellano in particolare il territorio di Gallese, Corchiano e Civita Castellana.
Del tutto diversi per natura e conformazione dalle cavernette falische propriamente dette, sono il grande grottone ubicato sotto la vetta del Monte Venere nell’area dei Monti Cimini, all’estremo limite occidentale dell’agro falisco ed i pozzi e le gallerie che si aprono lungo le falde orientali del Monte Soratte.
Le prime tracce di frequentazione del territorio falisco durante il neolitico, sembrerebbero risalire al periodo caratterizzato dalla diffusione, nell’area tiberina in senso lato, di quella particolare facies della cultura del Sasso di recente segnalata e denominata facies di Monte Venere.
Non è certamente un caso che i due rinvenimenti più significativi siano stati effettuati in grotte ubicate presso la cima dei due rilievi, il Monte Venere e il Monte Soratte, che presentando le maggiori altitudini del territorio, dominano per un larghissimo tratto la regione circostante; grotte di difficile accesso, per le quali è impossibile ipotizzare la frequentazione per scopi diversi da quelli collegabili a pratiche di culto.
Nell’ambito della cinta calderica di Vico, nel massiccio dei Cimini, poco al di sotto della cima più alta del Monte Venere, anticamente circondato dalle acque lacustri, si apre un’ampia grotta, la cui superficie è completamente ingombra di macigni crollati dalla volta in epoca anteriore alla frequentazione neolitica dell’antro.
Nel corso di un breve sondaggio di scavo è stata posta in luce una sequenza stratigrafica costituita da tre strati archeologici intervallati da altrettanti strati sterili, ricca soprattutto di reperti ceramici. Le datazioni del C14 non calibrato ottenute per gli strati profondi, si addensano intorno agli inizi del V° millennio a. C., quelle relative agli strati intermedi, intorno agli inizi del IV° millennio.
Le forme e i motivi decorativi sono per lo più quelli tipici del repertorio vascolare della cultura del Sasso, ma è stato possibile notare anche per alcuni particolari dei vasi d’impasto, una particolare forma globulare allungata con collo cilindrico e quattro anse a maniglia orizzontale, vasi che sono caratterizzati dalla decorazione dipinta in bruno secondo la tecnica a risparmio, con motivi angolari sul corpo e a volte con motivi triangolari allungati a fiamma sul collo.
Vasi di questa forma sono documentati in vari contesti del neolitico italiano ed in Italia centrale tirrenica compaiono nell’ambito dello orizzonte culturale del Sasso, ma di norma non presentano tracce di motivi decorativi dipinti. In area tiberina laziale, a nord di Monte Venere, frammenti di vasi di questo tipo sono stati trovati tra i materiali di insediamenti neolitici all’aperto e in due insediamenti; Grotte Rubina e Monte ??? , ubicati anch’essi su un terrazzo fluviale su di un colle prospiciente il torrente Vezza.
Di particolare interesse sono soprattutto i materiali dell’abitato di Grotte Rubina, ove tra l’industria litica, oltre a due reperti di ossidiana, è presente un trapezio in selce, che può riportare ad un orizzonte antico, nell’ambito del neolitico medio.
Per un inquadramento cronologico di massima, può essere utile ricordare anche un esemplare di questo tipo di vaso rinvenuto alla Grotta dell’Orso di Sarteano, sempre in area tiberina.
Per i tre strati neolitici disponiamo di una datazione al C14 risalente al 4130 a. C. e sappiamo che il frammento di vaso con ansa a maniglia orizzontale con tracce di ocra all’interno, è stato trovato nel taglio 9 dello strato E, cioè nello strato più profondo di frequentazione della grotta. Un altro frammento di olla globulare con ansa a maniglia orizzontale, trovato nel riparo della romita di Asciano, può essere interessante per una maggiore puntualizzazione cronologica del tipo, poiché, anche se proviene genericamente dai livelli definiti del neolitico medio, appartiene ad una classe ceramica che è stata ritrovata soltanto nei due livelli inferiori del riparo, classe ceramica a cui appartiene anche un frammento decorato con linee dentellate.
Sul versante adriatico, vasi simili sono attestati in località che hanno restituito anche frammenti di ceramica dipinta con la tecnica a risparmio, o anche a negativo, simile a quella di Monte Venere, qual’è la Grotta S. Angelo sulla Montagna dei Fiori, il villaggio di Casignano e la Grotta dei Piccioni in Abruzzo.
Per definire meglio i problemi di cronologia relativa ed assoluta, può essere utile ricordare che nella sequenza stratigrafica della Grotta dei Piccioni, il vaso con anse a maniglia orizzontale è stato trovato nei livelli relativi alla ceramica impressa e precisamente in tutti i tagli dello strato, ma che ricorre con particolare frequenza proprio nel taglio più profondo, mentre i frammenti di vasi dipinti a negativo provengono tutti dal taglio superficiale dello stesso strato e un campione prelevato dallo strato F è stato datato al C14 non calibrato, al 4297 a. C.
