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domenica 8 novembre 2009

CIVITA CASTELLANA NEL VOLUME DELLA CARIVIT - 1988.




CIVITA CASTELLANA NEL VOLUME DELLA CARIVIT (Cassa di Risparmio della provincia di Viterbo)
Viterbo, Edizioni Agnesotti, 1988.

Sandro Sciosci è autore degli aspetti geomorfologici-idrografici.
Luigi Cimarra è autore degli aspetti storico-folclorici e dell'industria ceramica.



ASPETTI GEOMORFOLOGICI – IDROGRAFIA

Sotto il profilo geologico il territorio di Civita Castellana si trova inserito in una regione prettamente vulcanica: gli affioramenti derivano in modo esclusivo dall’attività del vulcano Vicano, un importante centro di emissione che nel recente passato geologico era senza dubbio l’elemento più determinante della morfologia dell’Agro Falisco. I prodotti di questo apparato eruttivo formano l’ossatura della zona in quasi tutta la sua interezza, solo un esiguo lembo della parte sud-orientale, l’area di Calcata e dell’antica città di Narce, è costituito dalle emissioni dell’apparato vulcanico Sabatino. Civita Castellana è posta in prossimità del bordo orientale di un esteso plateau vulcanico costituito dai prodotti emessi dal vulcano Vicano. La morfologia della zona è in genere pianeggiante con rari e sparsi rilievi che si elevano per pochi metri sul resto del territorio. Il carattere morfologico più interessante di questo settore è dato dalla presenza di profonde e strette valli a pareti verticali, le forre, dovute all’attività erosiva del fiume Treia, del Rio Maggiore, del Rio Purgatorio, del Rio Filetto (o Vicano) e del Fosso dell’Isola: le incisioni di questi corsi d’acqua si sono spinte, in alcuni tratti, fino a livelli considerevoli (circa 50 metri al di sotto del piano di campagna), mettendo in mostra tutta la serie delle rocce vulcaniche, fino al sottostante substrato sedimentario.
Per comprendere meglio l’origine e l’evoluzione geologica del territorio, è necessario esaminare brevemente i più importanti eventi che hanno determinato la messa in posto delle formazioni rocciose nell’area prossima al settore occidentale dell’Appennino Centrale. La genesi dell’area in esame è, infatti, direttamente connessa con le principali fasi tettoniche che hanno portato all’attuale assetto della parte centro-occidentale della penisola. Nel corso del Pliocene Inferiore (6 milioni di anni fa), il versante tirrenico dell’Appennino subì un notevole abbassamento tettonico e di conseguenza il dominio marino si estese notevolmente. Il Lazio centrosettentrionale venne occupato da un esteso bacino marino, bordato ad oriente dai rilievi rocciosi dei Monti di Amelia, dal quale emergevano, come isole, le alture del Monte Razzano, Monte Canino, Monte Ferento, e, più a sud, il massiccio del Monte Soratte. In questo specchio di mare era abbondante la sedimentazione di detriti trasportati da torrenti, che incidevano, ad oriente, le aree rilevate dai Monti Amerini: le sabbie costituivano estesi cordoni costieri, che in alcune zone hanno dato origine a depositi di una certa consistenza. Notevole era anche la deposizione di materiali più fini, che andarono a formare ampi ricoprimenti di argilla nelle zone marine più profonde e più lontane dallo sbocco dei fiumi. Queste argille rappresentano il sedimento più francamente marino, anche se la loro deposizione raramente può essere avvenuta al di sotto dei 100 mt di profondità, come è attestato dalle associazioni fossili presenti nel sedimento.
Tali rocce affiorano in piccoli lembi nelle incisioni del Treia e del Fosso dell’Isola, nei pressi della Via Amerina. Particolarmente interessanti sono gli affioramenti lungo il Fosso dell’Isola, in cui, alle argillosi sovrappongono con continuità stratigrafica, sabbie gialle, più o meno argillose, che contengono un’abbondante fauna fossile, composta principalmente da resti di conchiglie del genere Ostrea (gli esemplari più numerosi appartengono alla specie edulis), che denunciano chiaramente la deposizione in ambiente costiero. Intorno alla fine del Pliocene (2 milioni di anni fa) il mare andò ritraendosi lasciando al suo posto un esteso bacino lacustre: il bacino tiberino. Il ritiro delle acque marine comportò una maggiore capacità di erosione e trasporto dei torrenti provenienti dall’area calcarea dei Monti di Amelia, che depositarono banchi di ciottoli e sabbie in ambiente tipicamente fluviodeltizio. Gli estesi depositi di conglomerati e sabbie esposti all’azione erosiva del Treia e Rio Maggiore, nella zona dei Sassi Caduti e di Celle e lungo la Provinciale per Castel S. Elia, sono da riferirsi a questa fase evolutiva del territorio. La presenza di rari fossili, in alcune lenti argillose in seno al conglomerato, permette di datare la fase sedimentaria al Calabriano superiore (1,5 milioni di anni fa).
Successivamente al ciclo sedimentario seguì un importante periodo di attività vulcanica, che ha avuto un grande peso nell’evoluzione geomorfologia del territorio: l’apparato eruttivo che ha dato origine agli estesi affioramenti di rocce che si rinvengono in tutto il territorio di Civita Castellana è il Vulcano Vicano. Posto immediatamente a sud del Monte Cimino, il Vicano era uno strato vulcano a condotto centrale, che si elevava con dodici pendii fino a una quota approssimativa di 1100 metri. L’attività principale di questo apparato si inquadra cronologicamente in un intervallo di tempo compreso tra 900.000 e 95.000 anni fa. Dall’analisi della natura dei prodotti emessi, si può dedurre che questo vulcano esplicava la sua attività maggiormente in violente esplosioni eruttive di piroclastici che non in tranquille emissioni di lave. Infatti l’insieme delle rocce piroclastiche (ignimbriti e tufi) costituisce ben oltre il 50% della quantità totale dei materiali emessi.
Nel territorio di Civita Castellana affiorano principalmente due tipi litologici geneticamente legati all’attività del Vulcano Vicano: le lave leucitiche e l’ignimbrite nefritico-fonolitica comunemente detta tufo osso. Le lave leucitiche di Civita Castellana, pur essendo mineralogicamente e chimicamente identiche ai grandi espandimenti lavici emessi dalla sommità del Vicano, sono venute in superficie attraverso centri di emissione lontani dall’apparato principale, probabilmente situati nei pressi dell’attuale abitato. Sono le lave più caratteristiche del Vulcano Vicano, le più diffuse in quantità ed estensione: la loro espansione è testimoniata dal ritrovamento di questo tipo litologico ogni volta che si pratichino perforazioni sufficientemente profonde.
Sono rocce di colore grigio-scuro con grandi cristalli bianchi di leucite (silicato di potassio e alluminio), e per questo motivo vengono localmente indicate con il nome di occhialina. I cristalli di leucite, con abito cristallino ben sviluppato, sono immersi in una pasta di fondo scura, composta da feldspati (silicati di sodio, potassio e alluminio) e pirosseni (silicati di ferro e magnesio), insieme a minori quantità di biotite (silicato di ferro e magnesio). La roccia decisamente più tipica rappresentata nel territorio è senza dubbio il tufo rosso, i cui affioramenti per spessore ed estensione sono più abbondanti di qualsiasi altro tipo litologico. Questa roccia, messa in posto tra 300 mila e 150 mila anni fa, è dovuta all’emissione violenta di enormi volumi di prodotti piroclastici, avvenuta con la liberazione di grandi quantità di energie, che ha dato luogo ad un particolare tipo di prodotto vulcanico: l’ignimbrite. Il tufo rosso è dovuto alla sovrapposizione e saldatura di diverse colate ignimbritiche, provenienti da zone prossime alla sommità del cono vulcanico. E’ una roccia compatta ed omogenea di colore giallastro-rossiccio, con numerose inclusioni di pomici nere. La mineralogia della parte giallastra è molto complessa: vi sono ossidi di ferro (limonite), minerali argillosi e zeoliti (idrosilicati di alluminio); una particolare facies di questa ignimbrite è costituita dalla pozzolana, roccia incoerente di colore scuro, con abbondanti cristalli di leucite.
Nella zona più prossima a Civita Castellana la deposizione del tufo rosso fu l’evento geologico che concluse praticamente la formazione del territorio con la messa in posto di un ampio plateau vulcanico poggiante direttamente sui materiali sedimentari più antichi. Da allora la regione ha subito un lento innalzamento che, con fasi più o meno intense, è proseguito fino a periodi relativamente recenti. Ciò ha portato all’intensificazione dell’azione erosiva dei corsi d’acqua che continuano ancora ad incidere in profondità le formazioni vulcaniche fino al sottostante substrato sedimentario, dando origine con il loro lavorio a queste profonde forre, che costituiscono uno dei caratteri più suggestivi della geografia del territorio.
Il Comune di Civita Castellana è situato nelle estreme propaggini orientali di questo territorio che in epoca romana era comunemente conosciuto come Ager Faliscus. La regione è costituita in buona parte da un falsopiano che degrada con linee morbide fino alla media valle del Tevere. A segnare il confine nord-ovest si ergono i Monti Cimini, l’horrenda ciminia silva, un tempo impenetrabile per le sue fitte foreste ad alto fusto e per l’intrico selvaggio del sottobosco. L’altro confine perentorio a nord e a nordest è dato dal corso del Tevere, che ha rappresentato nell’antichità un elemento di netta demarcazione politica: sulle opposte sponde si sono attestate come ad un confine diverse civiltà. Questa via d’acqua ha svolto pur tuttavia una funzione di primaria importanza negli scambi economici e culturali: con il suo bacino idrografico, la rete dei suoi affluenti, i percorsi di fondovalle “ha permesso dai primordi una capillarità straordinaria di rapporti tra le regioni più interne tra di loro e lungo l’asse maggiore fino al mare” (L. Quilici. La superstrada dell’Urbe. Analisi archeologica del Tevere, in “Archeologia Viva”, 1986, p. 24, col. 2). A chiudere l’orizzonte intervengono a sud-ovest le prime asperità dei Monti Sabatini. Più aperto il confine a sud, dove una fuga interminabile di colline aggira il Soratte fino a perdersi senza soluzione di continuità nella Campagna Romana.
I suoli pianeggianti sono adatti alla coltivazione, con impianti di oliveti e vigneti, associati talvolta a colture di recente introduzione, come il noccioleto, e a seminativi misti.
I corsi d’acqua, che discendono con andamento radiale dai Monti Sabatini e dai Monti Cimini, hanno un regime torrentizio ed una modesta portata, dovuta alla limitata estensione dei singoli bacini imbriferi, oltre che alla permeabilità delle rocce vulcaniche. Quelli a nord di Civita Castellana, nel settore verso Gallese, cioè il Rio Fratta ed il Rio Cruè, defluiscono seguendo un tracciato parallelo da ovest ad est e si riversano direttamente nel Tevere. Nella parte meridionale dell’Agro falisco scorre il Treia, il maggior tributario di destra del Tevere in questa zona.
Questo fiume, lungo poco più di 50 chilometri e con un bacino di 437 Km. Quadrati, assume da Mazzano in poi l’andamento nord-nordest e segue in senso inverso la direzione del Paleotiber, che fu deviato attorno al Soratte a causa delle prime eruzioni dei Vulcani Sabatini. La portata che nel tratto Mazzano-Calcata è di 0,9 mc/sec (1981-1982), si incrementa gradatamente per gli apporti da sinistra del Fosso di Castello, di Rio Filetto (o Vicano) e di Rio Maggiore, fino a raggiungere sotto Civita Castellana la media di 6,4 mc/sec. ed un massimo di 85 mc/sec. durante gli straripamenti (1942-1982).


CLIMA - FLORA -  FAUNA

Nell’Ottocento fu luogo comune considerare l’aria di Civita Castellana come insalubre e malsana, infetta durante la stagione calda da miasmi che esalavano dalle acque putride e stagnanti delle bassure. La descrizione che ne tratteggiò a fosche tinte Felice Orsini, l’attentatore di Napoleone III, quandofu rinserrato nella fortezza dopo la condanna al carcere a vita, per i fatti di Romagna, non costituisce un’eccezione: “Nell’estate vi sono acque stagnanti, in cui si putrefanno le piante e colle loro esalazioni ammorbano l’aria. Gli abitanti…sono d’aspetto giallognolo ed infermiccio; le erbe crescono sopra i tetti e nei tempi di caldo, la maggior parte di essi giacesi nel letto per febbri intermittenti e maligne” (F. Orsini: Memorie di un italiano terribile. Milano, Club degli Editori, 1970, p. 35). D’altro canto gli scrittori locali, pur opponendo a siffatte annotazioni i non infrequenti casi di longevità tra la popolazione, erano costretti ad ammettere che le condizioni climateriche erano caratterizzate da repentini sbalzi di temperatura con passaggi bruschi dai 27 ai 35 gradi e successivi abbassamenti dai 20 ai 13 gradi in estate e da 1 a 14 gradi d’inverno.
In realtà bisogna precisare che la variabilità climatica di Civita Castellana presenta carattere di episodicità, non di continuità: secondo un’osservazione sommaria si registra un’alta concentrazione di umidità nella stagione fredda, con banchi di nebbia che risalgono dal tevere a ricoprire buona parte del territorio comunale, e di contro in estate persistono l’afa e l’aridità non sufficientemente mitigate dalle brezze.
Se le variazioni climatiche possono essere descritte in termini approssimativi e generali a causa dell’insufficienza e della incompletezza dei dati a disposizione, le rilevazioni effettuate per brevi periodi confermano un andamento omogeneo dei valori della temperatura. A questo corrisponde un regime pluviometrico uniforme, riferibile al tipo sub-oceanico della regione mediterranea, con il massimo delle piovosità mensile in novembre ed il minimo in luglio. I dati delle precipitazioni, relativi al trentennio 1921-1950, fanno registrare le medie stagionali riportate in prospetto, con un afflusso meteorico annuale di 1059 mm:

Primavera          260 mm
Estate                 115 mm
Autunno             375 mm
Inverno              309 mm
Totale annuo   1.059 mm

Sulla base dei valori dell’indice di aridità estiva, che sono compresi tra i 20 e i 50, si può quindi classificare come prevalente il tipo sub-umido del sottoclima “mediterraneo-temperato”.
E’ evidente che il clima, la litologia, la morfologia di un territorio costituiscono i fattori fondamentali per favorire l’insediamento e lo sviluppo della flora. Tralasciando per necessità il riferimento alle specie flogistiche ed erbacee, rivolgeremo la nostra attenzione alle presenze arboree ed arbustive che caratterizzano le Valli del Treia e dei suoi confluenti. Il fiume Treia scorre tra pareti più o meno acclivi, che si aprono a tratti in ampie con valli con un elevato grado di antropizzazione. La vegetazione si trova in stato prossimo alla naturalità solo in lembi ridotti, in corrispondenza della parte basale ed apicale delle forre. La sua sopravvivenza è infatti in stretta correlazione con l’ampiezza del fondovalle e con la declività del pendio e, conseguentemente, con la possibilità per l’uomo di introdurre pratiche colturali. Nella parte più alta delle forre predomina il leccio (quercus ilex), che sovente si abbarbica e si protende ad orlare i precipizi. Le specie che vi si accompagnano variano secondo la natura acida ovvero basica del substrato. Tra quelle che concorrono a formare le associazioni si rinvengono i cisti (cistus incamus, cistus salvifolius) dai vistosi fiori rossastri e bianchi a cinque petali, la scopa (erica arborea), il ginepro (iuniperus communis), la ginestra (spartium junceum), la rosa di macchia (rosa canina), il corbezzolo (arbutus unedo), arbusto frugale, acidofilo, dai frutti rossi a superficie granulosa, capace di formare comunità per proprio conto. Non mancano individui isolati di nespolo (mespilus germanica), di sorbo (sorbus domestica). Sulle sporgenze a solatio di Vignale, delle Piagge e dello Scasato si è naturalizzato il ficodindia (opunzia ficus indica) e compaiono, ad occupare fenditure e squarci nella roccia, il siliquastro o albero di Giuda (cercis siliquastrum) dai vividi fiori lillacei, il bagolaro (celtis australis) dalle piccole bacche dolciastre e l’onnipresente caprifico (ficus caprificus).
Accanto al leccio troviamo frammisti senza confini perentori il cerro (quercus cerris), il farnetto (quercus frainetto), il prugnolo (prunus spinosa), l’acero (acer campestre), il biancospino (crataegus monogyna, c. oxyacanta) con corimbi di bacche rosse, la fusaggine (euonymus europaeus) più noto sotto il nome popolare di berretta da prete, dai frutici trilobi color rosa. Nel pendio di raccordo sono più frequenti il carpino bianco (carpinus betulus) e il nocciolo (corylus avellana) dalle inflorescenze pendule. Nei siti dove le forre sono meno acclivi e più aperte sono presenti le combinazioni di corniolo (corpus mas), di carpino nero (ostrya carpinifolia), d’orniello (fraxinus ornus) e di acero minore (acer monspessulanum). Il castagno (castanea sativa), che entra nella composizione di tutte le formazioni boschive, qui preferisce i settori più freschi. Là dove il pendio è formato da rocce del substrato sedimentario troviamo l’olmo (ulmus minor), che in primavera esibisce un’esuberanza schiumeggiante di acheni, ed inoltre la robinia (robinia pseudoacacia) e l’ailanto (ailanthus altissima) che hanno trovato le condizioni favorevoli per acclimatarsi e soppiantare altre specie arboree. La vegetazione di greto è costituita in prevalenza dall’ontano nero (alnus glutinosa), dal gattice delle foglie argentee (populus alba), dal pioppo nero (populus nigra), dai salici a portamento arboreo che resistono alle piene improvvise dei torrenti. Concorrono alla costituzione dello strato arbustivo il sambuco (sambucus nigra) e la sanguinella (corpus sanguinea). Gli alberi sono rivestiti da cortine e festoni lianosi di vitalba (clematis vitalba) e di edera (hedera helix). Le formazioni boschive di cedui sono limitate: esse occupano prevalentemente declivi addolciti o porzioni non molto consistenti nella parte più elevata del territorio comunale (ad es. la macchia del Quartuccio). Altrove si ammirano esemplari veramente imponenti di farnia (quercus robur) e di rovere (quercus petrae): sono alberi sparsi, ma maestosi, che ravvivano il profilo ondulato e monotono della campagna coltivata. In questo habitat, nonostante l’intervento millenario dell’uomo abbia trasformato e talvolta manomesso il paesaggio e l’ambiente, la fauna trova ancora condizioni favorevoli di vita. Un mammifero terricolo è l’istrice (hystrix cristata), dal dorso coperto di lunghi aculei, anelati di bianco e neo, che erge a difesa quando si vede minacciata.
Un altro abitante della macchia, pur esso spinoso, ma appartenente ad ordine diverso, è il riccio (erinaceus europaeus). Tra i predatori domina la volpe (vulpes vulpes), canide dalle forme snelle ed eleganti, che si aggira in perpetua caccia. Non mancano gli aggressivi mustelidi come la faina (martes foina), la martora (martes martes), dall’aspetto slanciato, ricercata per la sua pelliccia morbida e lucida, la puzzola (mustela putorius) e la flessuosa donnola (mustela nivalis), che non esita ad attaccare anche animali di taglia superiore alla sua. Inavvicinabile è il gatto selvatico (felis silvestris), felide ormai raro del bosco, dalla pelliccia fulvo-giallastra. Nel fitto della vegetazione, durante le ore crepuscolari, si muove il tasso (meles meles) alla ricerca di radici, tuberi e frutti selvatici. Sugli alberi trova rifugio il ghiro (glis glis), piccolo roditore gregario che vive in gruppi di più individui. Nelle erbe dei prati si aquatta guardinga la lepre (lepus europaeus), pronta a balzare via al minimo sospetto; nel sottobosco la talpa (talpa europea, t. romana), insettivoro adattato alla vita ipogea, scava un dedalo di gallerie, interrotte da accessi, che sembrano piccoli crateri. Rara è divenuta la lontra (lutra lutra), di costumi prettamente notturni: è un predatore dal pelame liscio ed impermeabile, schivo ed elusivo, legato all’elemento acquatico. Un roditore, che non fa parte della nostra fauna originaria, ma che, tornato in libertà per gli straripamenti, si è inselvatichito è la nutria o castorino (myocastor corpus), originario dell’America Meridionale. Ha trovato un habitat ideale nel fiume Tevere e nel Treia, specialmente nei tratti dove la corrente è piuttosto lenta, tra le cannucce e la vegetazione igrofila.
Degni di considerazione sono anche i rettili, a cominciare dai piccoli sauri che guizzano tra i cespugli e tra le erbe dei campi: il ramarro (lacerta viridis) dalla livrea verde brillante e la lucertola campestre (podarcis sicula). Quest’ultima è in continua espansione, conquistando gli ambienti ruderali, dai quali scaccia la congenere lucertola muraiola (podarcis muralis) meno aggressiva. Tra gli ofidi merita particolare menzione la vipera comune (vipera aspis), il cui morso può riuscire mortale per l’uomo. È possibile incontrarla, mentre tutta raggomitolata si riscalda al sole, nei pendii ricchi di cespugli e sassi sparsi o nelle sodaglie che costeggiano i torrenti. Nello stesso ambiente incotriamo i colubridi come il biacco (coluber viridiflavus), il saettone o colubro di Esculapio (elaphe longissima), ospite delle quercete o dei boschi in genere, che si arrampica sulle piante a caccia di nidiacei, il cervone (elaphe quatuorlineata), la specie italiana più lunga. Non è difficile scovare mentre strisciano tra le erbe l’orbettino (anguis fragilis) e la luscengola (chalcides chalcides) munita di quattro minuscole zampette. Gli ambienti in ui abbonda l’acqua sono frequentati dalla biscia o natrice dal collare (natrix natrix), che si nutre di pesci e di anfibi.
Anche l’ittiofauna è caratterizzata da diverse specie d’acqua dolce. Innanzi tutto citiamo la carpa (cyprinus carpio), uno dei giganti, assieme al vorace luccio alla tinca e alla trota, che frequentano il Tevere. Qualche esemplare può raggiungere il metro di lunghezza e i venti chilogrammi di peso. Tra i pesci di taglia minore l’alborella (alburnus alborella). Presente è anche l’anguilla. Tuttavia sono state introdotte specie non autoctone che dimostrano una insospettata competitività con tendenza a predominare o perché più resistenti all’inquinamento idrico o perché più voragi ed aggressive: è il caso del lucioperca (stiziostedion lucioperca) che possiede un corpo allungato e denti acuminati; del persico sole (lepomis gibbosus) cha ha una colorazione cangiante a tessere verdastre, azzurre e gialle; del carasso comune (carassius carassius), che tollera acque con scarsa ossigenazione; soprattutto del pesce gatto (ictalarus melas) di origine nordamericana. Questo pesce dall’aspetto poco rassicurante, viscido, con una grande bocca attorniata da otto barbigli filamentosi si è diffuso grazie alla sua elevata adattabilità ambientale. Nel Treia e negli affluenti minori si trovano soprattutto il barbo (barbus barbus), il cavedano (leuciscus cephalus cabeda), lo scozzone (cottus gobio) localmente chiamato lopala che rimane immobile per lunghi tratti sui fondali pietrosi, il trotto (rutilus rubidio) e il vairone (telestes souffia muticellus). Nella fauna ittica vanno annoverati anche la lampreda (lampetra fluviatilis), il granchio (potamon fluviatile) e il gambero (austropotamobius pallipes), la cui presenza si è estremamente ridotta, con il rischio di estinzione nelle nostre acque.
L’avifauna si contraddistingue per le specie stanziali e migratorie: esse sono così numerose e varie che la nostra rassegna risulterà necessariamente incompleta. Nei cespugli si esibisce l’usignolo (luscinia megarhynchusù), uccello dalla versatilità musicalità, fatta di trilli, di note flautate, di suoni puri e melodiosi. Dotato di qualità canora è anche il pettirosso (erithacus rubecula), che alle prime avvisaglie dell’inverno, fa la sua comparsa assieme al minuscolo scricciolo (troglodytes troglodytes) nelle siepi prossime all’abitato. La graziosa capinera (silvia atricapilla) sverna sui versanti solatii, ingozzando bacche di sambuco, sanguinello e d edera. Altri uccelli che frequentano il nostro territorio sono: la rondine (hirundo rustica), il balestruccio (delichon urbicus), il merlo (turdus merula), il tordo (turdus philomelus), lo storno (sturnus vulgaris), la starna (perdix perdix), la quaglia (coturnis coturnis), il passero d’Italia (passer domesticus Italiae), il passero solitario (monticala solitarius), l’allodola (alauda arvensis), la tottavilla (pullula arborea), lo strillozzo (emberiza calandra), l’averla minore (lanius collirio), la cinciallegra (parus maior), la cinciarella (parus caeruleus), il verzellino (serinus serinus), il cardellino (carduelis carduelis), il verdone (carduelis chloris), il fringuello (fringilla coelebs), la ballerina gialla e quella bianca (motacilla cinerea, m. alba), il fagiano (fasianus colchicus). Tra i rapaci notturni o strigiformi sono da annoverare il gufo comune (asia otus), l’assiolo (otus scops), riconoscibile per il suo caratteristico verso, il monotono “chiù”, la civetta (Athena noctua), il barbagianni (tyto alba), che ha i dischi facciali sviluppati a cuore attorno agli occhi e l’allocco (strix aluco).
Una specie estiva è data dal rigogolo (oriolus oriolus), dalla lucente colorazione giallo-oro e nera nei maschi. Nidifica tra le fronde lussureggianti dei saliceti o dei pioppeti. Altro volatile dall’aspetto singolare è l’upupa (upupa epops) che ha un piumaggio variegato, un lungo becco adunco e un ciuffo retrattile sulla testa. La coda appariscente e il colore a zone di nero lucido e bianco fanno immediatamente riconoscere la gazza (pica pica). Tra gli uccelli ospiti dei boschi c’è la ghiandaia (garrulus glandarius), cha a differenza di altri corvidi si distingue per una vivace colorazione. Altro piccolo corvide è la taccola (corpus monedula), rumorosa e gregaria, che occupa le rupi e gli antichi ruderi, sottentrando sovente alla palombella. Lungo i corsi d’acqua il martin pescatore (alcedo atthis) ci meraviglia per la sua abilità nel catturare i pesci e per il suo scintillante piumaggio multicolore. Non si può infine tralasciare una specie sempre più rara, che rotea alta nel cielo con un volo ampio e maestoso, i falconidi, con il falco pellegrino (falco peregrinus), il gheppio (falco tinnunculus) e la poiana (buteo buteo).