In area falisca, un’olla globulare simile a quelle dipinte rinvenute al Monte Venere, era stata deposta in una grotta labirintica molto stretta e irregolare, a cui si accede con estrema difficoltà, essendo il suo ingresso posto sulla parete di uno dei profondi pozzi che si aprono lungo le pendici orientali del Monte Soratte.
Da tali pozzi ancora oggi fuoriescono vistose nebbie di condensazione descritte già da vari autori romani come misteriosi vapori fuoriuscenti dalle falde del monte e strettamente collegati al culto dedicato ad Apollo Sorano.
L’olla fu rinvenuta all’estremità della grotta, in una zona più ampia e di raccordo tra diversi cunicoli, fissata al suolo roccioso per mezzo di una incrostazione stalagmitica e ricoperta all’esterno da un velo calcitico, al di sotto di uno stillicidio che la manteneva piena d’acqua. L’olla, consegnata all’Istituto di Paletnologia di Roma, non è più rintracciabile, quindi non si può dire se sulla sua superficie esterna, al di sotto delle concrezioni che la ricoprivano, fossero stati eseguiti o meno i motivi decorativi simili a quelli che ornano i vasi di Monte Venere. Però un’indizio affermativo potrebbe essere tratto dalla descrizione del Prof. ??? ; al momento della scoperta, la superficie del vaso fu definita di rosso mattone con tendenza in alcune aree al marrone o al nerastro; qualora ipotizzassimo che la colorazione più scura di queste zone fosse dovuta a tracce di pittura.
Per meglio comprendere la collocazione, per così dire, tiberina delle due grotte cultuali finora citate in area falisca, giova ricordare che il Soratte, incombente su un ampissimo tratto della piana tiberina, è ben collegato sia con il Tevere che con il corso inferiore del Treia, tramite vari fossi minori e che il territorio circostante il Monte Venere e in generale tutta l’area dei Monti Cimini, sono messi in comunicazione con la media valle del Tevere tramite molti corsi d’acqua: il Rio Fratta, il Rio Maggiore, il Treia.
Nell’ambito di questa fitta rete idrografica, altre tre cavità, interpretabili come luoghi frequentati per pratiche legate al culto: le caverne dell’Acqua, della Stipe e la Grotta del Vannaro, situate lungo i profondi valloni scavati dal Rio Fratta, dal Rio della Tenuta e dal Fosso dell’Acqua Santa, hanno restituito materiali neolitici che possono essere ascritti alla facies di Monte Venere.
Sulla riva sinistra del Rio Fratta, alla confluenza di due larghi fossi, si apre un’ampia grotta da cui scaturisce una sorgente che ha dato il nome alla cavità: la Caverna dell’Acqua.
Vi furono rilevati tre strati antropici, quello superficiale contiene reperti dell’età del ferro e romana, fra cui vasi deposti nelle anfrattuosità della roccia, ex voto e monete di età imperiale; in quello intermedio si è rinvenuta ceramica dell’età del bronzo, in quello più profondo resti di industria litica e frammenti di vasi d’impasto definiti di ceramica relativamente depurata e ben cotta.
Nello strato medio inoltre, è stato trovato un frammento di un’olletta di ceramica grezza e ruvida che porta l’accenno di fasce dipinte in rosso, olletta che potrebbe essere riferita ai vasi di impasto del tipo Monte Venere, se non fosse attribuita dal Rellini allo strato medio, che ha restituito materiali dell’età del bronzo.
Tra i reperti più interessanti descritti dal Rellini, vorrei ricordare i frammenti di vasi globulari con collo cilindrico e quattro ansette subcutanee, caratteristici in generale della cultura medio adriatica di Ripoli. Rinvenuti con particolare frequenza nella fase più antica di Ripoli, durante l’orizzonte definito Ripoli 1, costituiscono l’11% delle forme vascolari, per passare nell’orizzonte successivo, Ripoli 2 al 5%, per arrivare quindi all’1% nella fase detta Ripoli 3.
In area tirrenica, a Palidoro, insieme ad altri frammenti di ceramica figulina definita dello stile di Ripoli, è presente anche questo tipo di vaso, con collo cilindrico e ansette subcutanee, nella parte bassa del terzo livello culturale, ove è stata trovata anche ceramica impressa, ceramica figulina a fasce rosse, anse a maniglia orizzontale, ceramica incisa nello stile del Sasso e dipinta nello stile di Capri.