I FALISCI E LA LORO STORIA

Sebbene siano stati rinvenuti reperti attribuibili ad epoca ben più antica, nell’Agro Falisco la presenza di insediamenti umani, la cui economia di sussistenza era prevalentemente basata sull’agricoltura e sull’allevamento, si può far risalire con sicurezza al neolitico, più precisamente alla cosiddetta facies del Sasso (fine V-IV millennio a.C.). Tracce di frequentazione riferite a quel periodo sono state rinvenute dal Rellini, nella campagna di studi condotta negli anni 1916-1917 in piccole cavità, meglio conosciute con il nome dicavernette falische”, che costellano il territorio di Civita Castellana, Corchiano e Gallese. Un gruppo di ripari, individuato in località Fantibassi e nel margine sinistro del Fosso di Fabrece, ha restituito manufatti di industria litica e frammenti di rozza ceramica. Per la verità le cavernette di Fabrece, come segnala il Del Frate, erano già state esplorate alla fine del secolo scorso: “Esse addentransi più o meno profondamente nei banchi tufacei e presentano spesso bizzarre ramificazioni con ardite volte sostenute da strani pilastri… In queste primitive stazioni umane si rinvennero molti utensili di pietra consistenti in coltelli, raschiatoi, nuclei a schegge, oltre agli arcaici frammenti di terra mal cotta, frammischiati con avanzi di forni primitivi o di ossa”. Altri rinvenimenti riguardano reperti ascrivibili all’età del bronzo, segnatamente alla facies di Rinaldone 2 e a quella successiva di Montemerano. Se dunque non sussistono dubbi sullo stanziamento e sulla permanenza dell’uomo in epoca preistorica e protostorica, controverse rimangono le ipotesi formulate sull’origine dell’insediamento di Falerii Veteres. La fondazione era attribuita dalla leggenda alla mitica figura dell’argivo Halesus, eroe eponimo della città; l’etimologia sembra, invece, attinente (come nel caso del colle Palatino, data l’alternanza “pala/fala”) alla base mediterranea “fala” = “altura arrotondata”. Il rinvenimento di materiale ceramico del bronzo finale a Vignale, una platea tufacea di circa 15 ettari di superficie, completamente isolata e lambita alla base dal Rio Maggiore e dal Fiume Treia, ha rimesso in discussione l’ipotesi che il primo nucleo insediativi della zona fosse da individuarsi sull’altura di Monteranno. Parimenti sembra da escludere la formazione di Falerii Veteres come graduale aggregazione, attraverso un processo di sinecismo, di pagi distinti. È invece verosimile che il primitivo nucleo di Vignale, verso la metà dell’VIII secolo, si sia sviluppato fino ad occupare il prossimo pianoro di Civita Castellana. Tale espansione trova precisi riscontri nella maggiore ampiezza dell’altura, circa 30 ettari di superficie, e nella munita posizione strategica. In realtà si tratta di un baluardo avanzato, isolato nei tre lati da strapiombi ed unito ad ovest al territorio retrostante da una breve lingua, che peraltro sembra essere stata interrotta fin dall’antichità con un taglio artificiale.
Il periodo di maggiore floridezza è da collocarsi intorno ai secoli VI – IV a.C., quando Falerii Veteres divenne il centro principale dell’intero Ager Faliscus. Anche se l’impianto urbanistico e la topografia ci restano in gran parte sconosciuti per la successiva sovrapposizione del centro medievale e moderno di Civita Castellana, possiamo ben immaginare l’intensa opera che fu realizzata per il riassetto, il potenziamento e la fortificazione del sito.
Le prime notizie di ostilità e di conflitti con Roma risalgono alla fine del V secolo. Le fonti storiche, tutte di parte romana, documentano la resistenza ad oltranza opposta dalla nazione falisca, per contrastare l’espansione della potenza di Roma nella valle del Tevere e verso l’Etruria. L’alleanza prima con Veio e con Fidene e poi con Tarquinia, in funzione antiromana e in difesa di interessi comuni, sta ad indicare l’esistenza di stretti rapporti politico-militari, ma non implica necessariamente l’esercizio di una egemonia da parte etrusca sul popolo falisco. Le guerre sostenute contro Roma a difesa della propria indipendenza, a cominciare da quelle combattute a fianco di Veio, si risolsero in una serie di pesanti sconfitte. L’ultimo disperato tentativo che i Falisci fecero per scrollarsi di dosso il giogo dei Romani, ebbe luogo nel 241 a.C. con una rivolta prontamente repressa nel sangue. Il bilancio di questa disastrosa e vana guerra dei sei giorni è impressionante: da parte falisca si ebbero 15.000 morti. Le conseguenze le conosciamo dall’epitome dello storico bizantino Zonata: devastazioni con campi messi a ferro e a fuoco, sequestro di armi, cavalli, schiavi e masserizie, confisca di metà del territorio, distruzione di Falerii Veteres. I Romani, secondo un piano prestabilito, deportarono la popolazione superstite della città in un luogo pianeggiante a pochi chilometri più ad ovest, dove edificarono un nuovo centro, Falerii Novi (oggi Fàlleri), attraversato dalla Via Amerina. La struttura urbanistica adottata sembra essere stata quella propria delle colonie: un impianto ortogonale impostato sui due assi del cardo e del decumano, con i quali si intersecano a distanze regolari altre strade di minore ampiezza, realizzando così una pianta reticolare, che suddivide la città in isolati. La poderosa cinta muraria, costruita con blocchi di tufo commessi ad emplecton, si sviluppa per un perimetro di poco superiore ai due chilometri e risulta per molti tratti ancora ben conservata. Nella cerchia si aprono alcune porte di varia grandezza; la più maestosa è quella di Giove, cosiddetta dalla testa di divinità che conclude l’arco a conci di peperino. Scavi non sistematici, effettuati a più riprese nel primo trentennio del secolo scorso, hanno restituito materiale archeologico ed artistico di rilevante interesse, che purtroppo è andato disperso in collezioni private e in numerosi musei europei. Questa città romana, costruita ex novo, per le sue evidenze monumentali, che dalla metà del III secolo a.C. arrivano ininterrottamente fino al medioevo costituisce un “giacimento” culturale di primaria importanza che è ancora in massima parte da scoprire, da studiare e da valorizzare.


LA CIVILTÀ DEI FALISCI

I sistemi di approvvigionamento, conserva e smaltimento delle acque, le opere di fortificazione, il taglio di fossati artificiali, i resti di edifici templari, i bronzi e gli ori dei corredi funerari ci restituiscono, anche se incompleta, l’immagine di una civiltà evoluta, con una propria organizzazione socio-politica ed in possesso di conoscenze tecnico-scientifiche avanzate. Inoltre la presenza di prodotti orientali e di vasi attici, importati dall’Ellade, indica un popolo aperto a scambi commerciali di vasto raggio. L’economia era fondata precipuamente sull’agricoltura e sull’allevamento. I Falisci infatti praticavano la coltivazione degli alberi da frutta e del lino, la viticoltura, l’allevamento dei buoi, degli ovini e dei caprini e l’apicoltura. Non mancò peraltro l’attività artigianale legata alla ceramica con l’impianto di officine di alto livello qualitativo. Se l’arte di modellare la creta ha avuto un particolare sviluppo in Italia e in Etruria (elaboratam hanc artem Italiae et maxime Etruriae – Plinio, XXXV, 157), Falerii Veteres costituì uno dei centri più importanti di produzione. Tra la fine dell’VIII e gli inizi del VII secolo predominano manufatti ad impasto rossastro o simile al bucchero con ornati plastici, graffici o decorati ad excisione: i grandi holmoi, usati per sostenere le olle per mescere il vino, i kantharoi. Nei secoli successivi si affermano stili come quello orientalizzante protocorinzio e corinzio, ma è soprattutto l’afflusso della ceramica attica ad esercitare, proponendosi come modello di perfezione formale, una decisa influenza sulla scuola locale. Anzi lo sviluppo della ceramografia falisca del IV secolo è da alcuni studiosi messa in relazione con l’immigrazione di artisti greci a Falerii Veteres dopo la guerra del Peloponneso. I prodotti che escono dalle botteghe falische (hydriai, kylikes, oinochoai, stamnoi, skyphoi, aryballoi, crateri a campana, crateri a colonnette) sono di pregevole fattura ed esprimono una mirabile raffinatezza figurativa; ad es. lo stamnos del pittore Diespater, l’oinochoe con l’Amazzonomachia e la morte di Atteone, il cratere nel quale è raffigurato Kephalos rapito da Aurora.
La coroplastica si distingue per la produzione di ornati fittili delle sovrastrutture templari: antefisse, gruppi acroteriali o frontonali, lastre modulari di rivestimento (antepagmenta).
Anche in questo caso il modello è l’Ellade: le esperienze di grandi scultori come Skopas, Prassitele e Lisippo si trasfondono in un contesto culturale diverso che ne assimila le connotazioni artistiche più significative: la statua di Apollo (?) dello Scasato, della prima età ellenistica, se ricorda da vicino la scultura lisippea di Alessandro Magno, sta a dimostrare che quei valori formali ed espressivi erano stati compresi fino in fondo.
Importante fu anche la religione. Sulle divinità indigete, venerate dai Falisci, sui riti al loro culto connessi “non abbiamo che notizie imprecise e controverse”. Perciò, per tracciare un profilo, dobbiamo rifarci alle fonti letterarie e storiche, integrandole, ove possibile, con documenti epigrafici (menzioni di teonimi, dediche, invocazioni), archeologici (complessi templari, sacelli, are, ex voto), ed iconografici (statue, effigi). Le iscrizioni ad esempio ci attestano il culto di Mercurio, di Cerere, di Libero, di Minerva. L’associazione di quest’ultima in una triade pari a quella capitolina è testimoniata, almeno per l’età romana, da una lamina di bronzo con iscrizione in versi saturni, proveniente da Falerii Novi (CIL XI, 3078). Sappiamo, inoltre, che un tempio a Minerva capta fu dedicato sul Celio, in seguito alla conquista di Falerii Veteres, verosimilmente dopo aver asportato dalla città un simulacro della dea. Un particolare culto doveva essere dedicato al dio Apollo: il suo nome figura nella forma aplografica Apolo, su una patera oggi perduta. Dal libro XI dell’Eneide (Aen. XI, 785) ricaviamo la solenne invocazione: “Summe deum, sancti custos Soractis Apollo”, che il commentatore Servio chiosa con la notizia relativa all’istituto sacerdotale degli Hirpi. A completamento interviene un passo di Plinio (NH, VII, 19), che riferisce un rito di pregnante significato magico-religioso: “Non lontano dalla città di Roma, vivono nell’Ager Faliscus alcuni gruppi familiari chiamati Hirpi. Costoro durante le celebrazioni annue in onore di Apollo, sul Monte Soratte, pur camminando a piedi scalzi sui carboni ardenti, non si bruciano e pertanto, in base ad una legge del Senato, sono esenti dal servizio militare e da altri obblighi”. Il santuario di Apollo sorgeva sulla vetta più alta del Soratte (691 mt.), sulle rovine del quale fu innalzata dopo il trionfo del Cristianesimo, una chiesa in onore del papa San silvestro, che, secondo la leggenda, si era lassù rifugiato, per sfuggire alle persecuzioni. Ed il Soratte si situa in un’area interessata, fin dalla remota antichità, a fitti interscambi non solo commerciali, ma anche artistico-culturali tra diverse popolazioni: Falisci, Sabini, Capenati, Latini. La fisionomia della divinità venerata sul Soratte, a prescindere se si tratti del Dis Pater Soranus o di Apollo, che successivamente lo assorbe per similarità di attributi, sembra precisarsi come un dio risanatore e purificatore. Al suo culto dobbiamo forse ricollegare, per connessione etimologica, la carica sacrale disorex, restituita da una iscrizione mortuaria (CIE 8352 – 8353). Ma è probabile che i Falisci considerassero come divinità tutelare della loro città Giunone curite, il cui appellativo, sebbene di etimologia controversa, sembra doversi ascrivere all’attributo militare della lancia (Paul. Fest., ed. Lindsay, p. 13.1 e 5-6). Gli indizi sono molteplici: il poeta Ovidio appella gli abitanti della città “iunonicolasque Faliscos” (Fast. VI, 49); dal Liber Coloniarum sappiamo che probabilmente sull’area di Falerii Veteres fu dedotta una Colonia Iunonia assegnata dai triumviri; infine in una epigrafe del I sec. d.C. (CIL, XI, 3108) si menziona un pontifex sacrarius Iunonis Curitis, senza che però ne vengano specificate le funzioni cultuali. Forse il culto della dea e le sue presunte analogie con quello di Era Argiva contribuì a rinforzare la tradizione per cui Falerii era considerata una colonia di Argo.
Gli scavi archeologici effettuati dal 1886 nella Valle di Rio maggiore, in località Celle, cioè in un’area caratterizzata da presenze religiose millenarie che vanno dalla protostoria fino agli insediamenti eremitici e alle chiese rupestri d’età medievale, hanno portato alla luce le imponenti e massicce fondamenta di un edificio templare comunemente designato dai moderni come tempio di Iuno Curitis. La pianta risulta conforme al consueto tempio di tipo tuscanico, descritto da Vitruvio, con tre celle ed un ampio portico frontale, ornato con materiale fittile. La frequentazione del santuario perdurò anche dopo la distruzione e il forzato abbandono di Falerii Veteres: pare che alcuni templi furono risparmiati dalla furia devastatrice delle legioni romane e non furono sottoposti a saccheggio. Ivi, se l’identificazione ha fondamento, si celebrava la solenne cerimonia annuale in onore della dea, di cui ci tramanda una descrizione minuziosa il poeta Ovidio durante un suo soggiorno nella “fruttifera terra falisca”, in compagnia della moglie che era appunto originaria del luogo (Amores, III, 13). Il poeta, che ricorda un’”ara per antiquas facta sine arte manus”, potè assistere ad un rito solenne e vetusto, ad una pompa professionale carica di sacralità e di partecipazione. A questo culto le popolazioni falische rimasero fedeli a lungo, se Tertulliano, nel suo fervore contro gli “errores” dei pagani, cita, elencando i riti locali che ancora persistevano al suo tempo in Italia, quello di Giunone Curite (Faliscorum in honorem patris Curi set accepit cognomen Iuno – Apologet. 7,9). Un rapporto devozionale con la divinità si può desumere dal rinvenimento di ex voto (anche poliviscerali) entro i recinti templari o nelle stipi, mentre un particolare culto per i morti trova conferma nelle estese necropoli che circondano il centro abitato, nei ricchi corredi funerari, nelle varie forme di sepoltura, a cominciare dall’uso dei tronchi di quercus cerris opportunamente scavati fino alle tombe a fossa e quelle monumentali a camera.
Un terzo aspetto peculiare della civiltà falisca è quello linguistico: i testi pervenutici non risultano particolarmente doviziosi, non ammontano a duecento (si tratta di epigrafi funerarie, incise su pareti di tufo o dipinte su tegoloni, e di iscrizioni vascolari, per lo più brevi, talvolta lacunose e di non agevole integrazione), ma rappresentano un corpus sufficiente per garantirci la conoscenza del Falisco. La scrittura non ci è nota, come avviene per altre scritture antiche, da alfabetari, ma i segni, pur denunziando una derivazione etrusca, risultano nel loro insieme affini a quelli del latino. Essi non possono essere riferiti ad un modello omogeneo, cioè non sono riconducibili ad una forma base, in quanto le iscrizioni evidenziano varianti grafiche di rilievo. Può ritenersi distintivo per la sua particolare forma (freccia con asta verticale ed apice rivolto in alto) il segno della lettera F, che un recente rinvenimento a Foglia (RI), nella necropoli rupestre di S.O., ha documentato nel contermine territorio sabino sulla sponda sinistra del Tevere.
Per quanto concerne la collocazione del Falisco in un contesto culturale più ampio e complessivo, rimane tuttora valido il quadro generale ricostruito dalla Giacomelli nella sua fondamentale silloge, anche se sono stati meglio precisati, grazie a nuovi apporti epigrafici alcuni tratti ritenuti in passato distintivi del Falisco, come ad esempio quello morfologico – osio (Euotenosio – kaisiosio) per il genitivo singolare dei nomi con tema in – o -. E’ stata definitivamente abbandonata la tesi che attribuiva all’etrusco un’importanza sostanziale nello sviluppo di questa “lingua”: se appare innegabile la etruscità di alcuni elementi (soprattutto onomastici), questa trova consistenza per un gruppo di epigrafi di un determinato territorio e in una precisa epoca. Caduta è anche l’altra tesi che collegava decisamente, secondo una classificazione rigida, il Falisco all’osco-umbro, sulla scorta di alcuni tratti fonetici (esiti in spiranti sorde contro le medie latine a continuare le medie aspirate indoeuropee: fal. afiles lat. aediles; fal. loferta lat. liberta), operando su ricostruzioni opinabili una generalizzazione.
Un riesame del problema porta a configurare il falisco come un dialetto dall’ossatura fonetica e morfologica del tipo latino, localizzato in terra di confine (linguistico). Quindi non un’entità a sé, senza relazioni, ma una “lingua” a contatto, aperta a contributi culturali diversi. Non essendo possibile presentare un repertorio esauriente, ci limiteremo alla citazione del testo più conosciuto: su una kylix a figure rosse, oggi conservata nel Museo Nazionale di Villa Giulia, è dipinta l’iscrizione “Foied vino pafo cra carefo” – Hodie vinum bibam, cras carebo ( = peribo?) a commento della figurazione erotica di due giovani (Bacco e Arianna?) che si baciano. Il senso immediato risulta perspicuo: invito alla libagione simposiaca, al bere durante il banchetto. Ma, sul piano metaforico, si sovrappone un secondo significato che fa assumere all’intera espressione un valore gnomico: così il sintagma “vino pafo” diventa esortazione a godere i piaceri della giovinezza, ad obliare la caducità dell’esistenza, una sorta di “carpe diem”, cioè un topos letterario che trova riscontri lungo l’intero versante della poesia classica.
D’altro canto l’uso frequente di polyptota, di alliterazioni, di versi saturni nelle epigrafi ci induce ad ipotizzare l’esistenza di vere e proprie forme letterarie, delle quali abbiamo soltanto notizie indirette: Dionigi di Alicarnasso (Dion. Hal. I, 21, 2) ci tramanda che durante la festa annuale di Giunone Curite un coro di fanciulle intonava in onore della dea “inni che avevano composto i loro antenati”. E i “fescennini versus”, oltre a testimoniare l’espressione dell’italum acetum, con scambio di battute sbrigliate, cariche di allusioni oscene, non costituirono, in unione con la danza e il canto, una forma drammatica delle “Origini”? E nel tempo essi assursero a dignità formale, se il poeta Anniano, fiorito sotto l’imperatore Adriano, scrisse fescennini nuziali e Claudiano, per celebrare le nozze di Onorio e Maria, compose, oltre ad un epitalamio, quattro fescennini polimetri.

IL MEDIOEVO

La crisi e poi il dissolvimento dell’Impero Romano come entità politico – militare annovera tra le molteplici “cause” le invasioni barbariche. Le città d’Italia, gli splendidi municipia rovinarono sotto i ripetuti colpi dei Vandali, dei Goti e dei Longobardi. Testimoni contemporanei, come San Gregorio Magno, descrivono la desolazione delle città devastate (diruta castra, eversae urbes) e la solitudine dei campi ormai incolti, anche se il patrimonio della cultura antica continua a lievitare nelle “scholae” dei monasteri. Pur tuttavia nei secoli V-VIII si sviluppa il processo storico che contraddistingue e condiziona l’evoluzione successiva del territorio: il recupero dei luoghi di difesa e di potere preromani, la demarcazione tra la Tuscia Langobardorum e la Tuscia Romanorum, la formazione di una nuova entità politica, come il Patrimonium beati Petri, e il suo riassetto interno con la ripartizione delle diocesi.
Se gradatamente scompare il latifondo, che aveva il suo centro nelle “villae”, le nuove aziende agricole vengono riorganizzate attorno a siti ben fortificati. E’ in questo contesto storico che si colloca il progressivo abbandono di Falerii Novi e la “rinascita” di Civita Castellana. Il nuovo centro compare menzionato per la prima volta nell’anno 727 nel Libro dei Censi di Cencio Camerario. Nel documento si specifica che il papa Gregorio II “locavit monasterio Sancti Silvestri in monte Soracte in perpetuum fundum Cancianum ex corpore Massae Castellanae patrimonii Tusciae”. La “Massa” era un centro agricolo di prim’ordine: come giustamente osserva il Tomassetti “era un aggregato topografico ed amministrativo di più fondi denominato o dal proprietario o da un fondo centrale che ne era l’originale”; e quindi doveva avere ragguardevoli dimensioni. Un altro documento importante è l’epigrafe del Vescovo Leone, databile alla metà dell’VIII secolo, la quale, oltre ad anticipare per Civita Castellana il titolo di diocesi ed elencare una serie di fondi in dotazione alla chiesa di Santa Maria, cita i “tribuni” e i “comites”, evidenziando che nella Massa Castellana esisteva una organizzazione socio-politica.
Questo “locum natura satis munitum” svolse nei secoli successivi la funzione di fortezza – rifugio per i papi in casi di estremo pericolo: l’antipapa Clemente III, dopo essere stato scacciato da Roma, vi morì nell’autunno del 1100.
Nel 1154 Adriano IV, sospettando delle reali intenzioni dell’imperatore federico, che superbamente avanzava alla testa del suo esercito, si rinserrò in Civita, “ubi si de persona eius rex male cogitasset, iram illius secure declinare”.
Ma nell’anno 1158 lo stesso papa riconobbe alla famiglia dei Prefetti l’indennizzo di duemila marchi d’argento per le devastazioni subite dai loro domini nella guerra contro i Romani. Versati subito mille marchi, si obbligò a soddisfare l’altra metà con rate annuali, dando in pegno, a cauzione del debito, Civita Castellana e il suo comitato. Il riscatto, che doveva essere estinto in un ventennio, avvenne soltanto nel 1195, quando i Prefetti, con formale atto di quietanza e di rinuncia, rimisero la città in possesso della Chiesa Romana.
Sotto Innocenzo III, Civita, come altri comuni del patrimonio, tenta di ottenere il privilegio dello “ius sibi erigendi potestatem”. Ma quando nel 1210 elegge il nuovo rettore senza l’autorizzazione pontificia, la comunità viene colpita da interdetto. E’ chiaro che il piano di Innocenzo III per il riordinamento del patrimonio implicava una decisa affermazione del potere centrale e una riduzione delle autonomie locali. Fu soltanto nel 1229 che Gregorio IV concesse la libera elezione del podestà e la facoltà di eleggere gli statutari per redigere le costituzioni comunali e gli statuti. Lo stesso pontefice sciolse nel 1235 i cittadini del giuramento di fedeltà che i Romani avevano loro imposto nelle guerre contro i Viterbesi. E i papa Innocenzo IV nel 1252 emanava un diploma, nel quale confermava la validità degli statuti comunali, elaborati “legitime” dagli stessi cittadini. Tutti questi fatti stanno a dimostrare che la tendenza a costituirsi come comune autonomo si alterna con il controllo più o meno pesante esercitato dal potere pontificio. Infatti nel 1288 il pontefice Nicolò IV incaricava il vescovo di Civita di assumere l’amministrazione di tutti i diritti della chiesa sul territorio e nell’anno successivo, in un documento indirizzato a Monaldo, rettore e vescovo di Civita Castellana, dichiarava espressamente che la chiesa “recuperavit dominium deperditum cum multis brigis et expensis”.
Nel 1305 Clemente V accordò il vicariato della città alla famiglia dei Savelli, che ottenne la riconferma nel 1323, come si ricava da una lettera di Giovanni XXII, residente ad Avignone. Con il periodo della “cattività avignonese” si determina una situazione di disgregazione politica con spinte autonomistiche e usurpazioni da parte delle potenti famiglie, dalle quali Civita Castellana non fu naturalmente esente: Giovanni di Vico se ne impadronì a metà del XIV secolo e poi, per non restituirla al cardinale Albornoz, la vendè a Luca Savelli.
L’incarico di ristabilire il potere papale fu affidato all’energico Cardinale Egidio di Albornoz. Questi, nominato legato pontificio con ampi poteri da Clemente VI, nel novembre del 1353 giunse nel Patrimonio, determinato a ridurre all’obbedienza i signorotti riottosi e riportare l’ordine nello stato della chiesa.
L’anno successivo, quando egli entrò in Viterbo, si può dire che i comuni della zona avevano cessato ogni resistenza. Soltanto Civita Castellana resterà in armi fino al 1357, quando la popolazione ormai stanca della lunga guerra, stipulò una tregua della durata di un anno.
Prima del ritorno a Roma da Avignone il papa Gregorio XI si premurò di acquistare tutti i possessi e i diritti che Luca Savelli aveva su Civita Castellana con l’esborso di 16.000 fiorini. Tuttavia per soddisfare tale prezzo gli concesse la città per otto anni con “mero e misto impero” ed ogni giurisdizione temporale e la facoltà di esigere tutti i proventi demaniali, i quali, con la deduzione delle spese necessarie per la custodia della rocca e per gli stipendi degli ufficiali, sarebbero andati a diminuire il debito fino all’estinzione. Ma nel 1375, quando si costituì la lega fiorentina, Civita approfittò di nuovo per ribellarsi e aderirvi assieme a Viterbo, ad Orte e a molti altri comuni dell’Italia Centrale.
Occupata nel 1377 dalle truppe di Giovanni Sciarra di Vico e successivamente da Paolo Orsini che vi compì ogni sorta di eccessi, la città fu concessa in pegno ad Andrea Tomacelli, perché con i proventi si rimborsasse dei 4.000 fiorini prestati alla Camera Apostolica. Ritornata definitivamente dopo alterne vicende sotto il dominio diretto della Santa Sede, nel 1437 papa Eugenio IV unificò con una bolla le diocesi di Civita Castellana ed Orte. Lo stesso pontefice poi concesse al Comune “privilegia ad quaedam alia de novo”, tra cui il diritto per i cittadini a non essere giudicati fuori del loro comune.
Papa Nicolò III fece restaurare le mura della città e il suo successore Callisto III nominò governatore il cardinale Rodrigo Borgia, che subentrò al cardinal d’Estouteville. Durante il suo governatorato e poi durante il suo pontificato Alessandro VI abbellì la cittadina con opere d’arte e con monumenti, ma soprattutto ne fece un punto chiave nella strategia difensiva dello Stato Pontificio con l’erezione della Rocca del Sangallo.