Lo stesso tipo di vaso con collo cilindrico ed anse subcutanee, è stato rinvenuto in alcune zone dell’Italia centrale interna, in particolare in Umbria, nella rete labirintica di gallerie e cunicoli dei pozzi della Piana, situati a picco sul corso del Tevere e sempre in area tiberina, nella Grotta Bella di Montecastrilli.
Collocare quindi l’area falisca e l’area tiberina al punto d’incontro di diverse culture tirreniche ed adriatiche, appare ovvio e direi necessario; voglio ricordare i rinvenimenti di ceramica impressa dalla foggia tipicamente adriatica, di olle globulari con collo cilindrico e quattro anse a maniglia orizzontale e di due vasi d’impasto dipinti con la tecnica a risparmio nei pozzi della Piana e la presenza negli strati neolitici di Grotta Bella, di molti vasi caratteristici della cultura del Sasso ed infine di vasi di ceramica figulina decorati.
Nella Grotta della Stipe, aperta a strapiombo sulla riva del Fosso dell’Acqua Santa, lo strato inferiore ha restituito abbondanti reperti litici e fittili attribuiti ad epoca neolitica e frammenti di una rozza olla globulare incastrata in un avvallamento del terreno.
Fra i pochi reperti attualmente reperibili, ho notato anche il frammento di un’olla decorata con un cordone basso orizzontale che potrebbe essere confrontata con l’olla munita di cordone analogo rinvenuta nei pozzi del Monte Soratte.
Anche la Caverna della Stipe si prolunga in un diverticolo verticale a pozzo, secondo il Rellini scavato dall’acqua, l’uso cultuale è reso ancora più evidente dal reperimento, nello strato superficiale, di una stipe votiva di età repubblicana.
Frammenti litici e fittili in parte simili a quelli rinvenuti al Monte Venere, sono stati trovati in un’ampia caverna situata in località Ponte del Ponte, a picco sul vallone del Rio della Tenuta, un affluente del Tevere parallelo al Rio Maggiore e al Rio Fratta.
La cavità è stata denominata Grotta del Vannaro. Nella località fu condotta una breve campagna di scavo che ha permesso di rilevare una sequenza stratigrafica in cui furono riconosciuti 13 livelli, attribuiti, dagli scavatori, tutti ad epoca neolitica.
Io penso invece che possano essere definiti neolitici soltanto gli strati inferiori, a partire dallo strato 9, mentre gli strati superiori dovrebbero essere collocabili nell’ambito dell’età del bronzo.
Mi porta a questa conclusione, in primo luogo un’analisi tipologica dei frammenti rinvenuti nei diversi strati, ma anche un’altra serie di fattori concomitanti: la pressoché totale assenza di strumenti litici negli strati superiori, la grandissima differenza degli impasti tra i frammenti fittili rinvenuti nei vari livelli, il brusco cambiamento verificatosi nella composizione della fauna, con una concentrazione di presenza di cervo negli strati più recenti dell’età del bronzo e di resti di suino negli strati neolitici più antichi.
L’analogia con quanto si riscontra poi dallo studio delle sequenze stratigrafiche descritta da Rellini per le cavernette falische , ove ad un livello inferiore, caratterizzato da reperti litici attribuibili al neolitico, molto spesso segue, separato come alla Grotta del Vannaro da strati sterili, un livello formatosi nel corso dell’età del bronzo, con ceramica per lo più di tipo preappenninico e appenninico antico e a volte, dopo un altro intervallo di strati sterili, un livello formatosi nel corso dell’età del ferro, etrusca e romana.
Un frammento di vaso con ansa a maniglia orizzontale appiattita sul lato esterno, del tutto simile, anche nell’impasto, alle olle di Monte Venere, proviene dallo strato 12, che contiene anche altri frammenti d’impasto depurato, decorati ad incisione.
Nello strato più profondo furono raccolti inoltre degli anelli di ocra rossa e dei ciottoli dipinti in rosso. Una struttura definita un acciottolato di sassi, di piccole e medie dimensioni, è stata rinvenuta nello strato 10, che ha restituito anche un frammento di macina ed una piastrina rettangolare di osso, analoga ad esemplari rinvenuti nell’ambito di varie culture neolitiche, tirreniche ed adriatiche, anche l’altro reperto in osso, un punteruolo, è documentato in vari contesti del neolitico italiano.
Due strumenti di ossidiana offrono un’ulteriore testimonianza dello inserirsi dell’area falisca nella vasta rete di traffici, che sembra caratterizzare la penisola italiana durante il neolitico.
I resti faunistici mostrano un’altissima percentuale di suini e la presenza di capi ovini e bovini, il cervo compare in scarsa quantità.