DAL RINASCIMENTO AI NOSTRI GIORNI

La storia cittadina del XVI secolo nelle sue linee generali ci è sufficientemente nota grazie agli Statuti e Reformanze della Communità di Civita Castellana, la cui edizione a stampa risale al 1566, e al manoscritto, tuttora inedito delle Memorie Istoriche di Francesco Pechinoli. Attraverso l’ordinamento statutario, comprendente in sei libri 337 rubriche e 56 riformanze, si acquisisce un preciso spaccato della comunità civitonica di quel periodo. A sua volta l’autore delle Memorie ci ragguaglia con informazioni, sovente di prima mano, sui contrasti interni, sulle contese con i comuni limitrofi, sui ricorrenti passaggi di truppe straniere, sulle visite di illustri personaggi, sulla successione dei governatori, sulla topografia del centro urbano.
Ad esempio sub anno 1523 il Pechinoli ci narra diffusamente la “spedizione punitiva”, cioè la rappresaglia messa in atto dai Civitonici con pezzi di artiglieria e una forza di 1500 uomini contro quei di Santoreste, per risolvere una contesa insorta sui confini e ripagare quei terrazzani delle continue provocazioni. Dallo stesso cronista apprendiamo che Civita nel 1527 subì il rovinoso passaggio dei Lanzichenecchi nella loro discesa verso Roma. L’avvenimento trova riscontro in altre fonti con aggiunta di particolari. Infatti dopo il sacco di Roma furono avviate trattative per la liberazione del pontefice Clemente VII, rinserratosi in Castel Santangelo per sfuggire alla furia devastatrice dei Lanzi, e per lo sgombero di Roma. Oltre al pagamento, in più soluzioni, di una ingente somma di ducati agli Spagnoli e ai Lanzichenecchi, furono poste altre pesanti condizioni: la consegna di alcuni nobili ostaggi, tra cui Galeotto e Malatesta de’ Medici, nipoti del papa, e a garanzia il controllo delle piazzeforti di Ostia e Civitavecchia, e poi di Civita Castellana, Forlì e Terracina. Tuttavia nel frattempo la nostra città era stata occupata dai Francesi, che, per impedire che cadesse in mano agli Imperiali, avevano predisposto grandi fortificazioni attorno alla rocca del Sangallo. Il 10 dicembre 1527, squadre di fanteria spagnola sottoposero la città ad un furioso attacco. Ma i cittadini, unitisi al presidio franco-veneto, comandato dal capitano veneziano Cristobal Albanese, ricacciarono indietro gli assalitori, volgendoli in fuga ed infliggendo gravi perdite. I secoli XVII e XVIII sono contrassegnati da un periodo di relativa pace, durante il quale si potè procedere al riassetto del sistema viario del comprensorio a cominciare dalla costruzione del Ponte Felice (1589), cui seguirono in ordine di tempo la variante della Via Flaminia (1609), il Ponte Clementino (1709) ed infine il collegamento tra la Cassia e la Flaminia tramite il raccordo della Via Nepesina (1787-1789), realizzato dal Pontefice Pio VI.
I grandi rivolgimenti avvenuti alla fine del XVIII secolo, la Rivoluzione e la costituzione della Repubblica Francese, ebbero ben presto ripercussioni in tutta Europa, Italia compresa, dove si propagarono nuove idee e fermenti rivoluzionari: anche a Civita Castellana, come in molti altri luoghi, fu innalzato l’albero della libertà al sopraggiungere dell’esercito francese, che agli ordini del generale Berthier occupò agli inizi del 1798 Roma e lo Stato Pontificio. Nel nuovo assetto amministrativo che ne seguì Civita Castellana fu assegnata al Dipartimento del Tevere. Il biennio 1798-99 fu particolarmente tormentato. Dapprima l’esercito napoletano, forte di 40.000 uomini, penetrò nello Stato Pontificio, col proposito di ricacciare i Francesi: infatti il Re di Napoli, alla testa delle sue truppe, il 27 novembre 1798 entrò in Roma. Ma poi le cose volsero al peggio. Nei dintorni di Civita i reparti napoletani furono ripetutamente battuti e costretti alla ritirata. Fu poi la volta degli Aretini che nell’agosto del 1799, dopo un breve assedio, al grido di Viva Maria sottoposero la città al saccheggio. La reazione francese non si fece attendere: un corpo di spedizione ristabilì con la forza il governo provvisorio, imprigionando e fucilando alcuni cittadini, che più si erano compromessi.
Conclusasi l’avventura napoleonica con il ritorno dei principi spodestati nel possesso dei loro domini, comincia l’epopea del Risorgimento Italiano.
Durante questo periodo il nome di Civita Castellana divenne tristemente famoso, perché nella sua rocca furono imprigionati numerosi patrioti, condannati dal Governo Pontificio per la loro attività cospirativa a favore della unità e dell’indipendenza nazionale. Nei moti del 1831 l’avanguardia del contingente dei rivoltosi, guidato dal generale Sercognani, fu respinta nei pressi della frazione di Borghetto, in quella che fu una scaramuccia e che il comandante della roccaforte, tenente colonnello Lazzarini, esaltò come un decisivo fatto d’armi nell’opuscolo apologetico “I XXXIII giorni della difesa di Civita Castellana”.
Dopo il 1860 Civita Castellana divenne città di confine, presidiata da una guarnigione francese ed esposta, come avvenne nel 1867, alle incursioni dei garibaldini: fu infatti occupata da una colonna al comando del maggiore Nisi, alla quale si unirono come volontari alcuni cittadini, per combattere sui campi di Mentana e Monterotondo.
L’epilogo dell’epoca risorgimentale coincide con la conquista di Roma nel settembre del 1870. Dopo la sconfitta di Napoleone III e il ritiro delle truppe francesi nessun ostacolo si frapponeva ormai all’esercito italiano, il cui intervento più che una vera e propria guerra, può definirsi una semplice operazione militare. Nella notte tra l’11 e il 12 settembre il generale Cadorna, comandante in capo delle truppe regie, dopo aver fatto occupare i ponti di confine, fece convergere su Civita Castellana, come avanguardia alla dodicesima divisione che avanzava, il quarantesimo fanteria, il trentacinquesimo battaglione bersaglieri, due squadroni di lancieri d’Aosta, unità del genio zappatori e dell’artiglieria. Il presidio della cittadina, che si componeva di una compagnia di zuavi e di una di disciplina (230 uomini in tutto), dopo un breve conflitto a fuoco, dichiarò la resa. L’atto di capitolazione, firmato a Casale Ciotti, a circa metà strada tra Borghetto e Civita, fu sottoscritto per la parte pontificia dal Capitano Ruffini. Non seguirono particolari rappresaglie, neppure contro il clero, se Edmondo De Amicis nei suoi “Ricordi del 1870-71 annotava: “un solo frate mostrò d’aver paura dei soldati, e fu vicino a Civita. Veniva innanzi con un somarello verso un battaglione di bersaglieri pallido e tremante, e giunto a pochi passi dai soldati, si fermò e giunse le mani in atto di chieder grazia. – Fa nen ‘l farseur – gli disse un caporale. Gli altri gli domandarono notizie del Santo Patre. Qualcuno gli offrì del pane. Rassicuratosi pareva matto dalla contentezza”. Era l’incontro, certamente meno famoso e meno ufficiale di quello di Teano, ma più semplice ed ugualmente significativo, tra la vecchia e la nuova Italia.
Una espansione urbanistica ed una crescita demografica senza precedenti caratterizzano gli ultimi cento anni. Dal sito originario, cioè dalla platea tufacea, il centro abitato si è esteso, aldilà del Ponte Clementino, lungo l’attuale asse di Via della Repubblica, occupando l’area pianeggiante delle Colonnette e poi di Catalano fino a raggiungere il Fosso di Catone. Nell’altra direttrice, cioè lungo l’asse di Via Roma, si è dapprima saldato con gli abitati di Priati e di Fontana Quagliola, poi li ha definitivamente inglobati. Nel contempo un notevole sviluppo ha avuto anche la frazione di Sassacci, posta sull’incrocio tra la Via Flaminia e la Via Nepesina. Di pari passo ha proceduto la crescita della popolazione: il motu proprio di papa Pio VII del 6 luglio 1816 fornisce per Civita Castellana il dato di 1.825 abitanti, mentre l’attuale popolazione residente ammonta a circa 16.000, facendo di Civita il secondo centro della provincia dopo Viterbo. Dal 1901 al 1951 si è registrato un incremento demografico dell’112%, dovuto, più che all’accresciuta natalità, all’afflusso di immigrati dalle vicine regioni, dalle Marche e da ultimo dal Meridione, soprattutto dalle Puglie. Tali processi sono stati accelerati dall’intervento di alcuni fattori favorevoli, quali le migliorate condizioni di vita (acqua potabile, elettrificazione), i buoni collegamenti stradali e ferroviari con la capitale (Via Flaminia e Via Cassia, Ferrovie dello Stato nella frazione di Borghetto e ferrovia della Roma-Nord), l’industrializzazione.
Alla fine dell’Ottocento l’attività prevalente risultava ancora quella agricola (con la cerealicoltura e nelle zone irrigue le ortaglie; e poi la coltura della vite e dell’olivo), integrata dall’allevamento (ovini e bovini). L’industria era rappresentata “dalle quattro fabbriche di terraglie; da due concie di pellami; da due fabbriche di saponi; da una fabbrica di acqua gazzosa, nonché da una fabbrica di mattoni di cemento” (O. Del Frate: Guida Storica e descrittiva… p. 47). A partire dal Novecento l’attività industriale si espande e si specializza fino a predominare nettamente sulle altre: si incrementa l’industria estrattiva (cave di chamotte e di travertino in località Ponzano Cave; di leucite per la produzione di potassa nella frazione di Borghetto; di pozzolana e di blocchetti di tufo in vari punti del territorio comunale) e soprattutto quella della ceramica con lo sviluppo collaterale di attività artigianali indotte.


L’INDUSTRIA CERAMICA

Nell’area civitonica l’attività industriale primaria, quella che rappresenta il volano dell’economia, è senza dubbio la ceramica. Essa con i vari settori dei sanitari, delle piastrelle, degli accessori da bagno, delle stoviglierie e degli oggetti d’arte, caratterizza la cittadina a tal punto da configurarsi come “monosettorialità produttiva” sia per l’elevata concentrazione di aziende nel comprensorio, sia per la quantità e la qualità dei prodotti, sia per la considerevole quota di mercato nazionale ed estero conquistata. Se le prime manifestazioni dell’arte figulina risalgono ai primordi della storia di questa città, la continuità è stata certamente favorita dalla presenza in loco di estesi giacimenti di argilla plastica, dalla disponibilità di materie prime di qualità. Di questa plurimillenaria vicenda che ha portato Civita Castellana a fregiarsi orgogliosamente del titolo di “Ceramilandia”, intendiamo tratteggiare per brevi cenni il periodo più recente.
La prima menzione dei “vascellari” si ricava dagli Statuti Comunali là dove si stabiliscono l’ordine e la successione delle corporazioni d’arte cittadine durante la processione dei santi patroni (Statuti Comunali, Libro degli Offici, Rubrica delli Consoli e Rettori de ciasche arte e luminarie per essi da farse, cap. 39). La loro incidenza nell’economia locale non sembra essere stata particolarmente rilevante: verosimilmente dalle loro botteghe uscivano manufatti a smalti stanniferi, maioliche e terrecotte, che non si discostavano per forme e figurazioni da quelle dei centri di maggiore produzione, come comprovano i rinvenimenti di materiale nei cosiddetti “pozzi”.
Una premessa importante per la storia della moderna ceramica civitonica è da considerarsi invece la data del 7 maggio 1792: con chirografo pontificio fu concessa in perpetuo ai signori Giuseppe Valadier, Giuseppe Francesco e Antonino Mizzelli la privativa per l’estrazione dell’argilla atta alla fabbricazione della terraglia ad uso inglese. Nel contempo la Rev.da Camera Apostolica erogò, a titolo di prestito, la considerevole somma di 6.000 scudi, da restituirsi entro un quinquennio. Ma un nuovo impulso, con apporti originali nella produzione e nella qualità dei manufatti, venne dato da Giovanni Trevisan detto Volpato. Questi, nato a Bassano del Grappa nel 1732, si dedicò sin da giovane all’arte incisoria su rame, perfezionandosi presso la Stamperia di Giovanni Battista Remondini, con la cui famiglia mantenne per il resto della vita affettuosi rapporti di amicizia (come documenta il carteggio Volpato-Remondini, di ben 299 lettere, conservato presso la Biblioteca Civica di Bassano). Se la fase di formazione coincide con la permanenza nella città natia, quella di eccellente artista e di abile imprenditore si svolse prima a Venezia e poi, precipuamente, a Roma. Quivi il Volpato aprì una bottega di stampe, cui era annessa una scuola di incisione nella zona di Piazza di Spagna.
Successivamente intraprese la più remunerativa attività di scavo e di commercio di marmi antichi. I molteplici interessi artistici ed uno straordinario intuito imprenditoriale lo portarono ad impegnarsi nella produzione della porcellana, per la quale il pontefice Pio VI gli concesse nel 1766 la privativa. Egli ristrutturò per la bisogna un vecchio edificio, sito vicino alla chiesa di Santa Pudenziana, investendo nell’operazione propri capitali senza ricorrere a mutui.
Un’altra fabbrica fu impiantata, con la collaborazione del figlio Giuseppe, nel 1801 a Civita Castellana. Con questa iniziativa il Volpato divenne il pioniere per la produzione di stoviglierie in terraglia uso Inghilterra. Quando egli morì all’età di 71 anni il 25/8/1803, il Canova, per onorare la memoria dell’amico estinto, innalzò una stele funeraria con l’immagine dell’incisore fronteggiata da una giovane donna in pianto, simbolo dell’amicizia. La produzione del Volpato consiste in piccole statue di pregevole fattura, riproducenti sculture greche e romane secondo il gusto neoclassico imperante ijn quell’epoca, con esecuzioni in porcellana, in bisquit od anche in terra uso Inghilterra. A Civita Castellana, sulla scorta di un listino prezzi coevo (conservato nella raccolta di stampe Bertarelli nei Musei Civici di Milano), sembra che si fabbricassero in contemporanea la terraglia e la maiolica, ma in prevalenza di qualità più corrente e più facile allo smercio.
L’attività dell’impianto non cessò con la scomparsa del primo e maggiore Volpato: dopo di lui vi operarono fino al 1805 il figlio Giuseppe e successivamente il nipote Angelo. L’ultimo dei Trevisan, Mariano, nel 1857 cedette la privativa e la fabbrica a Giuseppe Trocchi, il quale qualche anno dopo la affittò al bolognese Roversi. Questi si distinse “per la bontà delle sue produzioni ceramiche e per l’ottima organizzazione commerciale… degni di nota sono i piatti decorati a trasporto o meglio a calcomania e i ritratti a pastello minerale sotto vernice eseguiti con rara maestria”.
Al Roversi successe il suo concittadino Giacomo Ruvinetti, il quale, consociandosi con Stanislao Laurenti e i fratelli Profili, diede vita all’accreditata ditta “Ruvinetti e Comp.”. Ormai la ceramica civitonica era decollata ed ad incrementarla contribuì l’iniziativa di imprenditori e di artigiani locali. Nel 1839 i fratelli Cassieri fondarono una fabbrica di terraglia che risultava ancora attiva nel 1885. Un’altra società apriva in località Montarozzo (via della Corsica) una fornace, che poi abbandonò per trasferirsi negli ambienti dell’ex convento dei Cappuccini, nell’area adiacente al Cimitero cittadino. Nel periodo 1860-’70, allorché, dopo le conquiste sabaude e le annessioni, lo Stato Pontificio si ridusse al solo Lazio, la produzione civitonica acquistò una certa rinomanza. Lo storico tedesco Gregorovius, che assistè al giubileo sacerdotale di Pio IX l’11 aprile 1869, in occasione del quale tutte le comunità inviarono omaggi al pontefice, quasi a rappresentare una piccola esposizione industriale del Lazio e della Tuscia, annota nei suoi Diari Romani: “Si vedeva la seta romana, le pignatte di Civita Castellana, i frutti di Nemi, zolfo e allume di Viterbo e di Tolfa…”. Non risulta comunque agevole ricostruire ordinatamente, in mancanza di una vera e propria monografia sulla ceramica civitonica, tutte le vicende dell’imprenditoria locale, dato che le crisi che hanno investito ciclicamente il settore, hanno determinato continue fusioni e frequenti cambiamenti di ragione e denominazione sociale.
Ben presto alla produzione della ceramica artistica e delle stoviglierie si aggiunse quella degli articoli sanitari, la cui introduzione è attribuita dalla tradizione locale all’intuizione e alla genialità di Antonio Coramusi, discendente di una famiglia di autentici artigiani ceramisti.
Egli fece esperienze a Roma, in una piccola fabbrica di maioliche denominata Moletta, sulla strada che da Via della Lungaretta conduce al Gianicolo. Dopo aver studiato a fondo le caratteristiche del nuovo prodotto ed aver appreso le tecniche di fabbricazione, tornò a Civita, dove in località Terrano, attrezzò una rudimentale fornace. Ricorrendo alle sole materie locali, effettuò una serie di prove sperimentali, finchè ottenne i primi positivi risultati. Nasceva così intorno al 1900 l’industria del sanitario. Le prime fabbriche di una certa rilevanza sorsero nei primi decenni del secolo: la Marcantoni, la cui fondazione si fa risalire al 1881, continuò la sua attività fino al 1960, con un impianto in cui venivano prodotti ceramica artistica, stoviglieria e sanitari. Un altro imprenditore operante fin dal 1922 fu il siciliano Salvatore Borruso: egli cercò di apportare innovazioni alla tecnica degli smalti di copertura, per eliminare l’uso degli ossidi di stagno e di piombo. Dal 1923 Ulderico Profili attivò e diresse lo stabilimento che assorbì l’antica “Ruvinetti e compagni di Treia”: egli sperimentò ed impiegò, per gli smalti di copertura, il proprio brevetto “vitrinas”, conseguendo molteplici riconoscimenti nelle principali mostre italiane. Intorno al 1915 Alessandro Sbordoni formò un’azienda che successivamente si sviluppò in tre stabilimenti: uno a Stimigliano Scalo per la produzione di articoli sanitari, marca “Hygia” e due a Civita Castellana per la fabbricazione in terraglia di articoli sanitari, piastrelle ed oggetti di decorazione artistica. Serafino Vincenti, che ottenne nella prima Mostra Romana della ceramica del 1911 ben tre medaglie d’oro, fondò con il fratello nel 1927 l’attuale fabbrica di articoli sanitari, assorbendo la SAFAC. Altra importante fabbrica fu quella impiantata da Ugo Coletta in località Scasato alla periferia dell’abitato. Non tramontò del tutto la produzione artistica, essa anzi continuò a fiorire in piccole e qualificate fabbriche: prima la Falisca Ars, poi via via la Volpato diventata nel 1927 FACI, la F.lli Crestoni, la Coramusi, la Vaselli. Si avviò anche la produzione delle piastrelle nella fabbrica Percossi, presso la quale Basilio Cascella eseguì negli anni Venti i grandi pannelli murali che decorano il porticato pseudoromano nelle terme di Montecatini.
Gli ultimi 50 anni sono stati contrassegnati da alterne vicende: l’economia autarchica, susseguita alle sanzioni del 1935, e il secondo conflitto mondiale non hanno giovato all’affermazione dell’industria civitonica, che ha dovuto ripiegare su materie prime locali, meno raffinate e pregiate, e rinunciare al lancio sui mercati internazionali. Dopo l’effimera ripresa legata alla fase della ricostruzione nazionale nell’immediato dopoguerra, l’intero sistema produttivo civitonico è stato investito da una crisi generale con la conseguente chiusura di alcuni stabilimenti. Tra le cause è necessario comprendere l’inconsistenza del prodotto locale, il ristagno dell’edilizia pubblica e privata, la concorrenza di industrie che vantavano mercato consolidato, reti commerciali diramate ed efficienti, linea di prodotti competitivi per design e qualità. Si imponeva una scelta radicale e coraggiosa: riconvertire ed ammodernare gli impianti, rendere più concorrenziali i manufatti sul mercato. Fino a quel momento le tecniche ed i processi di lavorazione, salvo rare e non sempre fortunate innovazioni, erano rimasti quelli tradizionali: intervento a mano per l’applicazione di lastre d’argilla fresca sugli stampi, successivo assemblaggio dei singoli stampi, verniciatura a bagno, cottura in fornaci toscane a legna. Il periodo 1960-’70 è caratterizzato dall’introduzione dei moderni sistemi di produzione: forni di cottura a tunnel e a ciclo continuo, alimentati a nafta o a gasolio; colaggio del manufatto mediante iniezione di barbotina, selezione dei materiali componenti l’impasto (argilla 30%, caolino 25%, quarzo 25%, feldspati 20%), maggiore cura nella scelta dei modelli e degli smalti.
In tempi ancor più recenti sono stati impiegati i nastri trasportatori e i banchi di colaggio automatici o semiautomatici. Nel settore delle stoviglierie le innovazioni hanno modificato il sistema della foggiatura e del decoro: le macchine rollex, che centrifugano l’argilla contro lo stampo, fanno sì che due operatori siano in grado di produrre 12.000 pezzi al giorno (in precedenza la stessa fase richiedeva l’impiego di 7 lavoratori per produrre 9.000 pezzi). Il decoro a mano è ridotto alle “filettature”, mentre si fa largo ricorso alla serigrafia e all’applicazione di decalcomanie. Contemporaneamente si è cercato di superare la promiscuità di produzione nella stessa fabbrica (sanitari + stoviglierie) con la specializzazione degli impianti: nel 1955 Alvaro Bernardi e Anselmo Rodella hanno fondato la ceramica CASTELLANIA per la produzione in serie delle stoviglierie in terraglia forte. E’ seguito un periodo di straordinario rigoglio e di rapida espansione nel comprensorio, con l’affermazione dei prodotti sui mercati europei ed extraeuropei. Limitando la nostra menzione ai soli insediamenti produttivi esistenti nel Comune di Civita Castellana, citeremo per i sanitari ditte come la FLAMINIA, la FACIS, la MICAS, la SIMAS; la PROFILI, la VINCENTI e per le stoviglierie la PRIMULA, la SAN MARCIANO. La portata di questo incremento trova conferma nelle rilevazioni statistiche.
Nel 1956 funzionavano a Civita Castellana 27 stabilimenti che occupavano una maestranza non superiore alle 1.200 unità; secondo i dati aggiornati al 1986 nel comprensorio risultano attivi 93 complessi di medie e piccole proporzioni per un numero di 3.800 addetti. La maggior parte di questi sono occupati nel settore dei sanitari (49 aziende di cui 15 con più di 15 addetti) e in quello delle stoviglierie (15 aziende con più di 15 addetti) per un complesso di 2.755 addetti. I restanti settori delle piastrelle da rivestimento, accessori da bagno, bomboniere, radiatori, svolgono un ruolo secondario per il volume del fatturato e di affari. Significativo è anche il raffronto con i dati nazionali: nel 1986 la consistenza del fatturato a livello nazionale è stata di circa 11.000.000 di pezzi tra vitreous china (10.200.000) e fire clay (800.000), rispetto alla quale il comprensorio copre complessivamente il 40%, mentre poco prima della seconda guerra mondiale, secondo una stima del tempo, la produzione locale raggiungeva appena il 10%.
Il biennio 1984-85 è stato segnato da un negativo andamento di mercato, che ha comportato, come immediata ripercussione, la riduzione di 600.000 pezzi e la diminuzione dei livelli occupazionali di 280 unità. Tuttavia lo spirito di iniziativa proprio dell’imprenditoria locale e l’impegno delle forze politiche e sociali hanno permesso di superare il punto più cruciale della crisi e di porre le premesse per un ulteriore sviluppo della ceramica civitonica.