Sempre tenendo ben presente che i dati, molto scarsi, potrebbero essere viziati dal fatto di provenire da una fonte archeologica di tipo particolare, qual è quella rappresentata da una grotta, probabilmente di uso funerario o cultuale e potrebbero quindi non rispecchiare un certo tipo di economia nella sua integrità, ipotizzerei per le genti che frequentarono durante il neolitico la Grotta del Vannaro, un’economia di sussistenza basata sull’agricoltura e sull’allevamento del bestiame: bovini, ovini e suini; sembra avere avuto scarsa incidenza la caccia al cervo.
Vorrei ricordare il rinvenimento di un astragalo di Homo Sapiens, che potrebbe far pensare alla presenza di altri resti scheletrici umani sparsi nei settori non indagati della grotta e far ipotizzare quindi anche un uso funerario della grotta stessa.
E’ noto che anche nella Grotta dell’Orso di Sarteano furono trovate varie ossa umane attribuite a sepolture sconvolte.
Ancora nel territorio di Corchiano, lungo il corso del Fratta, il Rellini segnalava altre due caverne con reperti neolitici; uno strato definito con frammenti di ceramica rozzissima dell’età della pietra e con reperti litici, superiore ad uno strato con industria litica ed ossea del paleolitico.
Al di sotto della Caverna dell’Acqua, sempre sulla sinistra del Fratta, furono riportati alla luce due livelli di frequentazione, quello inferiore risalente al paleolitico e quello superiore al neolitico.
Nei pressi di Civita Castellana, tracce di frequentazione riferite ad epoca neolitica dal Rellini, furono trovate nelle caverne lungo il margine sinistro del Fosso di Fabbrece; all’interno di una di queste caverne, ancora interessate da fenomeni di forte stillicidio, furono raccolti numerosi reperti e si notarono dinanzi all’apertura un focolare e accanto a questo un insieme di frammenti in tufo e piccoli ciottoli di fiume; frammenti interpretati dal Pasqui come un manufatto creato per rendere pianeggiante il fondo della grotta, originariamente molto inclinato.
Secondo il Rellini invece, dovuto allo sfaldamento naturale della volta.
Nelle vicinanze delle caverne di Fabbrece sono ubicate le cavernette segnalate dal Mancinelli Scotti in località Fontibassi, cavernette dove sarebbe stata raccolta abbondante industria litica e frammenti definiti di coccio molto rozzo; potremo ipotizzare, come il Rellini, una loro frequentazione in epoca neolitica.
Di abitati all’aperto finora si hanno rarissime tracce, il Rellini segnalava la presenza di frammenti ceramici non lontano dalla Caverna della Stipe, sulla superficie di un largo pianoro ed ipotizzò la presenza in quel luogo di gruppi di capanne preistoriche.
Un insediamento all’aperto, con materiali in parte riferibili all’ultimo periodo del neolitico, è indiziato dai rinvenimenti di superficie effettuati in anni recentissimi nei pressi di Sutri, su di un vasto pianoro ricco di sorgenti di acqua sulfurea, che vanno a formare il Fosso delle Sostarate, confluente nel Treia.
Tra i reperti litici è da segnalare la presenza di numerosi strumenti di ossidiana ed un frammento di ascia in pietra verde levigata; anche le punte di freccia e parte delle lame, sono state ricavate, secondo l’autore, da selce importata.
Sintetizzando i dati cui ho fin qui accennato, sembra possibile dedurre un’intensa frequentazione dell’agro falisco in epoca neolitica ed un interesse particolare per le grotte, interesse probabilmente connesso a culti delle acque con possibili valenze sia salutari che di fertilità e fecondità.
Potremmo pensare all’esistenza di una discreta quantità di insediamenti da cercare indagando sugli ampi pianori sovrastanti le cavernette, insediamenti la cui economia di sussistenza possiamo per ora soltanto ipotizzare in base agli elementi raccolti in grotta, dovesse essere basata sia sulla pratica di attività agricole che sull’allevamento del bestiame e soltanto in minor misura sulla caccia.
Benché si tratti di un territorio dell’Italia centrale appenninica interna, non si può certo trattare di un’area appartata, dal momento che essa è in intima connessione con il Tevere, la cui ampia vallata ha avuto sempre la funzione di veicolare le direttrici di traffico sia in senso longitudinale che trasversale.
Non deve stupire quindi né la presenza consistente di materiali importati anche da lunghe distanze (ossidiane, pietre verdi per asce e ceramica da altre regioni), né il fatto che alcuni giacimenti (es. i pozzi della Piana) rivelano la coesistenza di elementi tirrenici ed adriatici.
E’ certo che queste problematiche non possono prescindere dal rilievo particolare che senza dubbio deve avere assunto, anche in epoca neolitica, la valle tiberina; rilievo che si espliciterà con altra chiarezza in epoche successive.
??? pag 3 quart’ultima riga
??? pag 5 14° riga.

[Trascritto da Sergio Carloni]

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