I MONUMENTI E LE OPERE D’ARTE

Civita Castellana conserva un notevole patrimonio artistico: i monumenti sono gioielli che appaiono all’improvviso come una rivelazione, quando si percorrono le vie del centro storico. E sono chiese romaniche, come quella del Carmine, già Santa Maria dell’Arco, considerata la primitiva cattedrale della città. I vari rimaneggiamenti subiti non hanno alterato la struttura originaria della costruzione, che si richiama ai caratteri dell’edilizia romana attorno al Mille. Le colonne a fusti scanalati con i capitelli di diverso stile che le sormontano, i marmi che rivestono la cortina del campanile, il pluteo con bassorilievo che funge da altare, sono materiali di spoglio, di epoca romana o altomedievale. La chiesa di San Gregorio, al centro dell’omonima piazzetta, attigua a quella del Comune, si eleva con linee agili e sobrie. In un angolo di piazza del Comune si affaccia San Francesco, chiesa ad una sola navata, il cui impianto del 1200 è stato completamente modificato nel 1700. La presenza secolare dell’ordine francescano è testimoniata dall’annesso convento, poi seminario interdiocesano, che possiede un piccolo, ma grazioso cortile interno. Pure l’architettura civile è degna di considerazione: un palazzetto del XV sec., in via Don Minzoni, presenta due portali con archi a graffa orientale, la base rivestita di bugnato rozzo e la parte superiore di file di bugnato a punta di diamante.
Volgendo attorno lo sguardo, un occhio attento può rilevare nelle costruzioni, nonostante i molteplici interventi di riattamento, singoli elementi decorativi ancora in vista: torri, bifore trilobate, stemmi nobiliari, portali a bugne di travertino o peperino, mascheroni, fregi, ornati altomedievali, stucchi, balconi, epigrafi di varia epoca. Vi sono edifici che hanno mantenuto intergra la loro unità strutturale: i palazzi rinascimentali, come palazzo Trocchi, in via Buozzi, o palazzo Peretti-Baroni in via di Corte, s’impongono per la loro semplice maestosità: quelli dei secoli successivi come Palazzo Rosa, Cazzaniga-Onorati, Petroni-Andosilla e l’albergo della cosiddetta Posta Vecchia rivelano ognuno una specifica fisionomia, una propria originale soluzione.
Tuttavia i monumenti principali si trovano nella parte occidentale del centro storico e distano tra loro qualche centinaio di metri: la Cattedrale di Santa Maria Maggiore e la fortezza del Sangallo. La prima è considerata unanimamente il capolavoro dei Cosmati, una famiglia di architetti e marmorari romani, che lavorarono, a principiare dal sec. XII, a Roma e nel Lazio. La facciata della cattedrale, nonostante appaia sbilanciata sul lato sinistro dal prolungamento di un caseggiato aggiuntivo, recupera la pura essenzialità delle forme classiche: è una struttura solida e chiara, dall’unità lineare che si coordina in limpide masse di sviluppo e di riposo. L’impianto dell’avancorpo è affidato a quattro solidi pilastri: due alle estremità laterali che delimitano il portico e due al centro a sorreggere l’arco che si eleva di slancio. Gli spazi intermedi sono scanditi da tre colonne a capitello ionico. La scala di accesso, di pari ampiezza del pronao, pone l’arco trionfale, che spezza la linearità della trabeazione verso l’alto, in una prospettiva elevata e ne esalta lo sviluppo.
Siffatta simmetria è ricercata come convergenza verso il portale principale, la cui valenza simbolica si dispiega come itinerarium mentis in Deum. L’opera musiva non sottostà come complementare funzione decorativa: i colori vibratili si fondono nella pietra e sostanziano la struttura di luminosità. Nella concezione dei Maestri Cosmati linea e colore sono elementi coessenziali del linguaggio architettonico: coniugando struttura e policromia, pervengono ad una sublime e prodigiosa sintesi formale. Il portale maggiore è ad arco a tutto sesto e si apre con lieve strombatura. Ai lati si innalzano due eleganti coppie di colonne a capitello corinzio: quelle centrali sono sorrette da leoni stilofori convergenti con la testa verso l’ingresso, quelle esterne poggiano su plinti. La lunetta è a ventola traforata, ravvivata da decorazione musiva. Ai lati del portale si aprono due ingressi minori di uguale ampiezza. Quello di sinistra è spoglio di elementi decorativi e nella lunetta si riconosce il mediocre rifacimento di un affresco (San Marciano e Giovanni?). In quello di destra le cornici marmoree sono arricchite di ornati e la lunetta accoglie un pregevole mosaico: Cristo benedicente nell’atto di reggere con la sinistra il vangelo aperto. Il semplice prospetto nel quale si aprono sulla stessa verticale delle porte laterali due finestre a feritoia, è ravvivato da un rosone centrale.
Nel piano del portico e sulla parete della facciata sono stati collocati reperti di varia epoca: le lastre che un tempo ricoprivano le tombe terragne di Nicolò de Summa (1403), di Mariano Lopis (1435) e di Giacomo Panalfuzio (1461), il seicentesco monumento funebre del musicista Virgilio Mazzocchi, un’ara cilindrica del I sec. a.C. di squisita fattura, con figurazioni in bassorilievo di Marte, Venere, Vulcano, e Nike che sostiene la corona al generale vittorioso; lapidi recanti epigrafi romane e medievali; una rozza ara di peperino dedicata al dio Hammo.
Tranne il pavimento che ha conservato tutta la splendida ornamentazione musiva, l’interno della chiesa è stato interamente rimaneggiato nei restauri del 1736-40: ne è risultata un’unica navata con cappelle laterali messe in comunicazione da brevi ambulacri. Una cupola si sovrappone al primo transetto (il secondo corrisponde al presbiterio sopraelevato). L’iconografia originaria ci è comunque nota da una descrizione, che il Cardinali desunse dalla visita pastorale effettuata dal Vescovo Tenderini nel 1738: “L’interno… era a tre navate… di cui la maggiore formata a 16 colonne, otto per parte, così disposte: due colonne ed un pilastro, poi tre colonne ed un pilastro ed altre tre colonne ed un pilastro. Le colonne disuguali avevano capitelli rozzi ed erano sormontati da archi differenti, sopra dei quali correva un cornicione o fregio di peperino, alto circa un palmo sporgente in fuori” A. Cardinali: Cenni storici della chiesa cattedrale… 1935, pp. 30-31). Il presbiterio è sopraelevato e si conclude in tre absidi, di cui quella centrale ha all’esterno una configurazione poligonale. I cinque setti murari sono raccordati da paraste a tutta altezza. Ad esse sono accorpate, ad eccezione di quelle esterne, che sono lisce, semicolonne con capitelli fogliati. Il coronamento è ad archetti pensili che racchiudono figurazioni fito-zoomorfe, che interessano anche i peducci. In un ambiente sotterraneo, aldisotto del piano del presbiterio, si sviluppa la cripta, dedicata ai martiri di Falerii Novi, ss. Gratiliano e Felicissima. La tradizione tramanda che ivi stesso sorgeva un tempio sacro a Giunone, sebbene studi recenti collochino la costruzione alla metà del XII sec. Attualmente vi si accede attraverso una scalea a tenaglia che immette al centro dell’ambiente. Le crociere costolonate sono sorrette da colonne e capitelli di varia epoca e fattura: si tratta in gran parte di materiale di reimpiego. I capitelli più recenti, cioè quelli coevi alla edificazione della cripta, sono di peperino, alcuni fogliati, altri a palmette appena sgrossate. Otto crociere sono state ostruite dai piloni di rinforzo per sostenere il presbiterio appesantito dalle strutture settecentesche. Sui lati minori sono murati due cibori marmorei della fine del XV secolo, dono del Cardinale Rodrigo Borgia, governatore perpetuo della città: quello di destra serviva per custodire il Sacramento, quello di sinistra le reliquie dei santi protettori Marciano e Giovanni.
L’altro emblema di Civita Castellana è il Forte Sangallo, roccaforte poderosa sia per la superficie che occupa che per la mole delle strutture. Fu il papa Alessandro VI, che era già stato governatore perpetuo e munifico benefattore della città, ad ordinarne l’edificazione, comprendendo l’importanza strategica che il sito, già per natura munito, avrebbe potuto assumere nel sistema difensivo a settentrione dell’Urbe. I lavori furono iniziati nel 1494 presumibilmente con la ristrutturazione ed il consolidamento di un preesistente fortilizio medievale. Incaricato della progettazione e della direzione dell’opera fu l’architetto Antonio da Sangallo il Vecchio, il quale si avvalse della collaborazione di una èquipe composta fra gli altri da Cola di Caprarola (che compare come faber lignarius), Perino da Caravaggio, Jacopo Damasono e Jacopo Scotto. Nella storia della ingegneria militare la fortezza rappresenta la fase di trapasso ad una nuova impostazione dell’arte edificatoria. La tecnica difensiva, con l’impiego delle artiglierie e l’efficacia della loro potenza di fuoco, dovette elaborare soluzioni di contromisura come “l’alternarsi di cortine e bastioni secondo un tracciato poligonale o a linee spezzate, costituito da grossi muri a scarpa e da terrapieni; mentre secondo un avveduto sistema di tiri incrociati si dislocavano le postazioni delle artiglierie, delle casematte, dei cunicoli di contromina” (F. Sanguinetti: la fortezza di Civita Castellana e il suo restauro, in “Palladio”, IX, 1-2, pp. 86-87). Senonchè a Civita Castellana questi principi fondamentali non trovano piena applicazione: se è vero che lo spessore delle murature è variato da 5 a 8 metri e viene eliminato l’apparato a sporto, la norma dei tiri incrociati non è sempre osservata.
La planimetria della piazzaforte è quella di un pentagono irregolare con i baluardi, di diversa forma, collocati ai vertici (solo tre dei quali forniti di cannoniere). Sotto il pontificato di Giulio II della Rovere l’opera fu continuata da Antonio da Sangallo il Giovane, anche se bisogna precisare che la rocca aveva già assunto nel complesso il suo assetto definitivo. Sangallo il Giovane aggiunse il portale di accesso in bugnato rozzo recante l’iscrizione IVLIVS P.P.II e il mastio ottagonale (alto 24 metri con perimetro di 80), che domina tutto il complesso e il piano di campagna, o perlomeno lo completò con l’aggiunta delle cimase e del cornicione di coronamento. Alcuni studiosi, come il Giovannoni, propendono per l’attribuzione del cortile maggiore al Sangallo il Giovane per “quella sodezza di membrature e quel proporzionamento largo (che) s’inquadrano nell’opera giovanile del maestro”. Vero è che gravi dissesti costruttivi richiesero il rinforzo delle arcate dell’ordine inferiore con l’aggiunta di sottarchi che hanno alterato, appesantendole, le proporzioni originarie. Verosimilmente Sangallo il Giovane proseguì, fino al completamento dei lavori, l’opera dello zio materno, se si considera che le volte dell’ordine inferiore e le lunette sono decorate con grottesche a trofei militari e a motivi araldici recanti motti inneggianti ai Borgia (Caesar, Alexander VI, W. Borgia). Alla roccaforte si entra attraversando due rivellini: il primo dislocato come avamposto al grande fossato, il secondo a metà dello stesso, seguiti entrambi da ponte levatoio in modo da raddoppiare la sicurezza dell’accesso. Un terzo rivellino a controllo e sbarramento della strada che costeggia il ciglio della  Valle del Rio Maggiore è posto al fianco di nord-ovest.
Superata la ronda del torrione cilindrico si accede, attraverso uno stretto passaggio, al primo cortile a pianta rettangolare. Al termine dei due lati lunghi si aprono due portali di travertino: da quello di sinistra si sale, attraverso una cordonata, al piano di marciaronda e di lì al mastio; da quello di destra, attraverso un androne voltato a botte ed affrescato, ci si immette nel cortile maggiore, al centro del quale il pontefice Giulio II fece costruire una cisterna per la conserva delle acque e un puteale di forma ottagona. Nel cortile maggiore o d’onore si sviluppa un porticato di 24 arcate su due ordini sovrapposti. Al piano superiore si trova l’appartamento papale i cui affreschi sono stati irrimediabilmente compromessi da trasformazioni e rimaneggiamenti.
Dopo un breve splendore iniziale, la fortezza ha patito un lungo periodo di incuria e di abbandono. Trasformata nei secoli successivi in prigione, divenne tristemente nota come la Bastiglia dello Stato Pontificio, dove furono rinchiusi a languire numerosi patrioti italiani. Occupata da un presidio francese e poi dalle truppe pontificie fino al 1870, fu successivamente adibita a reclusorio per i prigionieri di guerra austriaci ed infine, dopo il secondo conflitto mondiale, come ricovero di cittadini sfollati. In tempi recenti la Soprintendenza alle Antichità dell’Etruria Meridionale, con una serie di sistematici interventi di restauro, ha restituito la fortezza al primitivo assetto e l’ha adibita a sede del museo archeologico, che raccoglie le testimonianze provenienti da tutto l’Ager Faliscus.


LE FESTE ED IL FOLCLORE

Il processo di omologazione a modelli indotti dalla cultura urbana e dalla società industriale ha provocato il progressivo sfaldamento della civiltà contadina e delle sue tradizioni, legate ai ritmi stagionali, ai cicli delle colture erbacee ed arboree e, nel contempo, ha modificato profondamente la struttura familiare, con le sue consuetudini patriarcali, con i suoi valori assoluti e stabili. In effetti le feste delle nostre comunità si vanno generalmente adeguando agli standard diffusi su scala nazionale. È evidente che tale processo ha inciso in misura maggiore là dove i fenomeni di industrializzazione e di trasformazione socio-economica sono avvenuti con anticipo rispetto al resto della provincia e dove le comunicazioni e gli scambi con la realtà metropolitana sono stati da sempre più intensi e continui.
Cionondimeno risultano ancora saldi nella coscienza collettiva alcuni riti processionali (la processione del Venerdì Santo, quella del Corpus Domini), le poggiate primaverili (quelle di Santa Susanna, della Madonna delle Piagge e di San Leonardo, nella frazione di Borghetto).
Meglio conservati, anche nelle consuetudini alimentari, appaiono i riti legati ad alcuni eventi del ciclo della vita umana (come il battesimo e il matrimonio) o a solennità ricordative del ciclo dell’anno (come il Natale, la Pasqua, la festività dei santi patroni Marciano e Giovanni).
Frequentate tuttora sono le fiere di merci e bestiame di Ognissanti, di Sant’Antonio e soprattutto quella del 17 settembre, alla quale convengono venditori e compratori da ogni parte delle province e delle regioni limitrofe.
L’unica festa che in qualche modo ha conservato la sua carica vitale, la sua matrice originaria, la sua intensa compartecipazione è il Carnevale, che nel territorio falisco ha radici storiche e culturali antichissime. Accenniamo appena alla “fescennina iocatio”, ai versi fescennini, forme di satira salace, pungente, che i Romani appresero, secondo una etimologia ormai consolidata, dall’oppidum di Fescennium. Più precise notizie sullo svolgimento della festa, durante il Medioevo e il Rinascimento, possono essere ricavate dallo Statuto Comunale: a Carnevale venivano permessi all’interno del centro abitato passatempi e giochi che erano severamente proibiti in altri periodi dell’anno: “Volemo ancora nullo possa giocare dentro in Civita per le vie pubbliche a cutolo, rozzola, con palla de legno, caso overo con altro instrumento,arrozzolando per la terra, alla pena predetta. Volemo tamen solo per detti luoghi dalla natività del nostro Signore fin al carnevale se possa ruzzolare caso tanto” (Statuti Com., Libro de Malefici “Rubrica de quelli che giocano a dadi o carte”, cap. 73).
Un altro capitolo elenca i divertimenti pubblici che il Camerlengo era tenuto ad organizzare nei tre giorni conclusivi di Carnevale. Si tratta di gare di abilità e di prestanza fisica, come si conveniva agli uomini di quell’epoca: l’ultima domenica aveva luogo la corsa dell’anello ed il tiro a bersaglio con la balestra in Piazza di Prato (oggi Matteotti o del Comune); il lunedì seguente la corsa degli asini; il martedì grasso culminava con la corsa delle cavalle e dei “mammoletti”, cioè dei bambini (Stat. Comun., Libro degli Offici, “Rubrica dello palio e balestra da correre”, cap. 40).
Occorre sottolineare che la festa, pur modificandosi e ammodernandosi attraverso i secoli, ha sempre mantenuto una importanza centrale nella vita della comunità civitonica. Se ormai sono divenute sporadiche, se non desuete, manifestazioni proprie del carnevale contadino, come la “satara” (riferimenti mediante brevi versi, allusioni gestuali e mimiche, o combinazioni iconiche ad avvenimenti prevalentemente locali) o la “llegata” (ricerca dello “scapegoat”, del capro espiatorio, cioè del malcapitato che, sorpreso a letto dopo una nottata di balli e divertimenti, veniva trascinato in funi in una mescita e costretto ad offrire la consumazione a tutta la schiamazzante compagnia), si è sviluppata in forme spettacolari la sfilata dei gruppi mascherati e dei carri allegorici.
A Civita Castellana, come nel resto della provincia, il Carnevale inizia ufficialmente il 17 gennaio, festa di Sant’Antonio Abate. In questo giorno si celebra l’intronizzazione, cioè l’investitura ufficiale del re Carnevale. Infatti a rappresentare emblematicamente la loro festa, i civitonici scelgono ogni anno una figura ispirata a situazioni contingenti, ma in genere identica (salvo rare eccezioni) nei tratti fisionomici: si tratta di un enorme “puccio” di cartapesta, cioè di un pupazzo panciuto e rubicondo, che troneggia nel suo effimero regno di bagordi e di baldoria, sulla vasca superiore della fontana nell’ampia e regolare piazza del Comune. Lo accompagna, durante la cerimonia d’ingresso, una folla variopinta, già contagiata dall’allegria spensierata e gaudente del “semel in anno licet insanire”.
La coreografia è completata dalla più strampalata banda che si conosca, la Rustica, gruppo folcloristico istituito da un gruppo di buontemponi nel 1956, che trasforma, mediante strane metamorfosi, in strumenti musicali gli oggetti più inusitati.
Dai Falisci, loro antenati, i civitonici hanno ereditato, oltre al genio di plasmare immagini dall’informe argilla, la capacità di compendiare in una battuta arguta e mordace, carica di comicità graffiante, tutto un discorso. Ed è proprio per questa loro inclinazione al motteggio, alla risata pronta ed aperta, che l’antica fama li predica in un blasone popolare “burattini”, giacchè per il resto gli abitanti di Civita Castellana si dimostrano operosi ed intraprendenti: sono riusciti grazie alla loro industriosità a creare fabbriche di ceramica che esportano manufatti in tutto il mondo, facendo della loro cittadina il polo industriale più importante del Viterbese. Con lo stesso spirito creativo, con lo stesso attaccamento i Civitonici organizzano quella che da sempre considerano la “loro festa”. Ma in che cosa consiste più propriamente il Carnevale di Civita Castellana? In quali manifestazioni si realizza e culmina? Quali forme popolari conserva? Bisogna subito dire che un sapore veramente tradizionale si ritrova nelle specialità gastronomiche che vengono preparate in ogni famiglia secondo ricette secolari e che il visitatore può avere la fortuna di gustare solo in qualche locale caratteristico del centro storico: gli “scroccafusi”, castagnole di pasta dolce fritte e condite con il miele, le “frappe”, losanghe o strisce di pasta dolce fritte nell’olio bollente, i deliziosi “gravioli” ripieni di ricotta condita con rum, ed infine i “frittelloni”, sottili diaframmi di pastella passati velocemente in padella ed incaciati in abbondanza con formaggio pecorino, boccone che può soddisfare i palati più esigenti.
Ma soprattutto persiste nel carnevale civitonico lo spirito più genuino della festa, cioè il capovolgimento dei ruoli, i travestimenti, le mutazioni (per fortuna solo nella foggia dei vestiti) transessuali, il tutto in una miscela frastornante di luci e colori che è unica nel suo genere. Indubbiamente quello civitonico è il Carnevale più spontaneo, liberatorio e sfrenato della Provincia.
Dopo la fiammata del giorno inaugurale, la festa sembra placarsi nelle attività quotidiane; invece fervono i preparativi: i costumi prendono forma sotto le agili mani delle sarte, i pupazzi che devono abbellire i carri cominciano ad assumere una precisa fisionomia, le pagine delle riviste vengono ridotte a quintali di coriandoli.
Nell’ultima domenica di Carnevale e nel Martedì Grasso, durante il corso di gala, la festa riesplode per incanto nella sua fantasmagoria di luci e suoni. In questi due giorni da Piazza della Liberazione a quella del Duomo si svolge uno spettacolo continuo, in cui si succedono migliaia di maschere, bande precedute da splendide majorettes, gruppi folcloristici. Non mancano gli “irregolari”, le maschere in libertà, forse le più caratteristiche, che improvvisano scorribande, s’infilano nel corteo, si frammischiano alla folla, provocano scherzosamente gli spettatori con frizzi e lazzi, li coinvolgono nei balli, li invitano a libagioni di vino, mentre una nube di coriandoli si diffonde nell’aria. Rapiti in questa atmosfera, i giovani compiono, saltando cantando ballando, senza mai fermarsi, due chilometri di percorso e danno vita ad uno spettacolo che non è facile dimenticare.


UN EVENTO MEMORABILE

La storia millenaria di Civita Castellana trapassa nell’oggi in un intreccio di fatti quotidiani ed eccezionali, che plasmano la fisionomia di questa cittadina e del suo popolo, lasciando un’impronta indelebile, un segno di riconoscimento nelle persone e nelle pietre.
La storia è Ktèma es aéi, una consegna di umane vicende, di valori-tradizioni-cultura alla memoria delle generazioni che si succedono. Ebbene il 1988 rappresenta, nella storia della nostra comunità, un anno straordinario; esso sarà contrassegnato negli annali da un evento memorabile: la visita del pontefice Giovanni Paolo II alle popolazioni della Diocesi, per celebrare la conclusione dell’anno mariano, la peregrinatio Mariae, e per esaltare, nella giornata fulgida del 1 ° maggio, la dignità del lavoro.
Nel corso dei secoli più volte i successori alla cattedra di S. Pietro hanno visitato Civita Castellana: dal Liber Notarum di Giovanni Burchardo attingiamo che l’energico Giulio II della Rovere, volendo ispezionare i lavori ai bastioni della Rocca, nel tardo pomeriggio dell’8 settembre 1505 si portò con il suo seguito da Nepi fino a Civita. Entrò in città per la Porta Borgiana accolto dai Conservatori e dai primari cittadini. Fanciulli in tunica bianca, inneggiarono a lui, acclamando “Giulio Giulio!” e agitando ramoscelli d’olivo.
Giunto nella Chiesa di Santa Maria dell’Arco (oggi del Carmine), indossò i sacri paramenti e poi processionalmente proseguì fino alla Cattedrale, dove, venerate le reliquie dei SS. Martiri, benedisse il Popolo, ritirandosi quindi nella Rocca, nella quale rimase sette giorni. Non potendosi trattenere in Civita fino alle feste patronali, Giulio II ne fece anticipare la data al 14 settembre, che cadeva di domenica. In quella solennità egli assistette alla messa nella cattedrale, circondato da sei cardinali. Il 15 Settembre si fermò a Falleri presso il cardinal Recanatese, di lì passò a Soriano e a Caprarola ed il 18 settembre pervenne a Santa Maria della Quercia.
Non meno fastosa fu la visita compiuta nel 1597 da papa Clemente VIII, come riferisce un cronista contemporaneo: “Entrando noi nella città, trovammo la piazza principale tutta piena di ricche mense copiosissime di ottime vivande, con fontane di vino, e tutto quello che a grande e nobile splendezza richiedeva. Accompagnando Nostro Signore sino alla Rocca, della quale è impossibile dir l’eccellenza del sito, la magnificenza delle stanze e del cortile, la copia delle stanze ben divisate, i paramenti regali, i nobili serventi, l’ordine, la quiete”.
A perpetua memoria dell’avvenimento i signori Conservatori della Comunità fecero incidere l’epigrafe, che viene tuttora conservata nel portico della cattedrale.
Per avvicinarsi ai nostri tempi, il 15 giugno 1782 fu la volta di Pio VI e il 3 luglio 1800 di Pio VII. Ultima in ordine cronologico fu la visita di Pio IX il 4 maggio 1857. In quella circostanza alla finestra centrale, che si apre sul lato del palazzo vescovile prospiciente la piazza del duomo, fu aggiunto un provvisorio balcone di legno, per permettere al pontefice di salutare il popolo che gremiva la piazza e di impartire la benedizione. Quel balcone fu di poi rifatto in muratura e con ringhiera in ferro battuto.
In onore di pio IX fu fatto incidere, sull’architrave del portale principale dell’episcopio, il motto allitterativo PIA PATET PIIS = (domus) pia patet piis (pontificibus/hominibus), che si carica di duplice significatio, riferendosi come primo senso all’ospitalità accordata ai vari pontefici di nome Pio e allargandosi all’affermazione del dovere di ospitalità verso tutte le persone pie e timorate di Dio.
Dopo ben 131 anni un pontefice è tornato di nuovo tra la nostra gente, non più come autorità insignita di potere temporale, ma come padre spirituale della cattolicità. Sua Santità Giovanni Paolo II ha fatto il suo ingresso in città, alle ore 16 di domenica primo maggio, ripercorrendo lo stesso itinerario fatto da Giulio II, da Castel Sant’Elia, più precisamente dal Santuario di Santa Maria ad Rupes, dove aveva trascorso in raccoglimento e preghiera la prima parte della giornata assieme ai religiosi del Convento, suoi connazionali.
Sul sacrato del Duomo erano convenuti ad attenderlo il Sindaco, la Giunta, i Consiglieri Comunali, oltre alle autorità civili, religiose e militari della Provincia.
Il sindaco Carlo Cimarra, nel porgere all’augusto ospite i saluti di benvenuto a nome della cittadinanza, ha sottolineato la specifica vocazione di Civita Castellana: una storia e una cultura fondata sulla dignità del lavoro. Nella breve replica Giovanni Paolo II ha accennato alla millenaria esistenza del centro falisco: “Falerii Veteres, Falerii Novi, Civita Castellana: in questi tre termini sono racchiuse le vicende attraverso cui è passata la trimillenaria storia della vostra città, sviluppatasi in uno scenario naturale, al quale le acque del Tevere e le cime del Soratte e dei monti Cimini fanno suggestiva corona”.
Dopo aver ammirato gli interni della cattedrale, addobbata per l’occasione a festa, il pontefice si è recato nella palestra comunale “Pino Smargiassi”, dove ha avuto un festoso incontro con i lavoratori. La giornata si è conclusa in modo solenne con la celebrazione, assieme ai vescovi dell’Alto Lazio, del rito della messa nello stadio comunale “Turiddu. Madami”.
Via ha assistito, oltre ai vescovi delle diocesi limitrofe e al clero della diocesi, una moltitudine di fedeli, accorsi a venerare l’immagine di Santa Maria ad Rupes e a riverire il Pontefice. Se il momento di più intensa ed intima partecipazione è stato quello della cerimonia religiosa, quello più significativo è stato l’incontro con i lavoratori, nel quale Giovanni Paolo II ha ribadito con fermezza i concetti e i temi trattati nella recente enciclica “Laborem exercens”. Vogliamo concludere questo nostro excursus su Civita Castellana, con la citazione del passo centrale di quel discorso, che lanciamo come messaggio di fratellanza e di solidarietà all’umanità intera: “Essere lavoratori, essere operai è un pregio, un titolo di nobiltà più confacente alla natura umana e più in essa radicato di molti, in definitiva secondari e spesso anche discutibili. Essere lavoratori e lavoratrici risale, infatti, alla stessa vocazione umana. Come ho detto nell’enciclica “Laborem exercens”, il lavoro è una dimensione fondamentale dell’esistenza umana sulla terra. Chi lavora si pone con ciò in sintonia con la propria vocazione di uomo e di donna; diventa, per così dire, più pienamente uomo e più pienamente donna. E contribuisce, in questo modo, allo sviluppo di ogni uomo e di tutti gli uomini”.
                                                                                          
                                                                                              (Trascrizione di Sergio Carloni)




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